20061214 09:52:00 webmaster
Fassino: una fase costituente per il partito democratico
Con il Consiglio nazionale si apre la fase congressuale della Quercia tutto incentrato sulla confluenza o meno nel Partito Democratico. Le mozioni già in pista al momento sono tre anche se la sfida a primavera sarà tra Fassino e Mussi. Accordo sulla data – primavera 2007 – e sulla possibilità di voto per i nuovi iscritti entro il 13 dicembre. Per il resto il dibattito aperto.
Fassino traccia il percorso spiegando che con il congresso i Ds non si scioglieranno ma approveranno una piattaforma politica con cui concorrere alla costruzione del Partito Democratico, eleggeranno un segretario e gli organismi dirigenti previsti dallo statuto, e ad essi sarà data la responsabilità di guidare la Quercia nel nuovo progetto. Nella relazione al Consiglio nazionale, il segretario sottolinea dunque «la necessità di una transizione caratterizzata da gradualità e processualità a cui le organizzazioni fondatrici concorrano con la loro organizzazione, le loro politiche e i loro gruppi dirigenti».
Ci vuole, insomma, un percorso costituente. «L’unità delle forze politiche riformiste – spiega il segretario della Quercia- ha certamente il suo perno nell’intesa Ds-Margherita, ma non si esaurisce in essa. Le forze politiche che esprimono culture socialiste, repubblicane, liberaldemocratiche, cristiano sociali, ecologiste, sono altrettante necessarie se davvero si vuole realizzare l’unità dei riformisti del nostro Paese». Ma al di là dei buoni propositi, è arrivato il momento di mettersi i moto: «Per noi Ds è un punto dirimente che questa più ampia convergenza di forze politiche, culturali e sociali, si possa manifestare sin dalle prossime settimane e per questo chiediamo a Romano Prodi, nella sua qualità di leader dell’Ulivo, di promuovere da subito sedi e appuntamenti per dare al processo di costruzione del Pd questa configurazione aperta».
Sempre rispondendo alle perplessità delle attuali minoranze, Fassino mette in chiaro che «non si tratta di sacrificare le ragioni della laicità sull’altare del Partito democratico», ma avverte che «non può essere elusa la consapevolezza di quanto decisivo e strategico sia nella storia dell’Italia e per il futuro del Paese, il mondo cattolico e di come nessuna reale alternativa democratica e di progresso sia praticabile se il mondo cattolico volge il suo sguardo a destra».
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Mussi: non si parli di scissionisti. D’Alema: poco simpatico minacciare di andarsene
Sul fronte opposto, Fabio Mussi, ministro dell’Università e della Ricerca e candidato alla segreteria Ds del «Nuovo correntone», non si pone limiti nella "battaglia" congressuale e si dice «sereno e con spirito combattivo». Per la sua candidatura a segretario punta a più del 30% di consensi.
Mussi spiega di non condividere l’opinione di Fassino quando dice che il prossimo congresso non scioglierà i Ds. «Se si profilano patti di passaggio, federazioni di transito e poi un nuovo congresso, alla fine si raccoglierà tutto con il cucchiaino. La verità è che questo congresso, e non un altro, deciderà se si tira dritto verso il Partito Democratico o ci si ferma, la discussione deve essere chiara». Il ministro definisce l’unione tra Ds e Dl come «una coppia sterile», e richiama invece l’idea di un Ulivo «che raccoglie il 44% dei voti e che comprende tutte le forze di centrosinistra esclusa Rifondazione. È quello l’Ulivo a cui io mi ispiro- ha aggiunto- perché in quell’alleanza ha un ruolo importante una grande forze di sinistra. Oggi invece è ridotto al 31% e alla sola unione fra Ds e Margherita».
Chiudendo il suo intervento Mussi lancia al segretario un duro monito: «Non accuserò nessuno di essere un traditore perché non esistono tradimenti. Ma ho sentito nella relazione l’espressione scissionisti: se si fa una campagna stalinista sulla scissione io lascio il congresso domani».
