1631 FOCUS IMMIGRAZIONE: IL NUOVO NUMERO DEL NOTIZIARIO UIL

20060621 19:59:00 webmaster

A cura del Servizio Politiche Territoriali della Uil
Dipartimento Politiche Migratorie

La Cassazione
"Non reiterabili i decreti di espulsione"
Sentenza della prima sezione penale. Per i giudici della Suprema Corte non si deve "innescare una spirale di condanne"

Roma, 15 giugno – Ai clandestini che non hanno rispettato un primo ordine di espulsione non ne può essere inflitto un altro. È arrivata ieri dalla Cassazione un’altra sentenza importante sull’applicazione della legge sull’immigrazione, dopo quella che una settimana fa aveva "bocciato" l’ arresto dei clandestini recidivi. In sostanza, secondo piazza Cavour il questore non può emanare più di un decreto di espulsione nei confronti degli immigrati clandestini. Questo per evitare che gli immigrati trovati una seconda volta senza documenti, e che non hanno obbedito all’ordine di lasciare il territorio italiano, siano processati e condannati più volte per lo stesso reato. La Suprema Corte sottolinea che l’intento del legislatore, nel varare le norme sull’immigrazione irregolare, è quello di garantire l’esecuzione effettiva del decreto di espulsione e non quello di dare il via a una serie infinita di condanne. Bisogna evitare, scrive la Cassazione, di "innescare una spirale di condanne ed esasperare la carica criminogena della normativa sull’immigrazione clandestina, la cui reale ‘ratio’ va identificata, piuttosto, nell’intento legislativo di assicurare l’effettività dell’allontanamento dal territorio italiano dello straniero". Senza dimenticare che il proliferare dei decreti di espulsione aggrava il lavoro dei tribunali, dal momento che si tramutano in altrettanti processi. La prima sezione penale della Cassazione era stata chiamat a pronunciarsi su un ricorso della procura della corte di Appello di Brescia contro l’assoluzione impartita dal tribunale bresciano a un clandestino, Fred I.. Questi era stato sorpreso nuovamente senza documenti e senza aver obbedito a un precedente decreto di espulsione e quindi gli era A stato ‘inflitto’ un nuovo decreto prefettizio per "inottemperanza alla precedente intimazione". Il tribunale di Brescia, oltre ad assolvere Fred con la formula "perché il fatto non sussiste" aveva anche disapplicato il secondo decreto espulsivo. Questa decisione è stata appellata dalla procura bresciana che, in Cassazione, ha sostenuto "che il tribunale aveva ingiustamente disapplicato il provvedimento amministrativo, discostandosi dalla giurisprudenza della Cassazione secondo cui l’ordine del questore è reiterabile anche nell’ipotesi in cui lo straniero privo di permesso di soggiorno sia stato già condannato e sia stato raggiunto da nuovo decreto di espulsione". Ma l’orientamento richiamato dal pm di Brescia è stato, adesso, "rimeditato" da piazza Cavour che ha rigettato il reclamo del pubblico ministero.

Immigrazione Governo e Unione vanno avanti, critiche dalla Lega
Centrosinistra al lavoro sul decreto flussi bis, cittadinanza e modifica della Bossi-Fini
da StranieriinItalia.it

