2074 Il parigino e l'ottentotto

20060920 15:17:00 webmaster

Paragonare Cuba (o l’America Latina) alla Svezia è fuorviante. Sarebbe come dire che siccome non possiamo sposare tutti/e Fanny Ardant o Marcello Mastroianni, meglio l’astinenza, o siccome non possiamo andare
in Ferrari allora non andiamo neanche in 500.

di Gennaro Carotenuto

E’ apprezzabile della Rivoluzione cubana che veramente non sia (soprattutto da 17 anni a questa parte) calco e copia d’altro. La Rivoluzione cubana realizza José Carlos Mariátegui e il marxismo creatore latinoamericano. I cubani, probabilmente non i burocrati più ortodossi, ma la maggior parte di quelli che mandano avanti quella baracca (perché qualcuno deve mandarla avanti la baracca), fanno proprio quanto disse Simón Rodríguez, il maestro di Bolívar: "o inventamos o erramos", o vinciamo noi la battaglia delle idee o affondiamo. Non perché vivono in una società perfetta (Pablo), perché solo gli europei
sono così tonti da esigere che Cuba (e solo Cuba) sia perfetta, come se la loro società fosse davvero perfetta, ma perché l’alternativa per i cubani sarebbe l’inedia neoliberale. L’europeo medio, anche quello bravo e solidale, misura il pianeta sulla similitudine con quello che ritiene il migliore dei mondi possibili.

Ammesso e non concesso che siano i migliori, pretendere che una società
del terzo mondo si confronti con i migliori esempi di sviluppo del
pianeta è in primo luogo frustrante, in secondo luogo fuorviante, ma
soprattutto paralizzante. Ogni società compie un percorso, la storia non
fa salti. Ne discutevo con Rodrigo Cháves, ex ambasciatore venezuelano a
Roma, oggi viceministro degli esteri con delega all’Europa, e rimanevo
affascinato proprio dalla coscienza della lentezza irreversibile di un
percorso rivoluzionario.

Una delle grandi menzogne del Fondo Monetario Internazionale è stato
millantare che le proprie ricette neoliberali fossero universali. Al di
là della malafede profonda di un’istituzione che si presenta come
democratica e che invece (Cfr. Gennaro Carotenuto, «Le regole perverse
del Fmi», Latinoamerica, Anno XXII, n. 81, ottobre-dicembre 2002, pp.
82-87) funziona per statuto come il consiglio d’amministrazione di una
banca e quindi risponde agli interessi dei propri azionisti di
maggioranza, i paesi ricchi, è chiaro che non può essere così. E’ chiaro
ad ogni persona in buona fede che privatizzare l’acqua in Bolivia,
rispondeva solo alle esigenze della Suez e della classe dirigente (non è
un caso che Sánchez de Lozada sia stato rimandato a Miami). Se in
Bolivia vi fosse stato un regime democratico a nessun aymara poteva
essere imposta una cosa così ridicola come vendere (regalare oltretutto)
l’acqua che sgorga dalla pachamama ad una multinazionale francese.

Il paragone Haiti-Svezia, o Albinoleffe-Juventus, è frustrante come è
frustrante (e razzista) avere imposto ad una bambina peruviana la
bambola Barbie come modello di bellezza. Fuorviante perché se levassimo
alla Svezia o a qualunque paese occidentale quel terzo (minimo) di
Prodotto Interno Lordo derivante da "rendite da colonialismo"
probabilmente vedremmo in Svezia tensioni sociali ben poco democratiche.
In Svezia ogni lavoratore (forse) ha i propri contributi versati e ogni
operaio edile ha il proprio caschetto ben messo e le scarpe antiscivolo
come dio comanda, guadagna 1.500 Euro al mese e gode di efficientissimi
servizi pubblici. Viva la Svezia. Siamo (vorremmo essere) tutti svedesi.
Anche i cubani. Soprattutto i rivoluzionari. Ma cosa succederebbe se la
Svezia volesse (o dovesse) acquistare ogni minerale che entra nel paese
e ogni prodotto agricolo che importa, solo da un paese e da imprese dove
i lavoratori godono di altrettante garanzie sociali ed economiche dei
lavoratori svedesi?

Cosa succederebbe se tutti i minatori, gli operai e i contadini del
mondo da oggi guadagnassero 1.500 Euro al mese? Quanto saremmo frustati
del non portarci più a casa quel lettore di DVD (una macchina
tecnologicamente fantastica) a 29.90 Euro, il prezzo di un paio di
cartoni di latte?

Ho la fortuna di girare con una certa intensità sia l’Europa che
l’America Latina. Oggettivamente non vedo tanti motivi per i quali un
europeo dovrebbe desiderare Cuba. La vita è aspra, i consumi (che non
sono necessariamente sinonimi di consumismo) sono talmente compressi da
essere difficile non scoppiare. Soprattutto da parte di chi è abituato
ad un minimo di agio. Non sto parlando del lettore di DVD. Nel periodo
speciale, ora va meglio, si parlava degli assorbenti per le donne, per
esempio. Quale ragazza europea, per quanto rivoluzionaria, desidererebbe
rinunciare agli assorbenti quando ne ha bisogno?