La replica spetta poco dopo a Massimo D´Alema: «Nessuno farà una campagna stalinista sulla scissione anche perchè per altro siamo al Governo insieme e quindi sarebbe uno strano modo di scindersi», afferma il vicepremier. E in ogni caso, «Fassino non ha proposto di allungare il brodo ma ha delineato un certo modo di costruire il Pd. Ha proposto una fase costituente non per estenuare chi si oppone ma per evitare che sia solo una fusione Ds e Dl». Nessuna scomunica, insomma. «L’errore – aggiunge D’Alema – è di chi fin dall’inizio ha detto: "se lo fate me ne vado". Non è stata una cosa simpatica».
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Angius: serve una federazione. Caldarola critica i gruppi dirigenti
Dalla terza mozione, quella guidata da Gavino Angius e Giuseppe Caldarola arrivano accenti diversi. Caldarola, da una parte, non manca di rilanciare in modo netto il tema del ricambio dei gruppi dirgenti: «Se non sono d’accordo sulla linea, non sono d’ accordo neanche con i gruppi dirigenti come avviene in tutti i partiti socialisti europei» osserva. Più conciliante, invece, Angius: «Noi diciamo sì allo sforzo da compiere per dare vita ad un nuovo partito politico e mi dispiace che la nostra posizione sia stata riassunta invece con un no. Non è così» L’idea è quella di «un patto federativo, un processo più coinvolgente che, secondo me, rafforzerebbe il nuovo partito»
Sempre fra i simpatizzanti della terza mozione, Massimo Brutti chiede dal congresso un «mandato netto ed inequivocabile, affinché il Partito Democratico entri nel Pse».
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La relazione al Consiglio Nazionale
Piero Fassino
Care compagne, cari compagni,
sono molti e importanti i cambiamenti intervenuti nei mesi che ci separano dall’ultimo Consiglio nazionale.
In Medio Oriente, sull’altra sponda del Mediterraneo, è acceso un altro focolaio di tensione e di conflitti.
Di fronte all’esplodere di un nuovo conflitto armato – suscitato dai continui attacchi missilistici di Hezbollah a cui Israele ha risposto con una dura azione militare – l’azione dell’Italia è stata decisiva per sollecitare l’impegno diretto di ONU e Unione Europea e per dare alla crisi libanese una risposta politica e diplomatica.
Questo successo è in gran parte il frutto della determinazione con la quale il nostro Governo ha dichiarato la sua disponibilità a schierare, lungo il difficile confine tra Libano e Israele, truppe italiane sotto le insegne delle Nazioni Unite.
Lì ci sono oggi quasi tremila "caschi blu" italiani, ai quali va il nostro saluto riconoscente e il nostro sostegno, in uno scenario esposto a gravi rischi.
In questi giorni, infatti, la vicenda libanese sta conoscendo un nuovo passaggio critico, con l’assassinio di Pierre Gemayel e un aspro conflitto politico tra il Governo Siniora e gli Hezbollah.
Una crisi che non solo non smentisce l’impegno del nostro Paese, ma sollecita ad una nuova immediata azione dell’ONU e dell’Unione Europea per evitare precipitazioni drammatiche e per promuovere una mediazione politica che consenta al Libano di ritrovare stabilità.
Così come è necessario che la comunità internazionale isoli e contrasti la campagna del Presidente Ahmadinejad di negazione dell’olocausto e di delegittimazione di Israele e agisca per favorire e sostenere la formazione di un Governo di unità nazionale palestinese che possa essere interlocutore delle prime aperture venute in questi giorni dal governo israeliano.
Nel frattempo, dieci giorni fa, sabato 2 dicembre, la bandiera italiana è stata ammainata a Nassiriya e riconsegnata dal ministro della Difesa nelle mani del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Il Governo ha così mantenuto uno dei principali impegni assunti in campagna elettorale: entro la fine dell’anno, avevamo detto, faremo rientrare i nostri soldati dall’Iraq. E così è stato.
Tra queste due decisioni – la missione in Libano e il rientro dall’Iraq – non solo non c’è contraddizione, ma anzi c’è un duplice, stretto legame.
Il primo riguarda le nostre Forze armate: identici, in Libano come in Iraq, sono la professionalità, l’onore, il senso di umanità, la dedizione alla causa della pace, dei quali i nostri soldati hanno dato e stanno dando prova, così come identico è il forte, caloroso sostegno alla loro missione da parte di tutto il popolo italiano.