ROMA, 16 giugno – Un nuovo decreto flussi "utile anche per far emergere la clandestinità e il lavoro sommerso", una Pdl per agevolare la concessione della cittadinanza italiana agli stranieri nati in territorio nazionale da genitori residenti da almeno 2 anni, la necessità di modificare la Bossi-Fini anche se i tempi non saranno brevi. Su queste direttive si stanno muovendo Governo e Unione per modificare la legislazione in tema di immigrazione, con le iniziative a cui sta lavorando il ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, e con la proposta di legge presentata dall’Ulivo, primo firmatario Ermete Realacci, ora assegnata alla commissione Affari Costituzionali della Camera. Ma dall’opposizione si è levata forte la protesta della Lega, che in particolare si è detta "nettamente contraria" alla proposta di legge. "Sarebbe di fatto un colpo di stato – ha detto il presidente dei deputati della Lega Nord, Roberto Maroni – contro il quale faremo una battaglia durissima. L’Ulivo sta cercando con questo testo di stravolgere completamente la Costituzione attraverso una legge ordinaria. Si tratterebbe di un vero stravolgimento, altro che la nostra riforma!". "Quella sulla cittadinanza – ha detto dal canto suo Ferrero – è un pezzo della risposta ma non è la soluzione". Sul superamento dei Cpt, il ministro ha soggiunto che "non si può delegare tutto al governo, il Parlamento se ne faccia carico". Bisogna, ha detto ancora, "rompere quel meccanismo perverso" per il quale oggi "un immigrato clandestino finisce in un Cpt, ci resta per 60 giorni, poi, messo fuori dalla struttura, viene ribeccato, messo in galera e poi, una volta fuori dal carcere, venga rimesso in un Cpt per altri 60 giorni. Se la polizia lo becca quando esce, rifinisce in galera e avanti così. La modifica di questo meccanismo è una delle cose previste dal programma dell’Unione". In tema di decreto flussi, poi, il ministro ha invitato a non "prendersi in giro. E’ del tutto evidente che una parte delle domande arrivate per il decreto flussi 2006 riguardano stranieri che sono già in Italia e lavorano in nero". Anche perché il nuovo decreto flussi "potrebbe essere utile – ha detto il ministro – anche per far emergere la clandestinità e il lavoro sommerso. Uno dei problemi dell’ economia del Paese è ripulire il nero e l’illegalità diffusa e farla emergere. Così si pagano anche le tasse e si contribuisce al risanamento del bilancio. Circa 300 mila persone – ha ribadito Ferrero – sono rimaste fuori dal decreto flussi 2006. E’ necessario un secondo decreto che faccia corrispondere l’azione di governo alla realtà del Paese. Vale a dire, garantire a tutti coloro che hanno diritto di avere un lavoro e una casa di poter entrare regolarmente". Tuttavia, ha aggiunto il ministro "i tempi per modificare la legge Bossi-Fini saranno lunghi. La nostra maggioranza al Senato non è grandiosa e il fatto che questa sia una legge-bandiera del centrodestra causerà una fortissima battaglia politica". Ferrero ha anche aggiunto che il secondo decreto flussi annunciato è uno degli strumenti che consente di fare politiche di immigrazione in attesa di modificare la Bossi-Fini: "questa é la direzione di marcia del governo: ed è su questo che bisogna giudicare. Poi lavoreremo alla modifica della legge". E mentre la politica discute, dalla Guardia Costiera, impegnata ogni giorno a contrastare l’immigrazione clandestina, ma anche a soccorrere tanti disperati del mare (nel 2006 sono state 4.149 le persone soccorse) propone l’utilizzo di aerei senza pilota nel dispositivo di controllo dell’immigrazione clandestina, come ha detto il comandante generale delle capitanerie di porto, l’ammiraglio Luciano Dassatti, sottolineando di essere "entusiasta" di questa possibilità.

Riforma della cittadinanza
Proposta di legge dell’Ulivo
Chi nasce in Italia diventerà subito cittadino italiano, tempi più brevi per chi vuole naturalizzarsi
Roma, 17 giugno 2006 – Cittadinanza automatica per i bambini nati in Italia o che passano qui gli anni decisivi della loro formazione e tempi più brevi per la naturalizzazione. Questi i cardini di un progetto di legge dell’Ulivo (primo firmatario Ermete Realacci) che vuole riformare la legge sulla cittadinanza. Presentato alla Camera dei Deputati a fine aprile, il pdl è stato assegnato la scorsa settimana alla Commissione Affari Costituzionali. Il primo dei due articoli del pdl è dedicato alle seconde generazioni e prevede lo acquisto automatico della cittadinanza italiana per bambini nati in Italia figli di genitori stranieri regolarmente presenti da almeno due anni. Lo stesso diritto è esteso anche ai minori stranieri che, pur non essendo nati in Italia, hanno trascorso qui continuativamente almeno sei anni, frequentando un ciclo scolastico o di formazione professionale o svolgendo attività lavorativa. Dovranno inoltre dimostare anche un’adeguata conoscenza della lingua e della cultura italiana. Il secondo articolo riduce da dieci a sei anni il periodo di permanenza regolare in Italia necessari per chiedere la naturalizzazione. Il cittadino straniero che presenta domanda dovrà dimostrare inoltre di avere un reddito sufficiente al proprio sostentamento e anche in questo caso di conoscere in maniera adeguata la lingua e la cultura italiana.

Permessi di soggiorno: le Questure formeranno i patronati
Ecco le direttive inviate a fine maggio dal Viminale a tutti gli Uffici Immigrazione
Roma, 14 giugno – Saranno i responsabili degli uffici immigrazione a formare e a mantenere i contatti con gli operatori dei patronati coinvolti nel new deal dei permessi di soggiorno. È quanto si legge in una circolare inviata il 30 maggio scorso a tutti le Questure dal prefetto Pasquale Piscitelli, direttore centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle frontiere del Ministero dell’Interno che pubblichiamo in anteprima. Dal 31 maggio sono stati trasmessi a tutte le Questure i contatti dei Patronati che operano nelle province di riferimento. I responsabili degli Uffici Immigrazione sono chiamati a "instaurare un rapporto di libera collaborazione", per poi "procedere alla formazione in materia di immigrazione degli operatori preposti all’utilizzo dell’applicativo per l’attività di precaricamento delle istanze". Incombenze che hanno già sollevato le proteste dei diretti interessati. Nessun riferimento a quando partirà l’attività di formazione (tempi e modi dovranno essere concordati caso per caso), tantomeno alla data in cui si potranno iniziare a presentare negli uffici postali le domande per i permessi di soggiorno. Copia della circolare è pubblicata sul sito www.uil.it/immigrazione

Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell´asilo per l´anno 2007: termini e modalità per le domande di accesso alla ripartizione da parte degli enti locali
Una nota del Viminale

Ai sensi dell´articolo 2, comma 4, del decreto del Ministro dell´Interno emanato in data 28 novembre 2005, a decorrere dal 1 luglio 2006 e non oltre il 31 luglio 2006 gli Enti locali possono presentare domanda di accesso alla ripartizione delle risorse del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell´asilo per l´anno 2007. Le risorse del Fondo sono destinate al sostegno finanziario degli Enti locali, anche eventualmente associati, delle loro unioni o consorzi, che prestano servizi finalizzati all´accoglienza dei richiedenti asilo e dei loro familiari, alla tutela dei rifugiati e degli stranieri destinatari di altre forme di protezione umanitaria, di cui all´articolo 1 sexies del decreto legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, introdotto dall´articolo 32 della legge 30 luglio 2002 n. 189. Le domande degli Enti locali, elaborate sulla base delle linee guida allegate al D.M. 28 novembre 2005 (allegato A) e presentate utilizzando il modello di domanda allegato al medesimo provvedimento (allegato B) sono consegnate a mano o inviate, tramite raccomandata con avviso di ricevimento, al Ministero dell´Interno, Dipartimento per le Libertà Civili e l´Immigrazione, Direzione Centrale dei Servizi Civili per l´Immigrazione e l´Asilo.Le domande spedite dopo la decorrenza del termine sono inammissibili.

Circolare del Ministero dell’interno n. 12/2005
Modifiche ed integrazioni alle disposizioni contenute nel regolamento di cui al DPR 31 Agosto 1999, n. 394
Cambio di residenza anche con la sola ricevuta del rinnovo del permesso di soggiorno

Questa circolare da la possibilità ai cittadini non comunitari di effettuare il cambio di residenza da un Comune ad un altro anche con la ricevuta del rinnovo del permesso di soggiorno.
La circolare ricorda inoltre che la cancellazione dall’anagrafe avviene dopo 13 mesi dalla data di scadenza del permesso, se in quel periodo però lo straniero esibisce la ricevuta del rinnovo in anagrafe la cancellazione viene sospesa.
OGGETTO: Modifiche ed integrazioni alle disposizioni contenute nel regolamento di cui al DPR 31 Agosto 1999, n. 394
Prot. n. 200502414 – 15100/325
In attuazione dell’ art. 34, comma 1, della legge 30 Giugno 2002 n. 189, è stato emanato il DPR 18 Ottobre 2004, n. 334, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 33 del 10.02.2005, recante modifiche ed integrazioni alle disposizioni contenute nel DPR 31 Agosto 1999, n. 394.Al riguardo, in ordine al citato DPR n. 334/2004, si ravvisa l’opportunità di segnalare l’art. 2, che ha dettato nuove previsioni in materia di rapporti con pubbliche amministrazioni e di riconoscimento di documenti e certificazioni concernenti stati, fatti e qualità personali di cittadini stranieri, nonchè l’ art. 14 che, nel modificare l’ art. 7 del DPR 223/89, ha espressamente previsto che gli "stranieri non decadono dall’iscrizione nella fase di rinnovo del permesso di soggiorno." A tale ultimo proposito, è da richiamare l’ ultima parte dell’ art. 11 del Regolamento Anagrafico, il quale dispone che per i cittadini stranieri si proceda alla cancellazione dai registri anagrafici in caso di mancato rinnovo della dichiarazione di cui all’art. 7, comma 3, dello stesso regolamento, trascorso un anno dalla scadenza del permesso di soggiorno, previo avviso da parte dell’ufficio, con invito a provvedere nei successivi trenta giorni. La fattispecie in parola prevede dunque il concorso di due elementi. Il primo costituito dall’ omessa dichiarazione e il secondo rappresentato dal decorso dell’ anno dalla scadenza del permesso di soggiorno e dal conseguente atto di diffida. Dalla lettura coordinata dell’ art. 7, nella sua nuova formulazione, e dell’ art. 11 del medesimo DPR 223/89, si desume che il termine di un anno vada riferito all’ ipotesi di omessa attivazione delle procedure di rinnovo del titolo di soggiorno, mirando, tale ultima disposizione, alla definizione delle posizioni anagrafiche dei cittadini stranieri che non abbiano presentato tale richiesta (ad esempio per mancanza di requisiti), e non di quelli, invece, che abbiano prodotto regolare domanda. In conseguenza di tanto, si è dell’ avviso che, nel caso di trasferimento di residenza dello straniero in altro Comune, l’ Ufficiale di anagrafe, a cui è stata rivolta la richiesta, nell’ambito dei suoi poteri istruttori ed accertativi, oltre a verificare l’ esistenza del requisito della dimora abituale, dovrà farsi esibire dallo straniero la ricevuta comprovante l’avvenuta presentazione, nei tempi e nelle forme previste, della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno, corredata dalla copia di quest’ ultimo titolo. Sulla tematica si richiamano, altresì, l’ art. 20 del DPR 223/89 e l’art. 5 del decreto del Ministero dell’ Interno del 18.12.2000, i quali prevedono che il Comune, che riceve la richiesta di iscrizione in APR da parte di un cittadino straniero, lo iscrive nell’apposito schedario, inserendo i dati relativi alla cittadinanza e al permesso in suo possesso, che, nel caso di specie, dovrà essere considerato quello in corso di rinnovo. Peraltro, sulla stessa linea si pone anche l’ art. 39 del DPR 334/2004 che, nel modificare il quarto comma dell’ art. 42 del DPR 394/1999, prevede che, nella fase di rinnovo del permesso di soggiorno, lo straniero non decada dall’ iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale. Si pregano le SS.LL. di portare a conoscenza dei Sig.ri Sindaci il contenuto della presente, valutando, peraltro, come già anticipato con circolare del 02.07.2004, l’opportunità di porre in essere una serie di iniziative finalizzate a dare attuazione alle procedure previste dall’art. 15 del D.P.R. 31.8.1999, n. 394, e dal citato decreto del Ministro dell’Interno del 18 dicembre 2000, relativo alle modalità di comunicazione dei dati relativi ai cittadini stranieri extracomunitari fra gli uffici anagrafici dei Comuni, gli archivi dei lavoratori extracomunitari e gli archivi dei competenti organi centrali e periferici del Ministero dell’Interno, nonché definire il termine per l’aggiornamento e la verifica delle posizioni anagrafiche dei cittadini stranieri già iscritti nei registri della popolazione residente.
Si ringrazia per la collaborazione.
IL DIRETTORE CENTRALE

