2475 Venezuela, il trionfo di Chavez: «Sconfitti gli imperialisti» «Ridistribuire i redditi del petrolio»

20061204 10:52:00 webmaster

Hugo Chavez è stato rieletto presidente del Venezuela con un largo margine che gli regala un mandato forte per proseguire nella sua rivoluzione socialista e nella sfida all’influenza Usa in America latina. «Abbiamo dato un’altra lezione di dignità agli imperialisti – ha detto – è un’altra sconfitta per l’impero di Mr.Pericolo».
Cure mediche per tutti, case al posto di baracche

di Maurizio Chierici

Hugo Chavez è stato rieletto presidente del Venezuela con un largo margine che gli regala un mandato forte per proseguire nella sua rivoluzione socialista e nella sfida all’influenza Usa in America latina. Con l’80% delle schede scrutinate, l’ex colonnello dei parà ha ottenuto il 61% dei voti contro il 38% dello sfidante, Manuel Rosales, che ha dapprima denunciato irregolarità e poi ha ammesso la sconfitta.

Hugo Chavez si è affacciato al balcone con la camicia rossa e ha risposto alla folla dei suoi sostenitori, tutti vestiti di rosso, intonando l’inno nazionale e pronunciando poche parole di esultanza. «Viva la rivoluzione socialista! Il destino è stato scritto!» ha esclamato rivolto ai sostenitori giunti in migliaia ad acclamarlo nonostante le pioggia che cadeva fitta su Caracas. Chavez ha assicurato che cercherà di approfondire la sua rivoluzione, perseguendo la redistribuzione dei redditi dal petrolio del Paese. «Nessuno deve temere il socialismo!» ha continuato. «Il socialismo è umano. Il socialismo è amore».

«Abbiamo dato un’altra lezione di dignità agli imperialisti, è un’altra sconfitta per l’impero di Mr.Pericolo», ha dichiarato Chavez ai sostenitori festanti usando uno dei nomi con cui irride a George W. Bush. Per Washington la rielezione del leader populista che ha voluto dedicare il suo trionfo a Fidel Castro rappresenta un altro brutto colpo dopo i successi di tre esponenti della sinistra latino americana nelle ultime cinque settimane: Rafael Correa in Ecuador, Luiz Inacio Lula da Silva in Brasile e Daniel Ortega in Nicaragua.

L’avversario di Chavez nelle elezioni presidenziali svoltesi ieri in Venezuela, il conservatore Manuel Rosales, ha riconosciuto la sua sconfitta con una dichiarazione fatta davanti ai suoi sostenitori poco dopo la diffusione del dato parziale che, sulla base del 78% delle schede scrutinate, attribuisce il 61% al presidente uscente. Nella sede del comitato elettorale di Rosales, alcuni dei suoi sostenitori versavano lacrime, mentre altri non nascondevano la loro rabbia.

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Cure mediche per tutti, case al posto di baracche

di Maurizio Chierici

A Caracas stanno contando i voti elettronici con qualche macchina in tilt, ma exit poll e sondaggi sono d´accordo: vittoria comoda di Chavez. Senza un colpo di scena viene confermato presidente. Fa parte del gioco venezuelano che l´opposizione non si rassegni. Risultati contestati, tensione che continua, almeno per un certo tempo. Legittimato dal successo, il presidente andrà avanti con le riforme disegnate negli ultimi otto anni.

La maggioranza della popolazione lo segue: cure mediche per tutti, case al posto delle baracche, ragazzi all’università con stipendio minimo, nuove città che vuotano le favelas attorno linee ferroviarie inventate dal «regime». Due gli scenari: uno interno, l´altro internazionale. Nelle ultime ore della campagna elettorale, Chavez ha annunciato di voler riformare la costituzione: propone l´elezione indefinita del capo del governo. Prima del referendum che ha cambiato le regole della carta magna, il presidente del Venezuela restava in carica un solo mandato. Sono diventati due, adesso si vorrebbe aprire la possibilità di una riconferma «fino a quando gli elettori cambieranno idea». Continuità senza limiti temporali. «Modulo castrista», è la protesta di Rosales, candidato sconfitto. «Necessità per completare le opere che trasformano il Venezuela in un paese moderno e socialmente giusto», risponde il governo.

Ambizione realista perché il Venezuela esce da 40 anni di democrazie corrotte, paese moderno in senso medioevale: strutture sofisticate nel settore petrolifero alle quali si contrappone l’arretratezza di una nazione molto ricca ma senza veri ospedali, nessuna ferrovia, abbandono delle classi meno felici ormai maggioranza della popolazione e un’agricoltura incapace di mettere a tavola 24 milioni di persone in un posto fertilissimo largo un milione di chilometri quadrati. «Bisogna cambiare ma il cambiamento non può dipendere in eterno da un solo uomo», sempre Rosales, il cui pragmatismo lo ha spinto a copiare nel programma gli interventi sociali di Chavez, cambiando appena i nomi. Scandalizzata l’ala destra dello schieramento che lo appoggia: aperture non liberiste, eccessivamente populiste. Ma era l’ultimo tentativo per agganciare la speranza.