Il secondo legame è politico: la decisione di schierare le nostre truppe in Libano è figlia della stessa visione che ci ha spinti a far rientrare il contingente dall’Iraq. Una visione per la quale l’uso della forza, che può essere inevitabile per garantire e promuovere la pace, deve essere sempre posto al servizio di un’azione politica ispirata ai principi del multilateralismo e fondata sulla legalità internazionale. Per questo abbiamo detto no alla guerra in Irak e abbiamo detto sì all’invio dei caschi blu in Libano.
Le cose vanno male a Baghdad, ha dovuto ammettere a denti stretti il presidente Bush. E il nuovo Segretario alla Difesa, Gates, ha riconosciuto che gli Stati Uniti, in Iraq, stanno perdendo la guerra.
Una guerra che si è tradotta in un fallimento politico e militare. E che è costata a Bush una secca sconfitta nelle elezioni di medio termine.
Si sono dovute seppellire decine di migliaia di vittime e gettare al vento miliardi di dollari per riconoscere che la lotta al terrorismo islamista non può essere condotta con la sola forza delle armi.
E che per evitare al Medio Oriente la terribile prospettiva, paventata dal re di Giordania, di tre guerre civili insieme – in Iraq, in Libano e in Palestina, e senza considerare l’Afghanistan – la parola deve tornare alla politica.
"Meno truppe, più diplomazia", ha raccomandato al presidente Bush la commissione Baker-Hamilton: un’azione politico-diplomatica a tutto campo, che deve coinvolgere anche la Siria e l’Iran, i cui comportamenti influiscono pesantemente sulla crisi libanese e sui conflitti che lacerano la dirigenza palestinese.
La lezione irachena insegna che la democrazia non può essere esportata sulla canna dei fucili. La democrazia si diffonde per "contaminazione positiva", come sta pazientemente facendo l’Europa ai suoi confini esterni: verso l’Est europeo, i Balcani, il Caucaso… E verso la Turchia: la scommessa di un’integrazione europea più impegnativa e decisiva, con la quale si può e si deve dimostrare la compatibilità dell’Islam con la democrazia. E la possibilità della convivenza, nella stessa casa europea, tra diverse culture e religioni.
Per questo siamo grati a Benedetto XVI per i gesti e le parole che hanno scandito la sua visita in Turchia: un viaggio che ha allontanato l’incubo dello scontro tra civiltà e aiutato il dialogo interreligioso e interculturale nel nome della pace. E ci auguriamo che l’Unione Europea abbia la saggezza e la lucidità di tenere aperte le sue porte alla Turchia.
Siamo peraltro alla vigilia di un anno che può essere decisivo per il rilancio del processo di integrazione europea, superando così la crisi seguita ai referendum francese e olandese che hanno bocciato il Trattato costituzionale europeo. La presidenza tedesca, nel cinquantenario dei Trattati di Roma, è un’occasione da utilizzare appieno. E l’incontro fra il presidente Prodi e il cancelliere Angela Merkel è un preciso segnale della volontà e dell’ impegno dell’Italia.
L’Europa ha bisogno di riprendere con vigore il processo di integrazione, pena la sua marginalità e irrilevanza sullo scenario mondiale. E, proprio di fronte a una crisi di leadership americana, appare ancora più urgente che l’Europa si dia gli strumenti e le politiche per riempire un vuoto ed essere un attore globale.
Ed è responsabilità della sinistra democratica e delle forze riformiste battersi perché l’Europa – con i suoi valori di civiltà, tolleranza, democrazia, libertà e con il suo modello sociale fondato su coesione e diritti – assuma un ruolo centrale nella governance del mondo. Ed è per concorrere a questo obiettivo che ci sentiamo impegnati a dare corso alla forte piattaforma europeista approvata a Porto nel Congresso dei Socialisti europei.
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La politica estera non è stata il solo capitolo nel quale si è espresso il carattere di svolta dell’azione del Governo di centrosinistra.
