2196 Addio «voto bonito», Lula non abita più qui

20060929 11:17:00 webmaster

Brasile, il «companheiro» è diventato un presidente normale
di Maurizio Matteuzzi (da Il Manifesto)

Domenica Luiz Inacio da Silva, il companheiro Lula, stando agli ultimi sondaggi, sarà rieletto presidente del Brasile. Se non sarà il primo ottobre, sarà domenica 29, dopo il ballottaggio con il "socialdemocratico" Geraldo Alckmin, l’ex governatore dello stato di San Paolo candidato della destra, così privo di carisma e di possibilità da essersi guadagnato sul campo il soprannome di chuchu, un legume assolutamente privo di sapore.
Ma l’aria, qui in Brasile, è ben diversa da quella dell’ottobre del 2002 quando, il 6 e il 27, l’ex leader metalmeccanico senza una laurea e senza un dito lasciato sotto la pressa di una fabbrica di San Paolo, travolse José Serra, il delfino di quell’altro campione "socialdemocratico" della destra neo-liberista che era stato, negli otto anni trascorsi nel palazzo di Planalto a Brasilia, il presidente Fernando Henrique Cardoso. 53 milioni di voti e 61% per Lula, 33 milioni e 38% per Serra.

Allora, come si disse, la speranza aveva vinto la paura. La paura del salto nel buio, la paura che aveva un nome preciso e una collocazione geografica vicina: l’Argentina del neo-liberista Carlos Menem e del suo successore "socialdemocratico" Fernando de la Rua, con il suo tragico collasso economico, sociale e politico del 2001.
Lula era la speranza, Serra la paura e qui a Rio come in tutto il Brasile si respirava un’atmosfera di incontenibile euforia. Lula-la-speranza vinse in 26 dei 27 stati della repubblica, lasciando a Serra-la-paura solo lo staterello nordestino dell’Alagoas.
Sono passati quattro anni da allora ma sembra un’eternità.
Oggi l’euforia e anche la paura sono passate e a dominare la campagna elettorale sono l’apatia e lo scetticismo. Sarà anche per una primavera australe che stenta a farsi strada portando su Rio de Janeiro nuvole, scrosci di pioggia e freddo a cui i cariocas non sono abituati, ma sui famosi lungomare di Copacabana e Ipanema quasi non si vedono le carovane d’auto a tutta musica e le bandiere spiegate con i volti dei candidati a presidente della repubblica, governatore dello stato, sindaco, deputati e senatori federali che domenica dovranno uscire dal voto dei 10.891.293 elettori dello stato di Rio e dei 125.913.479 elettori dell’immenso Brasile. Si nota soprattutto l’assenza dei militanti e simpatizzanti del Pt – il Partido dos trabalhadores di cui il sindacalista Lula fu fra i fondatori nel 1980 e da cui il presidente Lula tende sempre più a smarcarsi – che quattro anni fa avevano invaso le strade e le spiagge in allegria con le loro t-shirts, i cappelli, i volantini e le bande musicali. Giovedì pomeriggio non qui a Rio ma a Belo Horizonte, la capitale del Minas Gerais, un altro degli stati avanzati del Sud-est storicamente decisivi con i suoi 13.5 milioni di elettori, il comizio finale di Lula ha raccolto tremila persone.
Gli scandali a ripetizione che hanno coinvolto partito e governo in questi quattro anni – l’ultimo scoppiato dieci giorni fa su una storiaccia di dossier – e che sono arrivati a lambire sempre più da vicino, pur senza mai toccarlo, il presidente Lula, hanno portato a un diffusissimo desencanto, a una micidiale sensazione che «tutti i politici sono uguali», di destra come di sinistra, ladri, corrotti e impuniti. Il Pt, «il partito dell’etica», non meno degli altri.
Da quel memorabile primo gennaio del 2003, quando Lula si insediò a Brasilia, molte delle speranze – e delle paure – suscitate dal primo presidente di sinistra nella storia del Brasile (a parte il breve interludio di João Goulart fra il settembre del ’61 e il marzo del ’64 finito con il golpe militare del 31 marzo di quell’anno) sono svanite. A cominciare da quella di un’uscita controllata dal neo-liberismo che, grazie ai due mandati di Cardoso, aveva portato il paese sull’orlo della bancarotta. Ma questo è un altro discorso.
Dopo quattro anni di Lula il Brasile non è più lo stesso di prima. E’ cambiata – in meglio – la sua politica estera, sia nel mondo che in America latina. All’interno l’economia, pur improntata a un accentuato continuismo, ha ripreso a marciare a ritmo sostenuto, nonostante la politica di austerità (fondo)monetarista del ministro delle finanze Antônio Palocci, l’ex trotzkista convertitosi al neo-liberismo travolto anche lui da uno scandalo nel marzo di quest’anno. Dopo la recessione del 2003, il primo anno di mandato, è cresciuta anno dopo anno e anche per il 2006 – anno elettorale e quindi di spesa facile – le previsioni del governo parlano di un più 4% del prodotto interno lordo. Lontano dai ritmi cinese e anche argentino, però positivo.
Ma non si tratta solo del famoso/famigerato Pil, che molto spesso inganna sulle reali condizioni di un paese. Secondo le cifre ufficiali fra il 2003 e il 2006 la disoccupazione è calata, il reddito reale dei lavoratori per la prima volta in 10 anni è aumentato, il salario minimo – che all’inizio del mandato di Lula era intorno ai 60 dollari al mese – è stato portato a 350 reais (più o meno 159 dollari o 127 euro), le oscene diseguaglianze sociali sono leggermente diminuite e, soprattutto, la estesissima povertà, che colpiva 54 dei 185 milioni di brasiliani, si è un po’ ridotta.
Qui sta il segreto della vittoria di Lula, domenica primo o domenica 29 ottobre.
Cammin facendo Lula ha perso per strada l’estesa classe media urbana, che nel 2002 era stata conquistata in massa dal suo discorso di rinnovamento radicale (ed etico) della politica, ma ha conquistato i poveri, che in Brasile sono la grande maggioranza. Forse anche il suo programma della Bolsa família, la borsa famigliare per i nuclei più derelitti, ha deluso, è stato intaccato da corruzione e furbizie partitiste; forse è vero che è un programma più di assistenza che di superamento strutturale della povertà. Però è arrivato là dove voleva arrivare. E ora sarà o povão, il popolo nel senso più plebeo del termine, e non le arroganti élites di sempre, per la prima volta, a decidere il voto. I poveri, i lavoratori, i braccianti Sem terra – l’ha confermato João Pedro Stédile, il leader storico dell’Mst, anche se la riforma agraria è stata un’altra delle molte speranze bruciate sull’altare dell’ortodossia economica – sono ancora con lui, il companheiro Lula, uno che per quanto si sia ripulito e affinato, ha la faccia come la loro.

 

 

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