2473 CUBA, 50 anni fa: «Io italiano sul Granma con Castro e il Che»

20061202 18:20:00 webmaster

Maurizio Chierici (da l’Unità)

Cinquant´anni fa,in queste ore, il Granma si riempiva d´acqua, mare agitato. Era il barcone sul quale Fidel Castro e 81 volontari stavano raggiungendo Cuba per cominciare la rivoluzione contro la dittatura di Battista. Cinquant´anni dopo i reduci festeggiano il compleanno dello sbarco sul palcoscenico dell´Avana. Assieme ad Ernesto Che Guevara e al domenicano «Pichirillo», soprannome di Ramon Mejias, Gino Doné era uno dei tre stranieri ad aver partecipato all´impresa. Italiano di San Donà del Piave dove è tornato a vivere dopo 60 anni d´America. Cento ore. Doné si era guadagnato la croce di guerra inglese negli anni della Resistenza. È tornato all’Avana nel giorno del ricordo. Cinquant´anni fa si era imbarcato a Tuxplan, Messico, il 24 novembre: «Siamo arrivati alla darsena divisi in piccoli gruppi per non alzare sospetti. Fidel ed Ernesto erano finiti in galera mesi prima», racconta Doné.

Non parcheggiano attorno al porto. Doné cammina sotto la pioggia prima di arrivare dove è attraccato il Granma «troppo piccolo, eravamo in tanti», yacht per vacanze sul mare: in disarmo e ringiovanito com’era possibile con poche risorse. Gino Doné è a poppa. Davanti, nella cabina di comando, i fratelli Castro, Guevara e i capitani dell’avanguardia. Mare grosso, stanno male, ma Doné ha già navigato e non soffre. «Avevano detto due giorni, ma un po’ per non dare sospetti il viaggio si allunga: diventano sei. Comincia la fame, ma il poco cibo rimasto è inzuppato per le onde che fanno la doccia. Coi secchi a svuotare per restare a galla. Dopo due giorni finiscono acqua, frutta e scatolette. Restano arachidi e noccioline. Ma i bagigi non bastano». Le ultime cento ore sono cento ore di niente, guardando se spunta la terra promessa e disperano. Castro a prua col binoccolo. Le voci passano dalla testa alla coda della barca. Doné ascolta in silenzio. Il pilota vorrebbe fare un giro per capire se gli uomini di Battista li stanno aspettando, ma Castro diventa impaziente: siamo di ritardo, scendiamo qui. Quando Doné appoggia i piedi nella laguna dove il Granma si è impantanato – 4 del mattino, 2 dicembre 1956 – l’italiano volontario per caso finalmente respira. «Avevo imparato a muovermi nel fango quando scivolavo sotto gli occhi dei tedeschi nelle paludi attorno a Venezia. Ci siamo, ho pensato. Da questo momento non ho più paura». Ignorava l’insidia delle mangrovie, radici aggrovigliate nelle quali inciampano le scarpe. Dopo quattro ore di traversata nel fango, arriva l’ordine del riposo. «Eravamo sfiniti. Confusi per essere arrivati nel posto sbagliato. Chi si doveva unire alla nostra piccola colonna stava aspettando su un’altra spiaggia. L’appuntamento era quattro giorni prima, un chilometro e mezzo più in là».

Appello col passaparola. Mancano in tanti: «Manca Ernesto, soprattutto». Fidel dice a Doné: «Cercalo ma non perdere tempo. Devi tornare presto». Gino respira la malinconia delle sue parole. Castro non sopportava la scomparsa di un amico così importante. Eppure doveva andare avanti. L’inseguimento dei militari era cominciato. Il racconto di Gino piega in modo diverso la storia ufficiale di Cuba: «Prendo uno dei miei, Luis Guajiro, faccia da contadino. Scendiamo verso la laguna. Camminiamo in silenzio, due chilometri, forse tre, dalla parte di chi ci inseguiva. Ecco Guevara. Saliva tirando le gambe. Testa bassa. Fucile e lanciagranate sulle spalle. Appena mi vede cambia colore. Ancora più pallido, ma era sempre pallido. Coraggio, ci aspettano, gli dico. Stiamo pensando di accamparci: "No", risponde. "Mi arrangio da solo". Cerco di sfilargli il fucile. Si arrabbia. "Il fucile lo tengo". A fatica sfilo il lanciagranate e lo passo a Luis. Poi un altro attacco d’asma. Inginocchiati, lo prego sottovoce perché non sembrasse un ordine. Mia moglie Nora soffriva d’asma. Avevo imparato come darle conforto massaggiando spalle e collo, dall’alto in basso, lentamente. Ernesto sospira: "adesso puoi smetter", ma non si ribella se continuo. Non so quanto passa, forse mezz’ora: "Adesso andiamo": è un ordine con un filo di voce. Gli abbraccio le spalle: ti aiuto. Risaliamo dove ci aspettano. Mi fermo nel mio plotone di rertroguardfia: accompagna Ernesto da Fidel, e Luis lo accompagna».