Gli stessi caratteri di innovazione politica gli italiani hanno colto nel decreto Bersani-Visco, giustamente compreso da una vasta opinione pubblica come un provvedimento finalizzato alla liberazione di risorse e di opportunità per consumatori e cittadini e di modernizzazione del Paese: una modernizzazione della quale è parte integrante e principio costitutivo una vera e severa lotta all’evasione fiscale. Non a caso, resistenze e proteste, che pure ci sono state e assai aspre, non solo non hanno incontrato solidarietà da parte dell’opinione pubblica nel suo insieme, ma hanno anzi suscitato la preoccupazione che potessero interrompere il percorso di innovazione avviato dal Governo.
Andrete fino in fondo? O vi fermerete e magari tornerete indietro per non ledere interessi corporativi? Questa è la domanda che ci siamo sentiti rivolgere nel mese di luglio.
E’ come se il Paese avvertisse che è solo liberando energie, capacità e opportunità che l’Italia potrà rimettersi in moto, liberandosi di particolarismi, egoismi corporativi, segmentazione degli interessi, guerra di tutti contro tutti.
Insomma: per salvarsi dalla decadenza e dal declino, l’Italia ha bisogno di riforme incisive e profonde all’insegna del primato dell’interesse generale. In realtà la Legge Finanziaria presentata dal Governo è tutt’altro che di ordinaria amministrazione, ed è improntata a una netta discontinuità con le politiche di bilancio precedenti.
Nella passata legislatura, la politica economica di Berlusconi e Tremonti ha dato all’Italia: la crescita zero, mentre l’economia mondiale conosceva la fase di sviluppo più impetuoso della storia recente; il dissesto dei conti pubblici, con tre punti di pil di spesa corrente in più; l’azzeramento dell’avanzo primario e la ripresa del debito; e un impressionante aumento di precarietà nel lavoro e disuguaglianze nei redditi.
Al contrario, la Finanziaria 2007 si propone di aprire un ciclo nuovo che consenta all’Italia di ritrovare alti livelli di crescita.
E lo sforzo – qui sta la differenza con politiche neoliberiste di puro aggiustamento finanziario – è tenere insieme il risanamento dei conti pubblici con la ripresa dello sviluppo e una decisa azione per l’equità sociale.
Basterà ricordare che si vuole riportare il disavanzo di bilancio, che oggi con la sentenza sull’Iva e l’emersione del debito delle ferrovie sfiora il 6 per cento, sotto la soglia europea del 3% in un solo anno.
Uno sforzo che consente di dedicare più risorse al rilancio degli investimenti e della crescita, mettendo a disposizione delle imprese una quantità di risorse superiore a tutte le Finanziarie precedenti.
Per la prima volta dopo cinque anni il Mezzogiorno torna ad essere una priorità vera dell’azione di Governo, con politiche e risorse dedicate.
Con l’utilizzo del TFR inoptato presso un fondo Inps, si sono assicurate le risorse per un consistente programma di investimenti infrastrutturali.
Dopo anni di tagli si riprende ad investire anche nella cultura, nella produzione intellettuale, nel patrimonio artistico e ambientale.
L’impegno a contenere la spesa pubblica non ha, al tempo stesso, impedito di prevedere in Finanziaria risorse per l’avvio di un Piano nazionale di asili nido, la istituzione del Fondo per le persone non autosufficienti, il rifinanziamento della legge 328 per il welfare locale, l’istituzione del Fondo per l’integrazione degli immigrati e altre misure di sostegno alle famiglie.
Così come sono garantite le risorse per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego e per realizzare finalmente la stabilizzazione dei tantissimi insegnanti precari della scuola.
Insomma accanto al risanamento e allo sviluppo, l’equità: e infatti questa Finanziaria avvia una redistribuzione di reddito a vantaggio prima di tutto di chi ha di meno, con una rimodulazione fiscale ispirata a equità sociale e con un impegno straordinario di riduzione dell’enorme massa di fisco eluso o evaso.
Peraltro nel corso dell’iter parlamentare, la manovra è stata corretta e perfezionata in molti aspetti, anche raccogliendo nostre precise richieste.
Maggiori risorse sono state garantite a settori strategici, come la formazione, l’università e la ricerca, la sicurezza dei cittadini.
