1707 La relazione di Fabio Mussi all'Assemblea nazionale Sinistra Ds

20060708 16:40:00 webmaster

Diritti globali, equità sociale, laicità
Una Sinistra autonoma e unitaria in Italia, nella famiglia socialista in Europa

ASSEMBLEA NAZIONALE SINISTRA DS A ROMA
SABATO 1 LUGLIO 2006 ORE 10 TEATRO QUIRINO

Noi siamo la sinistra Ds. Come membri del maggior partito della sinistra italiana, la più importante forza della coalizione che ora governa l’Italia, avvertiamo una grande responsabilità verso il nostro Paese, verso tutti gli uomini e le donne – del lavoro, della cultura, delle professioni – che nutrono la speranza di veri cambiamenti, che credono al ruolo, politico e culturale, della sinistra, e all’idea socialista. Ci rivolgiamo prima di tutto a loro, riunendoci oggi qui per dire qualcosa di meditato e di importante. A loro, alla maggioranza del nostro partito, a tutte le formazioni di sinistra e della alleanza democratica.

Da aprile ad oggi è successo molto.

Primo: il centrosinistra ha vinto, sia pure d’un soffio, le elezioni politiche, si sono formate le Presidenze delle Camere, è stato eletto il Presidente della Repubblica – e voglio salutare Giorgio Napolitano, cui va la nostra stima e la nostra amicizia – si è formato il Governo presieduto da Romano Prodi.

Secondo: il centrosinistra ha colto subito dopo un largo successo nelle elezioni amministrative, a conferma di un consenso popolare che dal 2001 ad oggi si è consolidato, premiando le capacità locali di governo e il lavoro di sindaci capaci di rappresentare degnamente i loro cittadini.

Terzo: una valaga di NO ha seppellito la Costituzione di Lorenzago, figlia dei traffici tra Forza Italia, Lega, An e Udc, e difeso quella del ’48, figlia della lotta di Liberazione e dell’antifascismo, che ha prodotto la democrazia e la Repubblica.

Naufraga così l’ambizioso tentativo populistico-autoritario sotto il cui segno si sono mossi negli ultimi anni Berlusconi e il berlusconismo. Forse la partita non è ancora chiusa, comunque è bene avviata. Ora non dobbiamo chiuderci a ipotesi chiare, limitate e democratiche di riforma costituzionale. Forse però l’esperienza compiuta, e i rischi corsi, dovrebbero indurci a qualche prudenza. Prima di avventurarci in qualche nuova “grande riforma”, prima di aprire nuove procedure, conviene dedicare qualche mese alla meditazione. Un sistema che decide con più velocità ed efficienza è desiderabile, se è un sistema che si apre ad una più forte partecipazione democratica, e in cui i poteri sono separati, bilanciati, reciprocamente controllati; un sistema che decentra è auspicabile, se è chiara la responsabilità fiscale e se è garantito l’universalismo dello Stato sociale, ora che è evidente – dati gli esiti della radicalizzazione dell’ideologia liberista che abbiamo visto negli ultimi anni – che non c’è un trade-off, una reciproca esclusione, tra Stato sociale e crescita economica.

Noi, noi abbiamo combattuto una battaglia coerente, dal Congresso di Pesaro ad oggi, dalla grave sconfitta del 2001. Con alterne fortune congressuali, ma con coerenza: abbiamo in tutti questi anni rivendicato insieme le ragioni della alleanza democratica e dell’autonomia della sinistra. La posizione di oggi è una conferma. Il nostro dissenso nei Ds non è mai stato spinto al punto di provocare rotture che avrebbero compromesso l’obiettivo fondamentale: “il dovere patriottico” di liberare l’Italia da Berlusconi. Abbiamo più volte dissentito, ma abbiamo sempre partecipato senza risparmio di forze all’impegno per il successo del nostro partito e del centrosinistra. Oggi la sinistra Ds dispone di 24 parlamentari nazionali e 3 europei, ed ha responsabilità importanti nel governo nazionale, in Parlamento, in tanti governi locali e regionali. Siamo stati e siamo una minoranza, mai un gruppo minoritario settario o arrabbiato. Veniamo da una grande tradizione politica e culturale che pone sempre al primo posto la funzione nazionale della politica e dei partiti – come ci ricorda sempre Alfredo Reichlin. Non ne abbiamo perso la memoria.