Voto agli immigrati: su proposta dell’Unione accordo anche dell’UDC

Roma, 16 giugno – Ci aveva pensato Gianfranco Fini nella scorsa legislatura a rompere un tabu’ nella destra parlando di diritto di voto alle amministrative per gli extracomunitari che risiedono regolarmente in Italia (i comunitari, grazie a una norma Ue, questo diritto ce l’hanno gia’), l’Unione l’ha inserito nel programma elettorale e ora, anzi in realta’ fin dal 10 maggio, anche l’Udc si schiera oggettivamente a favore. La vicesegretario del partito, Erminia Mazzoni, ha presentato infatti oltre un mese fa alla Camera una proposta di legge per concedere il diritto di elettorato attivo e passivo -cioe’ a votare e ad essere eletti- ai cittadini stranieri non comunitari che risiedano regolarmente in Italia da oltre cinque anni. Mazzoni fa riferimento alla Convenzione europea sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica locale, in cui gli stati firmatari si impegnavano a garantire ai cittadini stranieri residenti le liberta’ "di espressione, riunione ed associazione" (capitolo A), l’istituzione di "organi consultivi volti a rappresentare i residenti stranieri a livello locale" (capitolo B) ed "il diritto di voto alle elezioni locali" (capitolo C). Spiega l’esponente centrista: lo Stato italiano recepi’ nel 1994 i primi due capitoli, ma non il terzo con la motivazione che per allargare la platea dei votanti e degli eleggebili agli stranieri sarebbe servita una legge costituzionale e non la semplice ratifica di una Convenzione europea. Ora, prosegue Mazzoni, questa necessita’ e’ caduta, visto che il Trattato di Maastricht, recepito per questa parte nel 1996, ha gia’ allargato il diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni locali agli stranieri comunitari e senza ricorrere a modifiche costituzionali. Quindi, ragiona l’esponente centrista, e’ ora di procedere a dare il diritto di voto anche ai non comunitari residenti in Italia da cinque anni. Alla Camera, la vicesegretario dell’Udc non e’ la sola ad aver presentato una pdl sul diritto di voto agli immigrati: rispettivamente il 28 aprile e il 30 maggio Marco Boato dei Verdi e Graziella Mascia di Rifondazione hanno prodotto testi sul tema. Viene cosi’ a profilarsi una possibile amplissima maggioranza alla Camera su questo tipo di proposte, che parte dalla sinistra estrema per arrivare all’Udc e a quei settori di Alleanza nazionale che condividono le aperture del loro presidente. In Senato finora si e’ mossa solo l’Unione per estendere il diritto di voto locale ai cittadini extracomunitari. Nel programma elettorale del centrosinistra si parla di concessione del diritto di voto dopo "un congruo numero di anni" di residenza in Italia. Il senatore Gigi Malabarba, del Prc, ha individuato questo lasso di tempo congruo in tre anni di regolare soggiorno: la pdl prevede che i comuni istituiscano un apposito registro elettorali in cui i cittadini extracomunitari possono iscriversi, se lo vogliono, per partecipare alle elezioni amministrative locali. Piu’ minimalista, ma con ragionevoli speranze di approvazione, una proposta di legge firmata da senatori di tutta l’Unione- primo il diessino Walter Vitali- che chiede ai comuni di "estendere il diritto di elettorato attivo e passivo per le elezioni circoscrizionali" ai residenti stranieri non comunitari (iniziativa perlatro gia’ presa da diversi comuni). Radicale invece la pdl del gruppo Verdi-Pdci, prima firmataria la capogruppo Manuela Palermi: una riforma costituzionale che prevede la "doverosa" estensione del diritto di voto "nelle elezioni politiche e regionali ai cittadini stranieri regolarmente residenti in Italia, rimandando a un disegno di legge ordinaria quanto concerne il diritto di voto nelle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali". Sarebbe, scrivono verdi e comunisti, "il primo passo per la costruzione di una nuova cultura del confronto e del dialogo". Anche perche’, e’ la prosaica constatazione, "gli extracomunitari che lavorano nel nostro Paese, stimati in circa 800.000 unita’ con un monte retributivo di circa 9 miliardi di euro, forniscono un apporto al valore aggiunto nazionale di quasi 35 miliardi di euro annui, pari al 3,2% del Pil".