Il necessario contenimento della spesa pubblica è stato rimodulato, in modo tale da assicurare a Enti Locali e Regioni le risorse per politiche sociali e servizi essenziali.
Sono state accolte buona parte delle richieste formulate dal mondo del lavoro autonomo: dalle norme sull’apprendistato a quelle sullo scontrino fiscale, dagli studi di settore alla successione d’impresa, dal TFR alla riduzione dei contributi INAIL.
E’ stata effettuata un’attenta verifica degli effetti della rimodulazione fiscale, tenendo maggiormente conto dei nuclei monoparentali e degli effetti prodotti su tutti i redditi dalle addizionali locali e prevedendo di utilizzare il maggior incremento di gettito derivante da recupero di evasione per una riduzione della pressione fiscale già dal 2008.
Opereremo ancora in questi ultimi giorni di esame parlamentare per rendere la legge Finanziaria più efficace e chiara nei suoi obiettivi, consapevoli che realizzarli – e in particolare ridurre il deficit al di sotto del 3% e portare la crescita del PIL al 2% – è condizione per restituire all’Italia e agli italiani fiducia e opportunità.
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La questione politica che dobbiamo porci è allora la seguente: se questo è l’impianto della manovra, un impianto ambizioso e robusto, perché una Finanziaria così impegnativa non ha raccolto l’apprezzamento e il consenso necessario, ma anzi ha suscitato manifestazioni di disagio e di protesta, incrinando il rapporto del Governo con il Paese?
Il primo segnale di difficoltà nel nostro rapporto col Paese lo abbiamo registrato con l’indulto, in sé necessario, ma che è stato percepito da una larga maggioranza degli italiani come un provvedimento di sola emergenza, rischioso per la sicurezza dei cittadini e incapace di rimuovere le cause della stessa emergenza carceraria.
Se lo stesso indulto fosse stato accompagnato da provvedimenti incisivi e strutturali per la sicurezza, per l’abbattimento radicale dei tempi della giustizia, per la costruzione in tempi certi di nuove carceri, sarebbe stato accolto probabilmente con ben altro spirito.
Ma le difficoltà più gravi, le abbiamo registrate con la predisposizione, la presentazione e la discussione parlamentare della Finanziaria.
E’ stato il presidente Ciampi il primo a suonare l’allarme: attenti, disse subito, va reso più chiaro il senso di una missione per il Paese, perchè non ci si può impegnare in una manovra straordinaria di 35 miliardi di euro – una manovra che finisce per colpire innumerevoli grandi e piccoli interessi particolari – se il Paese non ne comprende e condivide il significato complessivo e generale.
Il 2 dicembre, il centrodestra ha portato a Roma, in piazza San Giovanni, centinaia di migliaia di persone, dando vita alla manifestazione popolare più vasta della sua storia e confermando di mantenere un consenso vasto in strati significativi dell’elettorato. Noi abbiamo guardato a quella manifestazione col rispetto che si deve ad una espressione di democrazia e ci siamo sforzati di cogliere le ragioni di disagio di quanti vi hanno partecipato.
Non siamo tuttavia riusciti a cogliere, non solo negli slogan della piazza, ma soprattutto nei discorsi dal palco, una proposta che andasse oltre la pura protesta. Non è un caso, se l’unica componente moderata del centrodestra, l’Udc di Casini, si sia sentita costretta ad organizzare un’altra manifestazione, ben distinta e ben distante, non solo geograficamente, da quella di Roma. Una distinzione non contingente, ma che segna invece una rottura politica nel centro destra che da oggi si manifesta con due diverse modalità di intendere e praticare l’opposizione, che richiamano sempre più due diverse prospettive politiche per la riorganizzazione del centrodestra e dell’intero sistema politico.
Il problema non è dunque l’opposizione, che a pochi mesi dalla sconfitta elettorale resta ben lontana dalla capacità di esprimere un’alternativa credibile al nostro Governo.
Il problema è, se mai, il senso comune che si è diffuso in una parte larga e varia della società, secondo cui questa Finanziaria si esaurirebbe solo in un inasprimento fiscale per tutti, senza ritorni e benefici per i cittadini. E’ questa lettura il filo che lega la manifestazione di Piazza S. Giovanni alle proteste che sono venute da categorie produttive e professionali, così come da settori di lavoro dipendente.