Oggi vogliamo sostenere il Governo presieduto da Romano Prodi, aiutarlo ad essere unito e a fare cose buone. E, pur consapevoli della difficile situazione parlamentare, vogliamo contribuire alla sua durata per l’intera legislatura. Il che richiede un’opera intelligente di mediazione tra le componenti più centriste e quelle più radicali. Non è impossibile, con il programma dell’Unione alla mano, favorire la stabilità del Governo. E ci vuole coraggio, tanto coraggio, nel cambiamento d’Italia.

Il compito è immane. Ci troviamo a fronteggiare uno stato penoso dell’economia e dei conti pubblici: la debole ripresa in atto non basterà da sola a sormontare la stagnazione che ci ha lasciato in eredità il centrodestra. E i dati macroeconomici (deficit, debito, attivo primario) impongono sicuramente una correzione. Nel primo, positivo incontro con le parti sociali, giovedì a Palazzo Chigi, Prodi e Padoa Schioppa hanno prospettato una manovra immediata pari allo 0,5 del PIL ed una legge finanziaria, che guarda all’intera legislatura, pari a ulteriori 2.5 punti di PIL. Il provvedimento approvato ieri dal Consiglio dei Ministri è importante e forte: interviene sulla tutela della concorrenza e dei consumatori, dispiega la lotta contro l’elusione e l’evasione fiscale, destina risorse allo sviluppo (infrastrutture, ricerca e innovazione).

La parola d’ordine è: “crescita, equità, stabilità”. Siamo tutti consapevoli che non è più possibile pensare ai “due tempi”. Correzione finanziaria, giustizia sociale, sviluppo, investimenti devono andare insieme. Se dura a lungo, per un Paese, la cura delle montagne russe, con un governo che sperpera, e poi uno che risana, e poi uno che sperpera, e uno che risana, per ritrovarci alla fine con la caduta degli investimenti, la svalorizzazione del lavoro, la perdita di competitività, il definanziamento dell’educazione, della ricerca, delle infrastrutture, alla fine, come in un gigantesco gioco dell’oca, si torna sempre alla casella zero: questa, alla fine, è la via sicura per il declino. Alla fine, così una Nazione diventa la periferia di qualche impero.

La lotta contro l’evasione fiscale (che è una vergogna senza pari), contro il lavoro precario, per la qualità sociale, sono la spina dorsale delle politiche di risanamento. E’ importante la conferma della riduzione della pressione fiscale e contributiva sul lavoro e sull’impresa (l’intervento, annunciato in campagna elettorale, sul “cuneo”): ed è evidente che una parte importante di tale riduzione deve andare al sostegno ai salari, per ragioni di giustizia, ma anche perché altrimenti non ci sarà ripresa del mercato interno.