dal sito Altalex.com
Le assunzioni di cittadini stranieri nella Pubblica amministrazione italiana
di Aldo Niccoli
1. Premessa
Il dibattito sulla possibilità che cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia possano partecipare a concorsi per l’assunzione presso amministrazioni pubbliche sta assumendo importanza crescente, sia per la sempre maggiore presenza nel nostro Paese di cittadini comunitari ed extracomunitari, sia per la frammentarietà del quadro normativo e delle interpretazioni date sia dalla giurisprudenza che dalla prassi delle amministrazioni pubbliche. Si tratta di una tematica a cavallo di molte discipline, in quanto partecipa di aspetti del diritto del lavoro, di quello pubblico, ma anche del diritto privato, comunitario ed internazionale. La questione, oltre ad alimentare un serrato dibattito dottrinale, costituisce inoltre una nuova frontiera del contenzioso del lavoro. A fondamento di questo contenzioso vi sono, anzitutto, le pretese dei lavoratori stranieri che si vedano pregiudicati nelle loro aspirazioni lavorative; in effetti, vi sono non pochi punti di contatto col tema più generale degli atti discriminatori nei confronti dei lavoratori stranieri. D’altro canto, non vanno trascurate nemmeno le istanze, anche esse in crescita, avanzate da cittadini italiani o comunitari che si ritengono estromessi dall’impiego a favore di un lavoratore straniero o extracomunitario, presente nella stessa graduatoria di concorso. L’attuale mancanza di certezza nella ricostruzione del quadro normativo e di quello giurisprudenziale, ancora in via di formazione, fa da specchio ad una prassi amministrativa priva di assetto stabile. Per questa ragione, la Presidenza del Consiglio – Dipartimento della Funzione Pubblica – Ufficio per il personale delle pubbliche amministrazioni, ha ritenuto di dover emanare un parere sul punto, il n.96 del 28/9/2004; col citato parere essa ha svolto un’attenta disamina della normativa vigente, con particolare attenzione al rapporto tra l’ordinamento generale e la normativa speciale dell’impiego nelle pubbliche amministrazioni, nonché al rapporto tra disciplina nazionale e disciplina di origine comunitaria, anche considerando che da quest’ultima emerge la tendenza a liberalizzare l’accesso al lavoro privato e autonomo, ma non al lavoro pubblico. Maggiore chiarezza si ha nell’ambito del lavoro privato, che interessa però solo gli enti pubblici economici e non anche quelli cd. funzionali, cui si applica la disciplina del lavoro pubblico o quella del lavoro pubblico privatizzato, simile ma non identica a quella del privato. Nel citato ambito, pertanto, soprattutto di recente si assiste ad una produzione normativa volta ad emanare norme attuative, di dettaglio o anche solo puntualizzazioni e chiarimenti. Le lacune permangono, allo stato, per l’impiego pubblico, anche se, come si vedrà, negli orientamenti delle varie autorità consultive e giurisdizionali coinvolte si sta consolidando un orientamento tendenzialmente restrittivo, pur con vari distinguo.
2. L’assunzione di cittadini italiani nella pubblica amministrazione
L’analisi ha preso le mosse dall’art. 51 della Costituzione, secondo cui tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. L’intento del legislatore costituzionale fu di garantire che i fini pubblici fossero perseguiti e tutelati nel migliore dei modi, e per questo si puntò sui cittadini, nei quali si riteneva esistente un anaturale compenetrazione dei fini personali in quelli pubblici (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, sent. 43/1985). Di natura analoga sono i valori sottesi all’art.98 della Costituzione, che fa riferimento al "servizio esclusivo della nazione" richiesto ai dipendenti pubblici. Conformemente, il D. P. R. 3/1957, cd. Testo unico degli impiegati civili dello Stato, all’art.2, pone la cittadinanza italiana fra i requisiti generali per l’ammissione agli impieghi. La norma è tuttora vigente e si applica anche al rapporto di lavoro contrattualizzato, in quanto non interessa le vicende del rapporto di lavoro dei dipendenti della pubblica amministrazione (la cui fonte di disciplina è ormai il contratto collettivo nazionale), ma è norma più generale, posta dall’ordinamento a tutela degli interessi collettivi. Non contrasta con quanto esposto l’estensione della possibilità di accesso ai pubblici uffici fatta più di recente a favore degli italiani non appartenenti alla Repubblica; tale previsione si spiega infatti come scelta del Legislatore di introdurre una norma di parziale eccezione, ferma restando la regola, appunto, che i pubblici uffici siano riservati in linea di principio ai soli cittadini (in tal senso il parere 18/2/2004 del Comitato consultivo dell’Avvocatura generale dello Stato).
3. L’assunzione di cittadini comunitari