Un malumore che si è manifestato perfino tra lavoratori dipendenti che pure trarranno vantaggio dalla rimodulazione fiscale a favore di chi ha un reddito inferiore ai 40.000 euro annui.
E si aggiunga ancora che in settori da anni esposti alla precarietà – i giovani lavoratori parasubordinati, oppure il mondo della scuola e dell’Università – sono maturate aspettative più alte di quanto la Finanziaria abbia soddisfatto. Il problema è, dunque, imprimere una significativa e sensibile correzione di rotta all’azione di governo e all’iniziativa delle forze politiche, partendo da una realistica constatazione di fatto: l’Italia da dieci anni cresce di un punto al di sotto della media europea e di 3-4 punti al di sotto della media mondiale. E’ un paese nel quale tutti i settori della società e dello Stato sono in sofferenza: dalla sanità alla giustizia, dalla sicurezza alla scuola, dalle infrastrutture alla ricerca, dagli enti locali all’assistenza, non c’è settore che non si percepisca come sottofinanziato e non domandi maggiori risorse.
D’altra parte il vero differenziale è l’enorme debito pubblico accumulato. Mentre, infatti, la percentuale di prodotto interno lordo che l’Italia destina ai vari settori di spesa pubblica è nella media europea, l’incidenza di una spesa per interessi sul debito è quasi il doppio dell’area dell’Euro.
Insomma: senza un radicale mutamento degli indirizzi della politica economica, della spesa sociale e della finanza pubblica, l’Italia non ce la fa.
Senza un rilancio della crescita di almeno il 2% all’anno, sono impensabili sia una politica di investimenti, sia una significativa redistribuzione orizzontale, da un settore all’altro. Né è pensabile un ulteriore aggravio fiscale sul settore privato, dato che anche la pressione fiscale, nel nostro paese, sta raggiungendo livelli critici.
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La verità è che il vero problema del Paese è il grave ritardo, accumulato negli anni, nella modernizzazione complessiva del nostro sistema economico e sociale, causa prima del vistoso rallentamento del nostro tasso di sviluppo.
L’Euro ci ha protetto dal rischio della crisi finanziaria e valutaria, ma non ci garantisce la crescita. Anzi, sottrae in modo definitivo proprio i due principali strumenti che avevano alimentato la crescita drogata degli anni ’80: la svalutazione competitiva e il finanziamento pubblico in deficit.
E, dunque, serve un cambio di passo, una forte innovazione e discontinuità nell’aggredire le fragilità strutturali del Paese.
Dobbiamo intanto procedere con determinazione sul binario del risanamento, per liberarci del cappio del debito, che ci costringe ogni anno a bruciare una percentuale di reddito nazionale doppia a quella degli altri paesi europei per tassi di interesse, anziché aumentare la spesa sociale, gli investimenti e/o ridurre la pressione fiscale. Ma con la stessa determinazione dobbiamo avanzare sull’altro binario, quello delle riforme, in due grandi direzioni: competitività del sistema produttivo e qualità, efficienza, produttività del sistema pubblico, a cominciare dai quattro macro comparti di spesa: previdenza, sanità, pubblico impiego, enti locali.
Come ho già più volte detto, non si tratta tanto di "tagliare", perchè non ci sono margini per significativi tagli quantitativi alla spesa.
Si tratta, invece, di riqualificare, risanare, razionalizzare, ristrutturare. Bisogna fare di più e di meglio con le stesse risorse.
Il che, spesso, è molto più difficile che tagliare.
Per fare alcuni esempi: con la stessa quota di pil, che è in linea col resto d’Europa, il comparto giustizia deve riuscire a portare la durata media delle cause civili ad un anno dai dieci attuali, e deve arrivare a questo obiettivo entro tempi certi.
La quota del PIL dedicata al comparto sicurezza, per fare un altro esempio, è superiore alla media europea. Sarà difficile farla crescere ancora in modo significativo, senza affrontare in modo non elusivo il nodo della razionalizzazione delle forze di polizia. La quota di PIL che l’Italia globalmente destina alla ricerca è scandalosamente bassa. Ma non lo è la quota di spesa pubblica, che sconta invece gravi inefficienze nell’organizzazione degli enti pubblici di ricerca. Difficile farla crescere, la quota di spesa pubblica, senza procedere ad una coraggiosa riorganizzazione di enti e strutture e ancor più procedure e mentalità, come ha indicato di voler fare il Ministro Mussi.