L’altra intenzione che allarma chi si è battuto contro Chavez non è una promessa della campagna vittoriosa, solo due parole lasciate cadere durante la conferenza stampa con giornalisti stranieri. Chavez non scarta l’idea di non rinnovare il permesso (scade nello 2009) dell’uso di frequenze ai media elettronici, radio e Tv che hanno guidato le strategie per mandarlo a casa: dal colpo di stato, allo sciopero petrolifero, assalto finale nella campagna elettorale. Ma i ministri e consiglieri di Chavez sono preoccupati per un altro scenario: la strategia della tensione che accompagnerà le proteste contro i «brogli elettorali», improbabili, comunque insignificanti vista la differenza abissale dei voti che dividono i due contendenti. Si contesterà il Consiglio Elettorale che ha accolto ogni regola richiesta dall’opposizione, meno il voto elettronico affidato a una società Usa. Gli scrutatori- controllori del voto nei seggi sono stati sorteggiati a caso. Marina Corina Machado e quasi tutti i membri del Sumate, organizzazione cardine nell’opposizione (finanziata ufficialmente dalla Ned, National Endowment for Democracy, e dalla Usai, Agency for International Development agenzie del dipartimento di stato); Maria Corina e gli altri hanno avuto l’incarico, da parte del governo, di vegliare sulla regolarità delle operazioni. Maria Corina, portavoce Sumate, alla ribalta per la foto mano nella mano con Bush davanti al camino della Casa Bianca, ha passato la domenica nella postazione elettorale numero tre, municipio Sucre, stato di Miranda. Si è lamentata con due segnalazioni veniali, niente più.

Ministri e consiglieri del presidente rieletto sono preoccupati dall’ipotesi di una strategia finora collaudata con successo in altri paesi, sempre Ned e Usaid dietro le quinte, sempre protagonista, sotto i riflettori, un’ agenzia specializzata nei sondaggi: Spen, Schoen § Bertland, sede Washington. Il Guardian di Londra spiega con quale procedura interviene nelle campagne elettorali. Le accompagna con rilevazioni il cui impegno è sgretolare le vittorie annunciate da ogni altra agenzia, destabilizzando l’opinione pubblica con sospetti di brogli. Alla vigilia del voto di Caracas, mentre sondaggi nazionali e Usa davano Chavez in vantaggio col 15, 20 per cento di voti in più, Spen, Schoen § Bertland annunciavano il pareggio tecnico, risultato che «precipiterà il Venezuela nel caos». Fino all’ultimo minuto ogni giornale, ogni radio e ogni Tv privata, media dominanti dell’informazione venezuelana, lo hanno ripetuto agli elettori. Impaurendoli. Prematuro quando i voti sono appena contati prevedere cosa può succedere dopo la sconfitta: solo ipotesi del vertice Chavez. Sfogliando altre elezioni nelle quali era presente la Spen, Schoen § Bertland, una costante raccoglie curiosamente protagonisti e strategie che in qualche modo ricordano il Venezuela di oggi anche se realtà sociali e politiche appartengono ad altre latitudini: Bielorussia 2003, Georgia, 2004, Ucraina. Per caso anche lì lavorava in sincronia il trittico Ned, Usdai e Spern, Schoen § Bertland. In Bielorussia contestano le previsioni di vittoria del candidato ufficiale. Perdono quando si contano i voti, ma trionfano nelle piazze eccitate dalle ipotesi catastrofiche seminate durante la campagna elettorale. In Georgia la Rivoluzione delle Rose rovescia Shevardnaze, e in Ucraina manda via il vincitore filo russo insediando Yushenko. Attenzione, siamo alla periferia dell’impero Putin, l’America Latina é diversa e la fantapolitica di questa paura sembra irrealizzabile. Irrealizzabile perché è cambiato il panorama regionale, ma non solo.

Le elezioni 2006 fanno sventolare altre bandiere in America Latina: Correa in Ecuador e Ortega in Nicaragua, Morales in Bolivia (finanziati da Chavez), ed anche la moderazione di Kirchner e Lula (Argentina e Brasile) considera Chavez un alleato sicuro. In più negli Stati Uniti è successo qualcosa. La vittoria dei democratici cambia nel senato il presidente comitato esteri per gli affari latino americani: Christopher Dood prenderà il posto del repubblicano Thomas Shannon il quale aveva sostituito Otto Reich, tutore del colpo di stato 2002 contro Chavez. Dood diventa l’uomo chiave nei rapporti tra il grande paese e il continente sud. Senatore del Connecticut, negli anni ottanta ha tessuto la pacificazione dell’America Centrale attraversata da guerriglie e squadre della morte. Si è impegnato «molto seriamente» contro l’embargo a Cuba: «Perché dobbiamo farci odiare da popoli che poi accogliamo quando lasciano i loro paesi costretti da turbolenze in qualche modo protette da certe nostre agenzie?». Dodd ha una eccellente opinione dei presidenti latini eletti negli ultimi mesi: dalla Bachelet a Correa dell’Ecuador passando da Lula. Qualche dubbio sul Messico sconvolto dal dualismo Calderon (presidente costretto a giurare con l’affanno di un perseguitato) e Lopez Obrador, leader della sinistra. «La sinistra esiste perché esiste l’ingiustizia sociale, ed è irreale pensare di far sparire con qualche artificio governi eletti democraticamente. Bisogna ridimensionare la sinistra radicale dialogando con politici normali e non si diventa normali solo perché amici degli Stati Uniti». Le idee di Todd sono chiare. Di Chavez cosa pensa? «È un protagonista molto importante nell’emisfero occidentale ma credo debba modificare il linguaggio. Chiede agli Stati Uniti di migliorare il dialogo, ma lo dice in modo tale da rendere difficile qualsiasi miglioramento».

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