20061213 13:09:00 webmaster
L’articolo è del 2005, pubblicato sulla rivista Latinoamerica n. 90/91
Il Rapporto 2005 di Amnesty International, appena reso noto, segnala in modo preoccupante come “molti governi hanno tradito i loro impegni in materia di diritti umani e stanno promuovendo una nuova agenda in cui il linguaggio della libertà e della giustizia viene usato per portare avanti invece politiche di paura e di insicurezza”.
Questa denuncia mi ha riportato alla mente un’intervista di Anna Maria Merlo [pubblicata sul Manifesto martedì 3 maggio] a Robert Menard, ambiguo fondatore di Reporters sans frontières.
In quell’intervista, infatti, l’infaticabile leader di questo movimento per la presunta verità e per la libertà dei reporter, si era dimenticato di ricordare molte cose che lo riguardano e che ci aiutano ora a capire come alcuni governi, ad esempio quello degli Stati Uniti, riescano a imporre il clima segnalato da Amnesty International. Usano agenzie informative e network radiotelevisivi compiacenti, spesso sovvenzionate a milioni di dollari che contribuiscono a esaltare i governanti dei paesi che attuano politiche convenienti alla loro economia o aiutano a infangare leader come Castro, Chavez, o perfino Lula da Silva, non allineati e coperti sulle direttive delle multinazionali e della finanza speculativa. Non a caso, solo un anno fa l’Onu ha messo in atto un processo di espulsione per tre anni di Reporters sans frontières dal ruolo di entità consultiva per “atti incompatibili con i principi e gli obiettivi della Carta delle Nazioni Unite”. E questo a causa del lavoro, non sempre trasparente e non sempre da giornalisti, riguardo a Cuba.
Un lavoro di lobbying per appoggiare sul piano della propaganda le nuove strategie di destabilizzazione e di delegittimazione, messe in atto dal governo di George W. Bush contro Cuba. Strategie iniziate con l’invio nell’isola del nuovo incaricato d’affari Usa James Cason, un funzionario esperto di “guerre sporche” in America latina, che ha avuto, come Menard sa bene, una dotazione di 53 milioni di dollari l’anno per favorire un cambio “rapido e drastico” nell’isola, con tanti saluti al diritto di autodeterminazione dei popoli. Il progetto prevede infatti, come segnala il sito del Dipartimento di stato Usa nel file Cuba libre, anche uno stanziamento di 5 milioni di dollari l’anno per favorire un’adeguata circolazione di notizie faziose o manipolate sulla revolución. Una volta questo lavoro strategico veniva fatto dal Ned, National Endowment for Democracy, un’agenzia della Cia che metteva in atto questo piano attraverso i mitici “Comitati per i diritti umani a Cuba”, sorti all’epoca di Reagan e Bush padre, in tutte le capitali europee e poi caduti in disuso, negli anni ’90, sotto la presidenza di Bill Clinton perché ritenuti dispendiosi e poco convenienti. Adesso, evidentemente, i funzionari del Ned hanno deciso che era meno expensive e più comodo affidare questo incarico direttamente a giornalisti come Menard di Reporters sans frontières.
L’operazione sarebbe già discutibile per l’etica del giornalismo, tante volte sbandierata in Italia e in Europa, se oltretutto non stonasse con il fatto che lo stesso atteggiamento, per esempio, non viene tenuto dai “Menard boys” nei confronti di Israele, che nel mese di aprile ha ricevuto per l’ennesima volta, tre condanne dalla Commissione diritti umani dell’Onu, scrupolosamente occultate dalla grande stampa occidentale.
Proprio i Reporters sans frontières si sono guardati bene, nei loro due ultimi rapporti, dal segnalare gli abusi e le violazioni dei diritti umani compiute dagli Stati Uniti d’America nella guerra in Iraq e perfino le torture inflitte dall’armata d’occupazione Usa nelle prigioni di Abu Ghraib e successivamente ripetute in quel lager tropicale nel quale è stata trasformata la base nordamericana di Guantanamo. Il Rapporto di Amnesty International sull’argomento è stato definitivo: “Nonostante gli Usa abbiano continuato a usare il linguaggio della giustizia e della libertà, lo scarto tra retorica e realtà è rimasto profondo. Una situazione confermata dalla mancanza di indagini esaurienti e indipendenti sull’agghiacciante fenomeno dei maltrattamenti e delle torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib e dall’assenza di provvedimenti nei confronti delle più alte cariche dell’amministrazione nordamericana […] Gli Stati Uniti, superpotenza politica, militare ed economica senza rivali, stabiliscono la linea di comportamento per i governi. Quando la nazione più potente del mondo si fa beffe del primato della legge e dei diritti umani, concede ad altri paesi la licenza per compiere abusi e affermare l’impunità”.
Dal disinvolto Robert Menard e dalla sua lobby mi sarei aspettato, per equilibrare i comportamenti, non dico una campagna, ma almeno un rifiuto, un rimbrotto per questi infami accadimenti, stigmatizzati con un rapporto specifico perfino dalla Croce Rossa o per le abnormi condanne ai cinque cubani, rei solamente di aver scoperto e denunciato le centrali terroristiche attive dalla Florida verso Cuba. Questi reporter embedded, d’altronde, non avevano avuto un sussulto nemmeno quando, per bocca dello stesso presidente George W. Bush e del suo ministro della Giustizia Ashcroft, si era appreso che più di tremila persone, forse cinquemila, per le leggi anti-terrorismo sono sparite negli ultimi anni, inghiottite dalle carceri speciali dei servizi nordamericani. Un’odissea ignorata dai Reporters sans frontières, ma indagata da The Nation, la prestigiosa rivista culturale della sinistra nordamericana, nel 2002 e nel 2004, attraverso alcuni saggi di David Cole, editorialista della rivista stessa in materia di legalità e giurisprudenza, oltre che docente all’Università di Georgetown.
