2320 America, diritti cancellati

20061019 13:23:00 webmaster

di Giovanni Salvi

Il Military Commissions Act (MCA), reso esecutivo il 16 ottobre scorso dalla firma del presidente Bush, è una diretta risposta alla decisione della Corte Suprema nel caso Hamdan v. Rumsfeld. Dopo alcune decisioni interlocutorie, nel giugno 2006 la Corte Suprema aveva infine affrontato direttamente il cuore del problema: la «guerra al terrore» e le sue conseguenze giuridiche. Siamo abituati a utilizzare espressioni analoghe, quando vogliamo indicare la dedizione totale all’impegno per una nobile causa: la guerra alla droga, la guerra alla criminalità organizzata.

Nel caso della war on terror, però, si tratta di qualcosa di completamente diverso e che è difficile comprendere interamente, se non all’interno del sistema istituzionale statunitense e della sua tradizione costituzionale. Gli Stati Uniti, infatti, si considerano realmente in guerra, a seguito dell’autorizzazione all’uso della forza militare (AUMF), deliberata dal Congresso in seduta comune il 18 settembre 2001. L’Autorizzazione non riguarda solo le Nazioni che abbiano in qualche modo preso parte all’attentato dell’11 settembre, ma si estende anche a organizzazioni e persone e comprende anche le minacce future di atti di terrorismo internazionale contro gli Stati Uniti.

In passato gli Stati Uniti avevano fatto ricorso a misure drasticamente limitative dei diritti di libertà, in situazioni ritenute di minaccia per la sicurezza nazionale. Solo a distanza di anni le Corti, prima, e infine il Congresso avevano riconosciuto che gravi sofferenze erano state ingiustamente inflitte a singole persone e a intere collettività. Basti ricordare i Palmer’s Raids degli anni ’20 o l’internamento dei cittadini americani di origine giapponese durante la seconda guerra mondiale, su cui ha scritto pagine memorabili David Cole. Il circuito giudiziario e infine la Corte Suprema si erano rivelati i più sicuri baluardi delle libertà, pur se anch’essi tardivi. L’Autorizzazione all’uso della forza militare è però un fatto senza precedenti. Da questa impostazione (e dal suo corollario, costituito dai poteri riconosciuti al presidente come Comandante in Capo in caso di guerra) discende un approccio che mina alle fondamenta l’intero tessuto istituzionale della più grande democrazia mai esistita.

Il MCA cerca di sanare alcune delle più vistose aporie determinate dal ricorso allo strumento bellico per combattere non Nazioni, ma organizzazioni e individui. Sia chiaro. Non si tratta di negare che in determinate situazioni il terrorismo sia una componente di un contesto bellico e non possa quindi essere contrastato con lo strumento delle leggi. È ovvio che in un contesto di effettivo impiego della forza militare, eventuali attacchi qualificabili come terroristici anche in un siffatto contesto riceverebbero una risposta militare (e sarebbero trattati secondo le nome internazionali che prevedono e disciplinano questi casi), come ha sottolineato ancora di recente Mario Pirani. Il punto è che si pretende di estendere la definizione di combattente ben oltre quella di colui che porta le armi nel campo di battaglia o nelle sue prossimità: nemico combattente è infatti chiunque «progetti, autorizzi, dia disposizioni, commetta o aiuti in un attacco terroristico», una definizione cioè di tipo strettamente penale. La contraddizione è insanabile ed è alla base della impossibilità, per ben quattro lunghi anni, di trovare un ombrello normativo che proteggesse i diritti degli enemy combatants: né combattenti di una guerra legittima, protetti dalle Convenzioni internazionali, né sospetti criminali, protetti dalle garanzie della pena e della procedura. È questo paradosso che ha reso possibile la detenzione senza processo – e per lunghi periodi addirittura senza possibilità di contatti con l’esterno e persino con un difensore – di centinaia di persone. Molte di queste non furono catturate sul campo di battaglia, in Afghanistan, ma ovunque nel mondo e persino negli stessi Stati Uniti. In questo contesto, l’autorizzazione all’uso della tortura è solo la più disgustosa conseguenza di una catena di violazioni dei diritti fondamentali dell’individuo. Il MCA vieta radicalmente l’uso della tortura e anche dei trattamenti crudeli, inumani o degradanti e pone anche un divieto all’utilizzazione delle dichiarazioni rese sotto tortura. Eppure, a dimostrazione che di questo strumento di violenza si è fatto effettivo uso, una serie di eccezioni vengono poste all’utilizzo delle «prove» così raccolte, prima dell’entrata in vigore del Detainee Treatment Act (30 dicembre 2005), inteso a liberare gli interroganti dalla responsabilità per l’uso di mezzi di coercizione vietati dalle convenzioni internazionali. Sembra incredibile che a due secoli dalla pubblicazione delle opere di Beccaria si debba ancora discutere della legittimità e della utilità della tortura! Basterebbe questo a far comprendere quanto profondo sia il danno causato dalla war on terror, come risposta al più crudele degli attentati.