Nella storiografia cubana la stessa avventura (meno precisa, meno trepidante) si raccoglie il racconto di Luis Crespo, il contadino che il tenente Doné ha guidato alla ricerca del Che. Facile capire perché. Crespo è andato avanti fino all’Avana, mentre Gino è diventato un fantasma. Sparito. Per anni impossibile capire se fosse vivo o morto.

Ho incontrato Doné a Fort Brouton Beach attorno agli stabilimenti Motorola, maggio 2000. Fino a quel momento in pochi sapevano della sua esistenza e la coprivano con uno strano silenzio. Poi Doné è tornato dieci anni fa accolto col tappeto rosso degli eroi della rivoluzione. Qualche mese prima dell’annuncio del Castro ammalato, Castro lo aveva finalmente riabbracciato. A Brouton Beach, sotto il cappello cow boy incontro lo sguardo azzurro di un vecchio signore. Alza gli occhi verso le nuvole che minacciano la pioggia tiepida. Un bel vecchio come tanti nella Florida di pensionati. Il suo nome appare nelle lapidi: disperso dopo lo sbarco del Granma, ma gli storici cubani non hanno mai spiegato dove fosse sparito e perché. Nessuna traccia per cinquant’anni. Cinquant’anni fa, 5 dicembre ’56, ai piedi della Sierra Maestra, in un posto dal nome sbagliato – Felicitad de Pio – lo sfaccendato che raccoglieva i denti strappati dagli ami nella caccia agli squali, ha visto per l’ultima volta un amico col quale aveva attraversato notti di chiacchiere a Città del Messico: Ernesto come continua a chiamarlo. Appoggiato a un albero, parlava con Jesus Montanè, compagno della prima ora di Castro e segretario fino alla morte. Guevara sta curando i piedi martoriati di chi aveva marciato sulla pietraia. Gino gli sorride come per dire «Fin qui ce l’abbiamo fatta…».

Allora il vecchio signore aveva 32 anni, pettinato con la riga da una parte come ogni bravo ragazzo. «I miei uomini non riescono più a camminare. I chiodi degli scarponi graffiano i piedi. Puoi fare qualcosa?». «Finisco e ti chiamo», risponde Guevara con fasce e alcool in mano. Doné torna al posto di combattimento, cento metri in là. Deve coprire le spalle agli 82 uomini sbarcati dal Granma. Esercito e aerei del dittatore Battista li stanno seguendo. Appena siede nell’ombra pallida della canna da zucchero «arrivano centinaia di militari e un diluvio di pallottole. Cerchiamo di nasconderci fra le canne, ma piccoli aerei volano basso. Guidano la caccia. Mitragliano». Il colloquio senza emozione sono le ultime parole tra Gino Donè e Guevara. Ferito al collo, il Che viene trascinato da un’altra parte. Non si vedono più.

Per quasi mezzo secolo di Donè è rimasto il segno di un nome nei libri che ricordano il viaggio del Granma. La faccia pulita del giovanotto spunta nell’albo degli «eroi» accanto al profilo irsuto di Fidel, sotto, un Guevara grassoccio, diverso dalla figura romantica che sventola in ogni corteo. Di Donè non si sapeva altro. Un nome sulle lapidi e un volto che il tempo doveva aver cambiato. Nessuno immaginava come.