In merito all’accesso all’impiego pubblico da parte dei cittadini comunitari, va rilevato come l’art. 39 Trattato preveda che il principio di libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità non si applichi agli impieghi nella pubblica amministrazione; tale assunto è stato precisato dalla Corte di Giustizia Europea, con la sentenza del 17/12/1980, causa 149/79, nel senso che l’esclusione non è assoluta, ma vi rientrano i posti che implicano in maniera diretta o indiretta la partecipazione all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche, poiché tali posti presuppongono da parte dei loro titolari l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato, nonché la reciprocità di diritti e doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza. Conforme a tale previsione è l’art. 38 del D.Lgs. 165/2001 (che riprende l’art.37 del D.Lgs. 29/1993, come modificato dall’art.24 del D.Lgs. 80/1998), che rinvia ad un regolamento l’individuazione dei posti e delle funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, in quanto implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero attengono alla tutela dell’interesse nazionale. Detto regolamento è stato adottato con D.P.C.M. 174/1994. Inoltre, va come rilevato nel citato parere 18/2/2004 del Comitato consultivo dell’Avvocatura generale dello Stato, la più recente dottrina costituzionale riconosce che per espressa disposizione dell’art. 10, comma 2, della Costituzione, la condizione giuridica dello straniero (quindi anche la capacità di essere titolare di rapporti di lavoro) è rimessa alla disciplina del legislatore ordinario in conformità alle norme ed ai trattati internazionali. Ne deriva quindi che l’art.51 della Costituzione configura il requisito normalmente necessario per l’accesso al pubblico impiego, salvo le eccezioni che il legislatore ritenga di introdurre per particolari tipi di impiego. Coerentemente ai dettami costituzionali, la legislazione più recente, tra cui spicca l’art.38 del D.Lgs. 165/2001, ha eliminato tale restrizione all’impiego con riferimento ai cittadini comunitari. Il cittadino comunitario, infatti, non è propriamente uno straniero, per cui, in applicazione allargata del disposto costituzionale, quando in un bando viene richiesta la cittadinanza italiana ai fini dell’ammissione ad un concorso pubblico, anche costui se ne considera munito, salvo eccezioni (cfr. il citato D.P.C.M. 174/94). Tutto ciò, si è detto, si basa sul presupposto della prospettiva dell’integrazione europea, che ne costituisce fondamento ma anche limite, in quanto il mantenimento del pur parziale ostacolo all’impiego pubblico trova giustificazione nel fatto che l’integrazione non è ancora stata completata.
Tale normativa, si noti, ha carattere eccezionale e trova applicazione in capo a soggetti specifici (i cittadini dell’Unione), per cui come tale non è suscettibile di interpretazione estensiva ad altro genere di destinatari (i cittadini extracomunitari). Interessante è certamente osservare che in una delle pagine del sito www.europa.eu.int, con riferimento alle opportunità di impiego dei cittadini europei in territorio comunitario si precisa che: “Il principio della parità di trattamento e il divieto di ogni discriminazione basata sulla nazionalità si applicano altresì (rispetto al lavoro privato, n.d.a.) agli impieghi nel settore pubblico: imprese del settore pubblico (imprese commerciali, enti di telecomunicazioni, aziende di trasporto pubblico), organismi o enti pubblici (università, ospedali pubblici, istituti di ricerca) e pubblica amministrazione. Gli Stati membri possono tuttavia ancora riservare taluni posti di lavoro ai propri cittadini, ma ciò è possibile soltanto per i posti del settore pubblico direttamente connessi all’esercizio dell’autorità pubblica e alla salvaguardia di interessi generali dello Stato o degli enti pubblici, ovvero delle unità amministrative più piccole dello Stato come le amministrazioni comunali, ecc. Questi criteri devono essere valutati caso per caso in funzione della natura delle mansioni e delle responsabilità implicate dal posto in questione. Si può partire dal principio che allorché si tratta di funzioni specifiche dello Stato e di entità assimilabili, quali le forze armate, le forze di polizia e le altre forze dell’ordine, la magistratura, l’amministrazione fiscale e i corpi diplomatici, l’accesso possa essere riservato ai cittadini nazionali, escludendo gli altri cittadini dell’Unione europea. Tuttavia non tutti i posti di lavoro in tali settori (ad esempio, le mansioni amministrative, la consultazione tecnica e la manutenzione) implicano l’esercizio dell’autorità pubblica e la salvaguardia di interessi generali. Tali posti non possono pertanto essere riservati ai cittadini nazionali. La libera circolazione dei lavoratori nella pubblica amministrazione è indipendente da qualsiasi settore specifico ed è in funzione unicamente della natura del posto di lavoro”.