Ed è importante che si confermi l’intenzione di sviluppare gli investimenti in educazione, ricerca e innovazione. Stanno succedendo cose formidabili al mondo: quella “società della conoscenza” di cui si parlò a Lisbona, è in pieno “boom” planetario, grazie all’Asia e al Nord America, e in misura minore all’Europa. Ed è in pieno sviluppo (l’ho potuto vedere nei vertici di Bruxelles come nella recente riunione dell’OCSE ad Atene) un conflitto politico sulla regolazione dei sistemi: tutto mercato o intervento pubblico? E’ chiaro da che parte deve stare l’Italia. Ed è chiaro che deve recuperare la deriva provinciale, autarchica, aziendalistica che, con la destra al governo, l’aveva isolata in Europa. E’ quello che ho tentato di fare a Bruxelles: ha provocato molto rumore la responsabilità che mi sono assunto sul finanziamento comunitario alla ricerca sulle staminali. Ma la partita grossa è quella che riguarda il “Settimo Programma Quadro” della ricerca (53mld di euro in sette anni) con cui l’Europa punta a tenere il passo. Costruire lo “Spazio comune europeo dell’Università e della ricerca” è una grande sfida: io sto provando ad affrontarla. Con una linea che punta a contrastare le diseguaglianze sociali, che possono anche trovarsi esaltate, invece che ridotte, dai sistemi educativi, e a premiare il merito e la qualità dei risultati. Ci sono le persone, e ci sono le classi sociali. La società moderna si presenta con una vasta promessa di successo agli individui in competizione. Sono due grandi scienziati sociali americani, Tversky e Kahneman, che hanno parlato delle straordinarie aspettative degli individui, che poi fanno, per lo più, l’esperienza della “regressione alla media”. Una “media” di vita e lavoro sui gradini bassi della scala. La chiamano “matematica della paura”. “Paura”, “incertezza”, “scarto”, “liquidità”: noi non possiamo rassegnarci ad una società fatta così.

Perciò dobbiamo muoverci in aree politiche vaste, e scommettere sull’Europa. Mi ha fatto piacere sentirmi dire, nella veste di ministro italiano dell’Università e della ricerca, in qualche sede internazionale, “Italia, bentornata in Europa!”. Ho visto che, citando Giorgio Ruffolo, nella bella nota che ha offerto a questa nostra riunione, Paolo Leon scrive: “La soluzione socialista per il futuro dell’Unione è “più Stato Europeo” e meno Stato nazionale”. Sono d’accordo con lui.

Ci vogliono soluzioni forti, perché socialisti compassionevoli e liberali democratici alla fine non costituiranno un argine sufficiente al liberismo scatenato e alla destra neopopulista. Naturalmente, non basta l’economia per spiegare la crisi italiana dei nostri tempi. Si è sfibrata la tempra morale della Nazione: la crisi è prima di tutto etica. Siamo di nuovo sommersi da una catena di scandali che sembra non avere fine, in ogni settore della società. Non c’è solo la bassa forza dell’illegalità diffusa, dell’abuso, della truffa. Una impensabile quantità di quelli che dovrebbero essere “classe dirigente” ingrossano abitualmente le file della corruzione e della criminalità. Non c’è malversazione che non sia praticata, nei media come nel calcio, nella sanità come nell’impresa o nella pubblica amministrazione. C’è poco da fare: resta una strepitosa testimonianza, un monumento di intelligenza politica e di intuizione profetica, che non vogliamo dimenticare, l’intervista sulla “questione morale” di Enrico Berlinguer! Per questo c’è bisogno, a difesa della legge e della democrazia, di una severa magistratura indipendente. E di un potere politico che, con l’esempio e con l’azione, ricostruisca un principio morale, un’etica civile capace di fondare la cittadinanza e regolare secondo il principio democratico la vita della società e dello Stato.

Io penso che siano importanti i segni di ricollocazione internazionale dell’Italia che vengono dal nostro Governo. E’ stato rispettato l’impegno del ritiro dall’Iraq. La partecipazione alla “coalizione degli willings” non era una politica, era il segno di un assoggettamento. D’Alema è stato fermo, e dignitoso nell’affermare e difendere la nuova posizione italiana. Anche quando ha posto al governo degli Stati Uniti la questione di Guantanamo, che due giorni fa la stessa Corte Suprema americana ha definito contrastante con la Convenzione di Ginevra e contrario alla Costituzione americana, dunque illegittimo. Credo che questa condotta possa essere pienamente apprezzata. Credo che D’Alema, e Parisi, abbiano ragione anche sull’Afghanistan. Iraq e Afghanistan non sono la stessa cosa: è vero che la missione in Afghanistan non può essere considerata infinita, ed è vero che bisogna ridiscutere il senso politico dell’impegno; è giusto – e il Governo ha deciso in questo senso – che non ci sia un incremento di forze italiane, o nuovi mezzi come gli aerei da combattimento. Ma lì ci sono la Nato, l’Onu, l’Europa, compresi tedeschi e spagnoli che in Iraq non sono andati o si sono ritirati. Credo che non si possa convenire con quei gruppi di sinistra che chiedono un immediato disimpegno, e che non sia accettabile che si metta a rischio il Governo. Tanto meno che si consideri l’ipotesi di voti dal centrodestra in soccorso del Governo, per sostituire voti che mancano: la maggioranza deve essere autosufficiente, il resto appartiene a libere determinazioni di altri gruppi parlamentari. E’ importante che si sia raggiunto un accordo nel Governo.