Perché è sparito? «Tutto è cominciato a Cuba». Quando?. «Non così in fretta. Mi sono abituato a pensare al futuro. Tornare nel passato sembrava inutile..». Non una scusa, ma l’impaccio del ritrovare la memoria per ritrovare il tempo sepolto nei cassetti e riconoscere immagini e ricordare i nomi delle vite precedenti. Gino Donè ha 83 anni. Viene da Passarella, sotto gli argini del Piave. Fino a cinque anni fa abitava negli Stati Uniti: cittadino americano. È tornato a casa, appena di là dal ponte di San Donà. Prima della Resistenza aveva combattuto per cinque anni: dalla Jugoslavia, ad Anzio con la divisa del reich: i tedeschi lo avevano catturato in fuga e mandato in prima linea nel fronte dello sbarco alleato. Carne da macello eppure era riuscito a scappare per cominciare la guerra delle ombre, appostamenti, rocamboleschi colpi di mano. La guerra finisce e Gino torna a fare il militare: l’8 settembre ’43 si è sfilato la divisa a Pola, quindi figura nell’elenco dei disertori. Punito con due anni di guerre finte dopo tante guerre vere: su e giù nel cortile di una caserma di Modena. Poi va clandestino in Francia a cercare lavoro. Arriva ad Amburgo. Nel porto c’é una nave della flotta Lauro: carica di rottami di ferro, destinazione Cuba. Si nasconde e affiora sul ponte in mezzo al mare: la vita clandestina non finisce mai. Ma nella Cuba 1952 trova l’America. Fa tanti mestieri: decoratore, ferraiolo che prepara i calcestruzzi del monumento a Martì in mezzo alla piazza oggi della Rivoluzione. Finisce come deve finire. Conosce una bella ragazza, Norma Turigno: si sposano. Entra nella famiglia di un ricco commerciante di tabacco. Incontra ospiti guardinghi in visita da altre città. Appartengono al partito Ortodosso, sfumatura politica liberale che appoggia la resistenza segreta degli esuli confinati a Città del Messico attorno ai fratelli Castro graziati da Battista dopo venti mesi di prigione: quell’attacco fallito alla caserma Moncada. Preparano la rivincita mentre nell’isola una rete segreta organizza l’avventura. Servono soldi. Bisogna portarli in Messico con mani sicure. Il medico Faustino Peréz chiede a Gino di andare da Castro. Peréz appartiene ai liberali ortodossi di Fidel. Lo raggiungerà in Messico, diventerà ministro.

Spola tra l’Avana e Città del Messico. Due viaggi con passaporto italiano, nessun sospetto. Gli imbottiscono la giacca di dollari. Li consegna a Castro. Poi Donè viene rimandato a Cuba. Riappare in Messico col pacco dei dollari più pesante. Settembre’ 56: Fidel sta comprando il Granma, dall’Avana arrivano gli ultimi soldi che servono. Comincia il viaggio. Quando l’imboscata a Felicidad de Pio disperde nella canna da zucchero il piccolo esercito di Fidel, Donè guida gli uomini della retroguardia verso la montagna.

Dall’ultimo rifugio Donè esce con i vestiti che gli hanno prestato. Aria di uno straniero di passaggio, monta su un bus e raggiunge Santa Clara: lo prevedevano i piani dell’emergenza pianificata a Città del Messico. Nella casa di un dentista incontra «una bella ragazza». Deve addestrarla e poi guidarla nel battesimo di fuoco. Passeggiano abbracciati come fidanzati davanti al palazzo della prefettura. Aleida nasconde la bomba a mano nella borsetta. La passa a Donè, ma all’ultimo momento Donè rinuncia. Le spiegazioni di Aleida e del vecchio italiano sono molte diverse. «C’era troppa luce», racconta oggi Aleida. «Aveva l’aria di una trappola», scuote la testa Donè. Era il 6 gennaio, festa della befana. «Chi ha progettato l’attentato sapeva, ma ci ha spinti a buttare la bomba di un massacro. La strage dei bambini sarebbe ricaduta sulla marcia di Castro spegnendo l’entusiasmo della gente. Una trappola forse inventata da chi non voleva Battista ma non voleva nemmeno Fidel». Gli sbirri tengono d’occhio la maestrina. Si chiama Aleida March, più tardi sale sull’Escambray dove combatte il Che. Ne diventa la seconda moglie. È lei a raccontare l’impresa mancata assieme a Gino, 45 anni dopo, nella casa dell’Avana. «C’era troppa luce. Doné mi ha detto: stasera non si può». Chissà qual è la verità.

www.unita.it

 

 

2473-cuba-50-anni-fa-io-italiano-sul-granma-con-castro-e-il-che

3249

2006-1

Views: 16

AIUTACI AD INFORMARE I CITTADINI EMIGRATI E IMMIGRATI

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*


Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.