La nuova normativa prevede un’attenta disciplina del processo dinanzi ai Tribunali militari e attribuisce finalmente all’accusato alcuni diritti fondamentali, tra cui quello di conoscere le accuse a suo carico e controinterrogarne le fonti. Ma una serie di eccezioni minano l’effettività di queste garanzie, dalla possibilità di utilizzare le dichiarazioni de relato (un tabù per gli Stati Uniti) e soprattutto prove segrete, alla eliminazione delle exclusionary rules (cioè di quelle regole che vietano l’utilizzo di prove raccolte in maniera illegittima), all’esclusione della presenza dell’accusato, quando ciò possa compromettere la sicurezza nazionale, fino alla drastica limitazione dei diritti di Habeas Corpus. Cosicché la pena di morte potrà essere inflitta da un Tribunale militare, composto da ufficiali in servizio, nominati dal Segretario di Stato per la Difesa, sulla base di prove segrete e/o ottenute con la tortura (purchè prima del 30 dicembre 2005!) e nei confronti di persone accusate di fatti che costituiscono delitti comuni (e non militari). Qui rivive in tutta la sua inestinguibilità la contraddizione di una guerra dichiarata contro individui. La speciale procedura e gli speciali tribunali previsti dal MCA si applicano infatti (anche retroattivamente) ai «combattenti illegali» (unlawful combatants), definiti per contrasto con coloro che combattono una guerra regolare, anche attraverso forme di guerriglia. Ma questo genere di «combattenti» sono già soggetti alle leggi, anche di guerra, se combattono in forme non lecite e ancor più se commettono atti di terrorismo in un contesto bellico. In realtà, il vero obbiettivo delle nuove regole non sono questi «combattenti», ma i terroristi e in particolare coloro che sono sospettati di aver preso parte o di aver progettato attentati contro gli Stati Uniti, anche all’estero. Ciò è stato rivendicato con assoluta chiarezza dal presidente Bush, sia quando la legge fu approvata, sia al momento della sua promulgazione.

Basteranno le scarne garanzie (bucate da eccezioni come pezzi di groviera) previste dal MCA a soddisfare le precise indicazioni della Corte Suprema? Secondo il presidente dello Judiciary Committee del Senato, Arlan Specter, certamente no: egli infatti ha votato a favore della legge perché convinto della sua parziale incostituzionalità e quindi del suo annullamento pro parte ad opera della Suprema Corte (sic!). Questo ci porta al vero problema. Il MCA è stato votato da ben 253 deputati (contrari 168) e addirittura da 65 senatori contro 34. Il 28 settembre la Camera ha approvato con 232 voti contro 191 un provvedimento a sostegno del programma di intercettazioni senza autorizzazioni giudiziarie, sostenuto dall’Amministrazione Bush, anche a sanatoria delle migliaia di intercettazioni illegali già fatte. La pressione della paura indotta dalla minaccia del terrorismo rende inefficace il principale meccanismo di bilanciamento e controllo dei poteri, soprattutto quando si avvicina una scadenza elettorale. Nessuno è in grado di opporsi efficacemente alla pressione dell’opinione pubblica, opportunamente pompata: «Mentre le nostre truppe rischiano le loro vite per combattere il terrorismo, questa legge assicurerà che esse siano in grado di sconfiggere i nemici di oggi e di contrastare le minacce di domani» ha replicato Bush a coloro, anche all’interno dei Repubblicani, che avanzavano dubbi sulla legittimità delle norme in discussione. La Corte Suprema ha posto dei limiti ai poteri presidenziali, rompendo una tradizionale auto-limitazione in periodi di forte tensione; ma questa decisione è giunta con grave ritardo, dopo una decisione interlocutoria e mentre centinaia di persone restavano detenute senza diritti. Il danno che il terrorismo sta facendo alle democrazie occidentali è grave e sarà probabilmente duraturo.

Per cercare di limitarne gli effetti è dunque necessario che le misure per rendere più efficace l’azione dello stato siano adottate fuori dall’urgenza del provvedere e dalla pressione micidiale di un’opinione pubblica in preda alla paura. E dunque prima del prossimo attacco, come ci ha di recente ricordato il costituzionalista americano Bruce Ackerman. Esiste un problema su come contrastare le nuove forme di terrorismo. In particolare si pone con forza il nesso tra intelligence e repressione, causato dalla interconnessione tra terrorismo «nazionale» e contesti bellici (Afghanistan, Cecenia, Bosnia, Iraq ecc.). Certamente la strada per risolverlo non è la guerra al terrorismo. Non è neppure aspettare il prossimo attentato.

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