4. L’assunzione di cittadini extracomunitari
Quanto alle possibilità di impiego pubblico riservate dal nostro ordinamento ai lavoratori extracomunitari, la Funzione Pubblica, nel citato parere n.96/2004, ha ritenuto che erroneamente alcune amministrazioni fanno richiamo in chiave possibilista all’art. 9 comma 3 del D.L 416/1989 (convertito dalla L. 39/1990), secondo cui i cittadini extracomunitari possono essere assunti dalle pubbliche amministrazioni con le procedure dell’art. 16 della L. 56/1987 (assunzione tramite ufficio di collocamento dei lavoratori in possesso del titolo di studio equivalente alla scuola dell’obbligo italiana). Difatti, detta norma non prevede requisiti ma solo modalità di accesso all’impiego, ed è poi stata abrogata dall’art.46 della L. 40/1998. Secondo parte della dottrina, il D.Lgs. 286/1998, Testo unico sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero, nel liberalizzare l’accesso al lavoro alle dipendenze di datori di lavoro privati e l’accesso al lavoro autonomo, avrebbe superato anche le norme che richiedono il requisito della cittadinanza per accedere ai posti di lavoro nella pubblica amministrazione. Ma ciò si scontra sia con l’art.2 del DPR 3/1957, norma parte dell’ordinamento speciale del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, sia con un principio sancito dalla Costituzione agli artt.51 e 98. Per un’altra tesi, poi, l’art. 2 del D.Lgs. 286/1998, avendo parificato lo straniero regolarmente soggiornante in Italia al cittadino italiano, supera la necessità del requisito della cittadinanza per l’accesso al pubblico impiego; a ritenere diversamente, risulterebbe violato il principio di uguaglianza sancito dall’art.3 della Costituzione, e ricorrerebbe attività discriminatoria verso lo straniero (cfr. Tribunale Genova, ord. 26/6/2004, conforme alla precedente del 19/4/2004). Inoltre, non è certo ravvisabile alcuna lesione degli interessi fondamentali ed inderogabili della collettività nazionale nel consentire a stranieri di partecipare ad un pubblico concorso per la copertura di posti non riservati in via esclusiva ai cittadini italiani. In merito, tuttavia, la Funzione Pubblica ha richiamato la sentenza n.120/1967 della Corte Costituzionale, secondo cui il principio di uguaglianza di cui all’art.3 della Costituzione va letto in connessione con l’art.2 e con l’art.10, secondo comma, della Costituzione, "il primo dei quali riconosce a tutti, cittadini e stranieri, i diritti inviolabili dell’uomo, mentre l’altro dispone che la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali". Coerente è quanto espresso nel parere del Consiglio di Stato, Sez. II, n. 2592/2003 del 31-3-2004, reso in merito ad un ricorso straordinario al Capo dello Stato; tale ricorso era stato proposto contro il provvedimento di esclusione di un cittadino extracomunitario dalle graduatorie d’istituto per il conferimento di incarichi di supplenza. Il ricorrente sosteneva la sua possibilità di accesso all’impiego pubblico proprio sulla base dell’art.2 del D.Lgs. 286/1998, ma il C.d.S., richiamando anche le sentenze di Tar Veneto, n. 782/ 2004 e Tar Toscana n. 28/ 2003, ha confermato la permanenza del requisito della cittadinanza per l’accesso al pubblico impiego, solo temperato per i cittadini comunitari e per gli italiani non appartenenti alla Repubblica. Pertanto, si sostiene che in materia di rapporti con la pubblica amministrazione viene riconosciuta la parità di tutti gli aspiranti lavoratori non in termini assoluti e totali ma “nei limiti e nei modi previsti dalla legge” e ciò non comporterebbe incompatibilità con disposizioni costituzionali, perché non rientra tra i diritti fondamentali garantiti (v. Corte Cost. n. 120/1967 e n. 241/1974) quello di partecipare ad uno specifico concorso piuttosto che ad un altro. Inoltre, nell’art. 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo (resa esecutiva con L. 881/1977), non si rinviene in materia di lavoro alcun precetto che includa tra i diritti fondamentali la parità di trattamento di cittadini e stranieri in materia di requisiti di accesso ai pubblici impieghi. Piuttosto, la norma si limita a precludere discriminazioni tra lavoratori già assunti e già non tra concorrenti; inoltre, è stato sostenuto che il patto ratificato con la citata L. 881 si colloca al di fuori dell’art. 10 (conforme Corte Cost., 188/1980), per cui la normativa non può essere sindacata alla stregua di tale disposizione costituzionale. Ad ulteriore conferma delle considerazioni sin qui svolte si pone proprio il testo unico approvato con D.Lgs. 286/1998; questo, infatti, ha liberalizzato l’accesso al lavoro autonomo (art. 26), ma a condizione che l’esercizio di tali attività non sia riservato dalla legge ai cittadini italiani o a cittadini di uno degli Stati membri dell’UE. In esso, che consente l’iscrizione agli Ordini o Collegi professionali o negli elenchi speciali