Il nostro Paese può aspirare, non velletariamente, a svolgere un ruolo di pace e di cooperazione in molte aree del mondo, a cominciare dal Mediterraneo, luogo di grandi migrazioni umane; campo d’azione del terrorismo; area nella quale si sono accese inedite contraddizioni culturali, politiche, religiose, economiche, rese più acute dalla guerra irakena; mare sulle cui sponde ha ripreso drammatico vigore il conflitto israelo-palestinese, dalla cui soluzione – cui il nostro Paese può dare un contributo prezioso, sulla linea di “Due popoli, due Stati” – dipende una parte decisiva degli assetti globali.

Bisogna pensare, ed agire, in grande. Consapevoli di ciò che dobbiamo fronteggiare nei prossimi decenni. I decenni nei quali la popolazione mondiale salirà a nove miliardi, diventerà più vecchia, sarà concentrata nelle città e in un numero ristretto di Paesi; i decenni nei quali Cina e India contenderanno il primato economico a Europa e Stati Uniti; i decenni nei quali lo sviluppo del capitale finanziario e dell’economia riuscirà a soddisfare le aspettative di una parte crescente dell’umanità, sprofondandone però un’altra nell’inferno della fame, delle malattie, del “divide” culturale e informativo; i decenni nei quali arriverà alla fine l’era del petrolio (vi ricordate? Era una delle tesi centrali della nostra mozione congressuale) con una possibile compromissione irreversibile dell’ambiente.

Decenni, cioè un battito di ciglia. L’umanità dovrà dare prova, in un tempo minimo, di non voler seguire le orme degli abitanti dell’Isola di Pasqua: i quali (come illustra magnificamente Jared Diamond in Collasso) giunsero alla quasi estinzione per non aver saputo affrontare i problemi creati da loro stessi. In un tempo minimo, se misurato storicamente, bisogna che si accenda una creatività politica, sociale e tecnologica mai vista. Servono idee ardite.

Solo per fare un esempio, cito David Goodstein, tecnologo e vicerettore del California Institut of Technology, che, nel suo ultimo libro (“Senza più petrolio”), dice: “L’era del petrolio facile, è finita. Quella del clima difficile, è cominciata”. E suggerisce: “L’unica via per toglierci dall’impiccio delle risorse petrolifere (che si stanno avvicinando al picco della capacità produttiva) e al tempo stesso per risolvere il grosso guaio del riscaldamento del pianeta (provocato dagli stessi idrocarburi) è quella della scienza. I Governi dovrebbero chiamare a raccolta le migliori menti del mondo e incaricarle di trovare una soluzione al fabbisogno energetico. Abbiamo bisogno di un altro Manhattan Project”.

Quello era per fare la bomba, questo sarebbe per disinnescarne una, planetaria. Io penso che il nostro Governo dovrebbe interloquire e proporre. Ma, se si comincia a ragionare davvero in questa dimensione, si ha chiaro quali conseguenze politiche ne derivano? Come appaiono immediatamente obsoleti e primitivi assetti mondiali fondati sul dominio, sugli armamenti, sulla guerra? E quali impensabili territori si aprono ad una sinistra che si alimenti di una cultura critica, e che voglia occuparsi davvero dei destini dell’umanità? E quale nutrimento si possa dare ad un nuovo riformismo, affrancato dall’ossessione di correre al centro e di rappresentare i “moderati”?