I Reporters sans frontières, fedeli alla loro consegna, erano più interessati, invece, a chiedere ufficialmente, un anno fa, un incontro urgente con Marco Tronchetti Provera, presidente del consiglio di amministrazione di Telecom Italia, che controlla il 29,3% del capitale di Etecsa, l’unico provider internet di Cuba. Menard e il suo gruppo di “pronto intervento”, in difficoltà per la parola data agli amici americani, si sentivano evidentemente infastiditi dal fatto che una ditta italiana non si fosse allineata alla logica disumana del quarantennale embargo all’isola, inasprito ulteriormente dalla legge Helms-Burton, che pretenderebbe perfino di sanzionare le ditte di nazioni sovrane che collaborano con l’economia cubana. I Reporters sans frontières, sempre preoccupati dall’esigenza di comunicazione dei dissidenti dell’isola, sognavano evidentemente di lasciare incomunicata invece tutta la Repubblica di Cuba.
Quando dei giornalisti arrivano a un grado così evidente di doppia morale, è chiaro che non stanno facendo più il loro mestiere, ma che rispondono ad altre priorità, come quella di patrocinare a Parigi manifestazioni anticubane in collaborazione con inquietanti organizzazioni della Florida implicate negli attentati compiuti a Cuba negli ultimi trent’anni e che hanno causato più di tremila vittime.
Che c’entra tutto questo con il lavoro di denuncia e garanzia che una associazione di giornalisti dovrebbe fare? Robert Menard si è dimenticato di dirlo ad Anna Maria Merlo, così come ha dimenticato di parlare dei suoi sponsor, non solo di quelli politici come il Ned, ma anche di quelli economici: da Jean Marie Messier, il discusso ex-presidente della multinazionale francese Vivendi Universal e anche di Vivendi Environment [società che per le sue spericolate operazioni finanziarie negli Stati Uniti Messier ha portato sull’orlo del fallimento], alla FNAC, una catena di supermercati di prodotti culturali e addirittura alla Saatchi & Saatchi, il gigante mondiale della pubblicità. Sono relazioni che spiegano la martellante campagna anticubana in atto dall’avvento alla presidenza di George W. Bush. Non a caso Reporters sans frontières ha un rapporto privilegiato anche con Publicis, concessionaria delle strategie di promozione delle forze armate Usa, della Coca Cola [che ha tristi trascorsi riguardo alla sorte dei sindacalisti nelle sue affiliate latinoamericane], della McDonald’s e della Bacardi, la ditta di rum che sovvenziona in Florida le attività eversive per annientare il turismo a Cuba.
Per questo mi sono impensierito quando ho letto dell’autocoinvolgimento di Reporters sans frontières alle manifestazioni parigine per la liberazione di Florence Aubenas e Giuliana Sgrena. Con quale coraggio Robert Menard e i suoi reporter che non si sono mai sognati, per esempio, di organizzare campagne contro i delitti di lesa umanità commessi dagli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq, si sono uniti a quelle manifestazioni? Con quale spudoratezza il signor Menard e i suoi, che non hanno sentito il bisogno di prendere posizione per i quattordici reporter uccisi in Iraq dal “fuoco amico” senza nessuna ragione [e in qualche occasione col dubbio della volontarietà] accampa adesso meriti nel campo delle lotte per la libertà e la democrazia? E dov’erano i Reporters sans frontières mentre in Bolivia o in Perù presidenti come Sanchez de Losada o Gutierrez facevano sparare sugli indigeni che reclamavano i propri diritti negati da cinquecento anni? E perchè non hanno mai chiesto ragione al presidente colombiano Uribe, che governa con l’appoggio dei paramilitari, della realtà politica di un paese, dove ogni anno sono uccisi più giornalisti e sindacalisti che in qualunque altra parte del mondo? Forse perchè Uribe è, in questo momento, l’alleato più fedele degli Usa in Sudamerica?
Robert Menard che non a caso dice di aborrire le manifestazioni di solidarietà di piazza e preferisce certa ambigua propaganda via internet, ha affermato anche di aver inserito nel direttivo di Reporters sans frontières Giuliana Sgrena. Io, che come altri, lo ricordo acceso sostenitore di una delle associazioni che a Miami chiedevano a Clinton di non restituire Elian, il bimbo cubano, al legittimo padre, aspetto ora da Reporters sans frontières una campagna esplicita per la verità sull’uccisione di Nicola Calipari e perché, chi ne è responsabile, sia punito.
In caso contrario, sarà chiaro che i Reporters sans frontières non fanno più il mestiere di giornalisti, ma sono operatori di quello che Rigoberta Menchú, pochi anni fa, ha definito “il mercato dei diritti umani”.
di Gianni Minà
L’articolo è stato pubblicato sulla rivista Latinoamerica n. 90/91 di gennaio-giugno 2005
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