2319 Onu, la battaglia (latino)americana

20061019 11:24:00 webmaster

di Maurizio Chierici (da l’Unità)

Dunque, l´impasse tra Venezuela e Guatemala per il seggio in palio per il biennio 2007-200 non si è sciolto. E pensare che per la prima volta Stati Uniti si sono dati daffare oltre l’immaginabile per sostenere il loro candidato: braccio di ferro non a parole, ma nella concretezza di un confronto che ha diviso il palazzo di vetro. Quel seggio temporaneo al Consiglio di Sicurezza.

Gli Usa hanno proposto il Guatemala; Chavez il suo Venezuela in sostituzione dell’Argentina che fino al 31 dicembre rappresenterà l’America Latina.

Solo una volta Washington aveva dovuto penare. Era il 1979. Spingeva la Colombia contro Cuba: 139 fumate nere e alla fine si è ripiegato sul Messico. Altri tempi, il mondo è cambiato. Dietro Castro, Unione Sovietica e satelliti, paesi africani, Cina e Vietnam. Dalla parte Usa, Pinochet, dittature militari di Argentina e Uruguay, Bolivia del generale Banzer, Brasile neoliberista, più ogni nazione centroamericana e Messico e il Venezuela del socialcristiano Rafael Caldera. Insomma, America Latina compatta. Un consenso dilapidato dall’amministrazione Bush. Perché Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Bolivia, naturalmente Cuba e la maggioranza dei paesini del Caribe, questa volta sono schierati dalla parte di Caracas, mentre il Cile e il Perù di Alan Garcia (malgrado il dente avvelenato con Chavez) hanno scelto l’astensione ribadendo la linea di una indipendenza che Santiago ha inaugurato e alla quale il nuovo presidente di Lima prova ad agganciarsi nella speranza di mantenere rapporti dignitosi con Washington.

L’impegno Usa è parso spropositato per un seggio che fra due anni passa di mano. Lo spiega il timore di una ricaduta interna: fra quindici giorni si vota, elezioni di mezzo termine, e i repubblicani scoloriscono nelle ombre dell’Iraq. Agli errori macroscopici della politica estera, aggiungere il ridicolo di una sconfitta diplomatica ad opera di Chavez, poteva precipitare la Casa Bianca già malandata.

Si trattava di recuperare il disinteresse dei vicini di casa raccogliendo attorno al Guatemala ciò che sopravvive dell’influenza sfumata. Ecco il pressing. Bisogna dire che Chavez si è forse giocato un po’ di voti col discorso alle Nazioni Unite di un mese fa. Divertente nel nutrire il populismo caro alle folle latine mai così tiepide (e non solo tiepide) verso l’America repubblicana, ma col segno della croce scaramantico sul podio dell’Onu, show improvvisato per disperdere lo zolfo del «diavolo Bush», ha congelato possibili comprensioni di Europa e di paesi G8 o G10, con relativi corollari. Vecchi protocolli e grandi affari preferiscono comportamenti meno colorati.

Sulla carta il candidato Usa doveva vincere a mani basse.

Ma il frenetico viaggiare di Chavez alla ricerca di voti lontani – Mosca, Pechino, India, Lega Araba. Iran, Unione Africana – aveva suscitato un’apprensione che gli scrutinii hanno confermato: Guatemala sempre in testa, meno il pareggio di una manche. Venezuela che insegue senza grandi speranza. Ma quorum irraggiungibile per entrambi. Si sono affacciate ipotesi di una candidatura «di unità» come fa sapere la Bachelet mentre Caracas si arrabbia e non accetta di ritirarsi, soprattutto non gradisce l’interferenze del paese che «deve al Venezuela la nomina di Inzulza a segretario generale degli Stati Americani».

Gli Usa e il loro messicano devoto sono stati battuti dall’ex canceelliere cileno. Adesso si parla di Repubblica Domenicana e Panama, cavalli di Washington, mentre i grandi paesi, dal Brasile all’Argentina, preferirebbero l’ Uruguay di Tabarez Vazquez. Non solo assonanze politiche e partnership nel Mercosur, ma la presenza di contingenti uruguayani nei caschi blu di pace, garantirebbe una continuità collaudata che altri non sono in grado di assicurare.

Anche la scelta del Guatemala aveva suscitato perplessità. In un rapporto su crimini e corruzione, la commissione Onu guidata da Philip Aiston, il 28 agosto 2006 – appena un mese e mezzo fa – aveva definito il Guatemala «un buon paese dove commettere impunemente qualsiasi delitto». Le ragioni alla quale è giunta l’inchiesta hanno radici nelle piramidi sociali: grandi ricchezze, impunità dei poteri militari, burocrazia corrotta, narcotraffico ben protetto, tribunali a noleggio, violazione continua dei diritti umani: «Impossibile punire qualsiasi tipo di violenza».

Nei primi sei mesi dell’anno, gli assassini di 400 ragazze indigene non sono stati scoperti «soprattutto non cercati con un minimo di serietà». Il rapporto analizza l’umiliazione dei 20 popoli indios il cui numero è maggioranza nel paese, ma non conta niente. Dopo la lunga repressione armata formalmente conclusa con armistizio e amnistia per i colpevoli alla quale si è piegata Rigoberta Menchu nel 1996, tutto va avanti come prima. «Forse l’impunità è cresciuta», commenta il rapporto Alston. Responsabili dei diritti umani, perfino un vescovo assassinati, prima di arrivare in tribunale con le prove di crimini eccellenti. La conclusione Onu è sconsolata: servirebbero leggi severe da applicare con severità, ma la mano dura che potrebbe legalizzare i soprusi riportando l’orologio del paese agli anni della dittatura del generale Rios Montt». Il quale sta ancora sgomitando per tornare presidente.

Solo una nuova costituzione può impedirgli di candidarsi. Un simile paese vale davvero il riconoscimento morale di un seggio al Consiglio di Sicurezza?

 

 

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