agli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia in possesso dei titoli riconosciuti, si sottolinea esplicitamente che ciò avviene in deroga al requisito della cittadinanza (art. 37, Attività professionali). Lo stesso art.27 (Ingresso per lavoro in casi particolari), al comma 3, specifica conerentemente che "rimangono ferme le disposizioni che prevedono il possesso della cittadinanza italiana per lo svolgimento di determinate attività".Inoltre, l’art.37 rinvia al regolamento di attuazione la disciplina di particolari modalità per il rilascio delle autorizzazioni al lavoro, dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno per lavoro subordinato per alcune categorie di lavoratori stranieri specificamente individuate, tra cui ad esempio i lettori universitari di madre lingua, che appunto vengono assunti a contratto prescindendo dal requisito della cittadinanza (sui lettori, v. anche Cass. Civ., sez. Lavoro, 16-08-2004, n. 15931 e 10-05-2005, n. 9737). In tal senso, difatti, è ad esempio il testo del decreto rettoriale 257/2003 dell’Università di Siena, che nell’indire una selezione per la formazione di una graduatoria di aspiranti alla costituzione di rapporti di lavoro a tempo determinato per collaboratori ed esperti linguistici di lingua francese, richiede indefettibilmente che gli aspiranti siano di madrelingua francese, a prescindere dalla cittadinanza posseduta; viene precisato, tuttavia, che i candidati extracomunitari per poter stipulare il contratto di lavoro devono essere in regola con le norme sul permesso di soggiorno di cui al D.Lgs. 286/1998 e al D.P.R. 394/1999. Di rilievo in proposito è anche il D.M. 103/2001 dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione (Direzione Generale del personale della scuola e dell’amministrazione); in questo, pur richiedendosi il possesso della cittadinanza italiana o comunitaria tra i requisiti per l’attribuzione delle supplenze temporanee al personale docente ed educativo, si ammette però una deroga per le graduatorie di conversazione in lingua estera. Difatti, «per l’insegnamento di conversazione in lingua estera, che sia lingua ufficiale esclusivamente in Paesi non comunitari, sono ammessi aspiranti anche non in possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri dell’Unione Europea», anche se poi viene precisato che «i predetti aspiranti sono, comunque, collocati in graduatoria in posizione subordinata agli eventuali aspiranti, in possesso del requisito della cittadinanza comunitaria». Le disposizioni del citato D.Lgs. 286/1998 sono state poi integrate dalla L. 189/2002, cd. "legge Bossi-Fini", il cui art. 22, lettera r-bis, ha aggiunto alle tipologie di lavoratori già previste la categoria degli infermieri professionali, da assumersi con contratto di lavoro subordinato presso strutture sanitarie pubbliche e private. Da ciò risulta che i medesimi, se autorizzati all’esercizio della professione in Italia, possono essere assunti senza limitazioni da datori di lavoro privati con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; presso le strutture pubbliche, invece, l’assunzione è consentita solo se con rapporto di lavoro a tempo determinato. Sul punto il Ministero della Sanità (ora Ministero della Salute), con Circolare n. 1259/2000 aveva segnalato che le aziende sanitarie locali e le altre istituzioni pubbliche non potevano procedere all’assunzione in ruolo dei cittadini stranieri extracomunitari, a causa della riserva a favore dei cittadini italiani. Detta Circolare, relativa al testo del D.Lgs. 286/1998 vigente al 2000, non ha perso valore, in quanto "non sembra possibile che la disposizione introdotta dalla legge Bossi-Fini abbia potuto intervenire sui requisiti generali per l’accesso al lavoro nelle pubbliche amministrazioni". Pertanto, la modifica del Testo unico introdotta con l’art. 22 della L. 189/2002 si riferisce esclusivamente ai rapporti di lavoro a tempo determinato, che non sono considerati come parte dell’organico dell’amministrazione datrice di lavoro. Interessante, in tema di rapporti di lavoro a termine in generale, è la sentenza 11/7/2001, n. 9407 nella quale la Cassazione (sez. Lavoro) sostiene che, ove in corso di rapporto di lavoro cessi la validità del permesso di soggiorno, tale semplice evenienza non comporta la risoluzione automatica del rapporto di lavoro in atto, ma semmai una sospensione da ogni effetto giuridico ed economico, potendo poi al più costituire giustificato motivo di licenziamento ai sensi dell’art. 3 della L. 604/1966. Le varie tesi sin qui esposte hanno trovato accoglimento anche nelle valutazioni dell’Avvocatura generale dello Stato, espresse nel parere del 18/2/2004, richiesto dal Dipartimento della Funzione Pubblica in merito alla possibilità che i rifugiati accedano agli impieghi presso le pubbliche amministrazioni.

 

 

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