Ma chi lo dice che il confronto va fatto con la Svezia? Una delle misure
del fallimento del socialismo reale fu l’allontanamento della Boemia e
della Moravia dagli standard di vita della Germania, paese con il quale
poteva compararsi prima. E’ la depressione dello standard di vita della
Cecoslovacchia, non certo quello della Romania a dare la misura del
fallimento. Perché la Cecoslovacchia era stata più o meno come la
Germania, la Romania, mai. Abbiamo visto Menem o Zedillo proclamare
l’ingresso di Argentina e Messico nel primo mondo e non abbiamo mai
provato così tanta vergogna per loro, "verguenza ajena" come si dice in
latinoamerica. Chi porta Cuba o il Guatemala nel primo mondo? Neanche
Fidel Castro, possibilmente per scelta, perché entrare nel primo mondo
significa necessariamente beneficiare di quelle "rendite da
colonialismo", sulle quali il primo mondo costruisce il proprio
benessere. Il paragone dunque non può non essere fatto che con la regione.

Vi ricordate il parigino e l’ottentotto? Qualche tempo fa, con alcuni
amici, ricordo ci fossero Quintín Cabrera il cantautore
uruguayo-madrileno, e José Luíz del Rojo, che oggi è senatore in Italia,
ci mettemmo a calcolare quanto varrebbero in un paese latinoamericano i
servizi che lo stato cubano dà gratuitamente a tutti i cittadini.
Proviamo ad elencarli, a partire dalla casa. A Cuba ci sono problemi
abitativi a volte drammatici, ma vivaddio un tetto sulla testa c’è. Il
parigino svedese inorridirebbe a vivere in alcuni condomini dell’Avana,
ma un ottentotto che vive nel cerro di Montevideo farebbe carte false
per una casa popolare cubana. La vorrebbe, la desidererebbe, perché
risolverebbe il suo problema abitativo qui ed ora, non in teoria. Non in
Svezia, nel cerro di Montevideo. Andatelo a dire in faccia ad un profugo
colombiano, che fa dormire i figli sotto un telo di plastica, che i
cubani sono disgraziati perché vivono in dittatura mentre lui è
fortunato perché vive in democrazia. Potrebbe non reagire gentilmente.

Poi c’è la salute, l’educazione e il non avere bisogno che i figli
vadano a lavorare. Un europeo che, bene o male, se ha mal di pancia va
dal medico, neanche riesce a pensare a cosa significa non avere alcun
accesso a cure mediche opportune. Ma non avere accesso a cure mediche è
la realtà per circa un quarto della popolazione latinoamericana. 150
milioni di latinoamericani e almeno 50 milioni di statunitensi darebbero
un braccio per avere un medico cubano a disposizione quando i loro
bambini stanno male. Il nostro parigino svedese non pensa assolutamente
che i propri bambini potrebbero essere costretti a lavorare mentre
l’ottentotto brasiliano della Rocinha purtroppo sì. E’ probabile che
l’ottentotto del Callao di Lima -che non è fesso- capisca che il
parigino svedese stia comunque meglio dell’ottentotto cubano. Ma siamo
sicuri che per andare da Lima a Stoccolma si possa evitare di passare
dall’Avana? E materialmente, come si fa ad andare da Lima a Stoccolma
visto che abbiamo tutti diritto ad essere svedesi, alti e biondi?
Per il momento il limeño del Callao sa che in epoca neoliberale, a causa
della denutrizione diffusa, la sua altezza media si è abbassata di tre
centimetri e che sua figlia, che desidera tanto essere Barbie, resta
bruna, è più bassa e, siccome mangia pessimo, è pure più grassottella di
sua madre. E’ bellissima Stoccolma, ma come si fa ad andare a Stoccolma
partendo da Lima? Come si fa a diventare Barbie? E chi dice che bisogna
diventare Barbie?

Poi ci sono alcuni servizi peculiari. Per esempio pagare l’abbonamento
telefonico 70 centesimi di Euro al mese con incluse tutte le urbane e
sei ore di interurbane è interessante per un argentino che fino al 2001
pagava 25 centesimi per 120 secondi di chiamata urbana. Certo, la
libertà di telefonare quasi gratis non sostituisce ed è incomparabile
con la censura di stampa a Cuba, ma qualcosa vale.

I nostri calcoli, approssimativi ed economicisti, dicevano che i servizi
che lo stato cubano offre, valgono in latinoamerica tra i 500 e gli 800
Euro al mese (e fuori di Cuba chi non ce li ha ne fa a meno) ed in
Europa valgono tra i 1.000 e i 2.000 Euro al mese a seconda
dell’incidenza dell’affitto. Questo vuol dire che 250 milioni di
latinoamericani e almeno 15 milioni di italiani non possono permettersi
dei servizi di base che lo stato cubano offre gratuitamente. Sono
servizi (e se avessimo il coraggio e tornassimo a chiamarli
semplicemente "diritti"?) che sicuramente non possono sostituire il
diritto di voto, così come si intende a Stoccolma, ma aiutano. Aiutano
soprattutto a tenere la schiena dritta. Capisco e faccio mia l’obiezione
sul diritto di voto ma capisco anche un proletario cubano che preferisce
non rischiare, di perdere molti diritti in cambio di un diritto solo. E
pazienza se non ha il diritto di comprare l’acqua da bere privatizzata
dalla Suez.

I cubani stanno combattendo la battaglia delle idee giorno per giorno.
Non l’hanno ancora vinta, ma almeno la combattono e possono essere
orgogliosi di se stessi. Ed in questo combattere -non necessariamente
vincere- la battaglia delle idee, sta una delle chiavi di lettura della
permanenza della Rivoluzione a 17 anni dalla caduta del muro di Berlino.
Gli italiani per cosa possono essere orgogliosi? Della vittoria dei
mondiali? Di avere una democrazia così stabile che nessuno ha percepito
il cambiamento tra destra e sinistra dopo le libere elezioni di aprile?

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