Qui veniamo al punto. Il punto del “Partito democratico”. Ora c’è bisogno di cose chiare. Chiare. Si deve uscire dal guado. Tutti abbiano il coraggio delle proprie posizioni. A Fassino vorrei dire questo: caro Piero, a questo punto le strade sono due:

La prima. Sno tre anni che ci si prova. La tappa della “Federazione riformista, è fallita: ne furono insediati solennemente gli organismi, mai più riuniti. Si prenda atto che il progetto di una fusione tra Ds e Margherita non ce la fa ad affermarsi, che non c’è lo spazio storico di un partito unico. Si dichiari una esplicita correzione di rotta politica. Esplicita. E ragioniamo allora sulle forme dell’alleanza, delle relazioni unitarie possibili con la Margherita e con il resto dell’Unione. A partire dalla riaffermazione dell’autonomia della sinistra socialista che rappresentiamo. E ragioniamo su di noi, su quello che dovrebbe e potrebbe essere, in Italia e nel mondo, il nostro partito.

La seconda. Si vada all’approdo del Partito democratico, in tempi certi. Per ciò che se ne capisce, quello non potrà essere il mio, il nostro partito. Spero che nessuno si sorprenda di questo annuncio: non è nuovo. E soprattutto, nessuno può immaginare che si vada a togliere dal panorama politico nazionale una forza socialista, e persino la parola “sinistra” dal lessico politico italiano, senza che ci siano delle conseguenze.

Comunque, ci vuole un Congresso, in tempi certi e ravvicinati. Non si sciolgono i Ds, non si fonda il “Partito democratico” senza un congresso. Noi chiediamo, con molta energia, che si rispettino innanzitutto le regole democratiche primarie.

Ieri su un giornale Fassino ha detto: “Quando andremo al Congresso dovremo arrivarci con una proposta e non solamente con un’intenzione”. Dunque, non c’è ancora una proposta? Stiamo discutendo perciò di nulla? Ho resistito alla tentazione di invadere questa scrivania con la valanga degli annunci apparsi sui media: “sta nascendo il partito riformista, stiamo per farlo, è nato, è fatto”. Mi basta un D’Alema di 13 giorni fa: “Ritengo che saremo pronti per la primavera del 2007”. Allora, ci siamo o non ci siamo?

La strada impercorribile mi pare la terza, quella di una nuova fase di incerta e confusa transizione, di nuovi provvisori patti federativi, di nuove cabine di regia, di nuove regolazioni transitorie: così si porta alla meta un esercito esausto.

E non abbiamo bisogno di un qualche nuovo escamotage verbale per rassicurare la sinistra del partito. Nel frattempo si aprono localmente “costituenti”, comitati, sezioni nelle quali già si distribuiscono tessere di un partito che non c’è. Una sorta di via oligarchico-plebiscitaria, di cui ci sembra evidente la sterilità e l’arbitrio.

Aggiungo che il gruppo dirigente attuale dei Ds non ha il mandato per procedere e concludere: non c’è un solo documento congressuale che autorizza la formazione del “partito unico”. E non si può accettare il fatto compiuto, sulla base di un supposto consenso popolare implicito e non verificato.

Quello che c’è di sicuro è un simbolo, l’Ulivo, che ha un buon successo elettorale (anche se ha subito, dal ’96 ad oggi, una costante emorragia). Alle ultime elezioni, è però bene non dimenticare, il di più ottenuto rispetto alla somma dei voti Ds e Dl dipende dal di meno raccolto dai due partiti. Noi siamo al 17%, poco lontani dal ’92. Ma né il 31% dell’Ulivo, né il successo delle primarie, ci dicono di per sé che occorre fondare un partito.

