2252 Se il partito (democratico ndr) non parte

20061008 09:41:00 webmaster

Gianfranco Pasquino

È oramai chiaro che il Partito democratico è partito, ed è partito male, poco democraticamente. La sua corsa sembra inarrestabile anche perché i suoi sostenitori hanno deciso di non tenere in nessun conto le obiezioni di chi vorrebbe una nuova organizzazione del centrosinistra che fosse non soltanto in grado di lucrare uno o due punti percentuali in più della somma degli elettorati dei Democratici di Sinistra e della Margherita, ma garantisse un dibattito ampio e trasparente, procedure partecipate di selezione dei dirigenti e di formulazione delle politiche, una migliore qualità della democrazia.

Uno dei massimi sostenitori del partito democratico, il ministro della Difesa Arturo Parisi ha dichiarato: «non ci basta un Partito democratico che nasce solo perché a questo punto è impossibile tornare indietro».

E, purtroppo, non sono sufficienti i richiami all’Ulivo che fanno Piero Fassino e altri perché l’Ulivo era una coalizione elettorale e non il prodromo di un partito e perché le culture riformiste, non tutte quelle esistenti in questo Paese, non si sono affatto fuse in un lungo decennio di collaborazione non priva di tensioni e di prese di distanza.

Invece di un progetto, è in corso una deriva e, nelle modalità con le quali oramai si prospetta, il partito democratico non sarà l’esito di un confronto di idee e di prospettive, anche di quelle internazionali, ma neppure la fusione «a freddo», come si temeva, di gruppi dirigenti già esistenti, quanto, piuttosto, una aggregazione di correnti piuttosto esplicite e solide. A Chianciano, gli ex-Popolari lo hanno allegramente teorizzato, dichiarato e si preparano, forti della loro esperienza democristiana, a tradurlo in pratica. La loro non sarà certamente l’unica corrente organizzata.

Faremmo torto all’intelligenza politica di Arturo Parisi se pensassimo che lui stesso non abbia capito, e non nutra il più che legittimo timore, che ci sarà anche una corrente di Rutelli e che, quindi, gli stessi prodiani saranno costretti ad organizzarsi dietro il loro leader, soprattutto per non lasciarlo solo. Fassino avrà i suoi seguaci, molti, ma non abbastanza da dominare il nuovo partito, mentre i riformisti dentro i Ds cercheranno qualche sponda in alcuni, pochi, riformisti «laici» dentro la Margherita. A questo punto, persino la sinistra dei Ds potrebbe pensare che è meglio essere corrente solida e compatta nel nuovo Partito democratico piuttosto che diventare minoranza in un variegato e conflittuale schieramento di sinistra sedicente radicale.

Allora, qualcuno ricorderà che, affinché la democrazia costituisca l’elemento centrale della vita di un partito, è imperativo consentire agli iscritti di partecipare alla formazione delle decisioni e di votare, informati, sulle alternative, a maggior ragione, quando il partito, ovvero una parte, non importa se maggioritaria, del suo gruppo dirigente ha deciso in sostanza di scioglierlo. Qualcuno tornerà a suggerire che a quelle sacrosante procedure nei partiti sarà opportuno invitare, con diritto di voto, il popolo delle primarie consentendogli di scegliere a quali congressi di partito partecipare e ammettendolo in condizioni di parità con gli iscritti. Peccato che sbagli Gad Lerner quando afferma che «a nessuno è venuto in mente che l’indirizzario di quei quattro milioni e trecentomila nomi registrati di elettori del centrosinistra potesse venire utilizzato dando vita successive forme di consultazione democratica» (la Repubblica, 4 ottobre). Infatti, l’ho scritto a molto chiare lettere su questo giornale, («Paura del passato») il 22 settembre, nient’affatto fuori tempo massimo.

Infine, forse, ancora seguendo Parisi, che pure appare un po’ in ritardo sugli avvenimenti, bisognerà «stendere» un manifesto programmatico, non affidato a presunti esperti, scelti non si sa come, ma emergente dalle posizioni espresse nelle centinaia di dibattiti politici dai contraenti e che tenga conto del programma di governo dell’Unione. Non sono convinto che, nonostante le relazioni approvate dagli organismi dirigenti dei Ds, che Fassino ricorda puntigliosamente, l’argomento all’ordine del giorno, al vertice e alla base, sia mai davvero stato la costruzione del Partito democratico nel suo profilo politico e programmatico. Attualmente, anche questa cruciale tematica appare drasticamente pregiudicata dall’ordine dei lavori e dalle relazioni al seminario di Orvieto e rischia di non produrre nessun entusiasmo, ma soltanto delusione per un’occasione di partecipazione sprecata.

Non credo che ci sia più tempo per raddrizzare la natura e per ridefinire gli obiettivi di quel convegno, a meno che gli organizzatori, con un atto di opportuno coraggio, ne facciano soltanto un momento di incontro culturale e, comunque, lo dichiarino aperto agli interventi di tutti coloro che, senza conformismo (la malattia cronica dei vecchi e dei nuovi partiti italiani), intendano esprimersi sul «se», sul «perché», sul «come», secondo quanto sembra suggerire Fassino.

Per parte mia, intendo, almeno sul «come» si aderisce, se già non si fa parte di correnti organizzate, e sul «come» si potrà cercare di influenzare le politiche e la collocazione internazionale e si potranno selezionare, ogniqualvolta sia necessario, con il metodo delle primarie e senza rendite e vantaggi di posizione, tutte le cariche elettive compresa anche la leadership dell’eventuale Partito democratico. Nulla di rassicurante in materia mi pare sia finora emerso in un dibattito confuso e spesso manipolato.

 

 

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