Sento un’argomento: gli attuali partiti hanno esaurito la loro funzione, ci vuole “qualcosa di nuovo”. E’ un gettare l’anima oltre l’ostacolo. Generoso, ma insufficiente. Ma l’ostacolo resta lì. Due debolezze che si appoggiano l’un l’altra non fanno una forza. Se si apre una crisi, occorre guardarci dentro, occorre scavare nell’insediamento sociale, nelle forme della rappresentanza, nel tessuto culturale di un grande soggetto collettivo. Non basta costruire qualche nuova scatola.

I contenuti sono i grandi assenti dalla discussione. Non parlo del Programma dell’Unione, che rappresenta un buon punto di compromesso tra tante forze diverse. Parlo del programma fondamentale, della rete di valori, dei tratti identitari del “partito democratico” di cui si parla. Quali passi si sono compiuti? Che cosa potrà mai essere una forza politica avanzata e moderna, se non è chiaro e definito il suo rapporto con il lavoro – con il lavoro innanzitutto – e se non sono definite le sue idee in materia di libertà delle persone, responsabilità della scienza, libertà della ricerca, laicità dello Stato? E attenti, perché quando parlo di “laicità” non intendo uno spazio vuoto sovrastato da uno Stato neutrale: parlo di uno spazio pieno, gremito di voci, compresa quella della Chiesa (che non può essere relegata a fatto privato), e di uno Stato che si alimenta di questa vita plurale della società e delle culture. E che alla fine legifera e regola, scegliendo traiettorie non confessionali.

Come si fa a decidere su un soggetto politico senza essersi adeguatamente misurati sui contenuti? Cioè senza aver dato una struttura all’identità collettiva? E’ un grande errore ritenere che la società moderna, e la tecnologia, dissipi i bisogni identitari di uomini e donne: tali bisogni si presentano fortissimi, persino ulteriormente alimentati dalla globalizzazione, e, se non trovano soddisfazione nelle culture politiche a base razionalista, la cercano altrove. Il disincanto non ha ancora sommerso la speranza. La politica non può separarsi dalla speranza. Oltre l’orizzonte di una legislatura e di un Governo, che pure è il nostro, e che è essenziale abbia successo nei prossimi anni.

Per questo, se solleviamo la questione dell’identità socialista, non ci sentiamo retrogradi. La questione è del tutto aperta. Si può pensare ad un partito che abbia gruppi unici nel parlamento italiano e divisi in quello europeo? E che finisca per non appartenere ad alcuna delle grandi famiglie politiche europee? Badate, che non stiamo parlando della libertà di turismo politico per gli stati maggiori, che in Europa possono alla fine bussare alle porte che vogliono. Stiamo parlando di una appartenenza collettiva che disegna i caratteri del nostro essere qui, in questa società e in questo Paese. Del rapporto con un movimento storico che ha subito, e dovrà subire, importanti modificazioni, senza però abdicare alle sue ragioni e alla sua visione. Stiamo parlando del socialismo italiano.

La linea lungo la quale ci muoviamo è quella sostenuta nei Congressi: “una sinistra forte e autonoma, una grande alleanza democratica”. Crediamo che corrisponda ad una primaria esigenza unitaria della nostra gente, e alla fiducia nella funzione storica della sinistra politica.

Vediamo quanta frammentazione c’è a sinistra, e la cosa ci spaventa. Vediamo anche quale salto culturale e politico deve fare il socialismo, e tutta la sinistra, a partire da quella più radicale, in Europa e nel mondo, per far fronte alle nuove sfide. Rispettiamo i compagni che vogliono tentare una strada inedita, e largamente ignota. Pensiamo che sia sbagliata. Pensiamo che non sia l’unica.

Il senso di responsabilità, insieme a convinzioni profonde, ci induce a non adattarci. A continuare la nostra battaglia. A cercare altre strade.

Coraggio, compagni, che c’è molto lavoro da fare.

 

 

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