Spendiamo meno di quanto accada negli altri paesi europei per l’infanzia, per la famiglia, per la non-autosufficienza. Mentre spendiamo di più per la previdenza. E abbiamo bisogno di creare un sistema moderno di ammortizzatori sociali che consenta di passare dalla tutela del posto di lavoro a quella del lavoratore sul mercato. Tutti obiettivi che richiedono una diversa allocazione delle risorse.
Così come non c’è settore del comparto produttivo che non possa e non debba ragionare in termini di liberalizzazione, modernizzazione, efficientizzazione: dall’industria al credito, dalle professioni al commercio, dai trasporti all’energia. E anche qui si tratta di capire se il sistema paese intende affrontare la sfida della competitività, o preferisce la china decadente della difesa ciascuno della propria insostenibile rendita di posizione.
E’ su questi cardini che deve ruotare la cosiddetta "fase 2".
Al di là di questa definizione giornalistica, quel che a noi preme è che, approvata la Finanziaria, si vari subito un’"Agenda di riforme" che incida sulle fragilità strutturali del Paese e consenta di dare alle stesse misure della Finanziaria quella efficacia e produttività necessarie a realizzare gli obiettivi di crescita che il Governo si è proposto.
Per questo pensiamo che fin dalle prime settimane del 2007 si debbano istituire tavoli di confronto con le parti sociali per affrontare cinque grandi priorità: le pensioni e la sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale; il mercato del lavoro e il sistema degli ammortizzatori sociali; l’efficienza e la produttività delle pubbliche amministrazioni; le liberalizzazioni e le misure per la competitività; il federalismo fiscale.
E intorno a questa priorità promuovere un "patto per la produttività, la crescita e il lavoro". Per realizzare questi obiettivi, la politica deve introdurre un elemento di innovazione e discontinuità, introiettando come parametro dei propri comportamenti la celebre esortazione kennediana: "Non chiedetevi cosa il Paese può fare per voi, ma cosa voi potete fare per il Paese".
Ridare slancio al Paese, creare condizioni di crescita e efficienza in ogni settore, offrire a ciascuno l’opportunità di scommettere sul proprio talento, sulla propria voglia di fare. In una parola dare il senso di una sfida comune. Così possiamo restituire ad una società frammentata il senso di un’appartenenza, di un comune destino, di un essere Nazione.
Tutto questo però, non si realizza senza una forte e convinta "condivisione" della società.
Ed è esattamente questa la criticità emersa nella Finanziaria.
Forse non abbiamo riflettuto a sufficienza su quali e quanti guasti abbia prodotto la ideologia deregolativa della destra, la cui esaltazione degli interessi particolari e corporativi ha finito per offuscare e smarrire il valore degli interessi generali. E paradossalmente anche la dialettica tra riformisti e radicali – in sé del tutto fisiologica in una coalizione plurale di centrosinistra – ha finito per assecondare una tendenza alla frammentazione degli interessi e delle domande, indebolendo la credibilità di un progetto capace di tenere unito il Paese.
Insomma, quel che pesa nell’azione del governo e della maggioranza non è tanto un deficit di comunicazione – che pure c’è stato e c’è – ma la difficoltà di promuovere e realizzare una "condivisione" fondata su un riconoscimento del ruolo della società e dei suoi soggetti.
C’è un filo che lega la manifestazione degli artigiani di Venezia, il malessere degli operai di Mirafiori, la protesta dei ricercatori dell’Università. E questo filo è un sentimento di non riconoscimento che ciascuno di quei soggetti ha vissuto.
Per artigiani, commercianti, piccoli imprenditori è il mancato riconoscimento della fatica quotidiana di investire, gestire un’azienda, competere con concorrenti terribili (la Cina), districarsi nei meandri di una burocrazia sorda e ostile.
Per il mondo dell’Università è il mancato riconoscimento di chi dopo anni di studio, di attività didattica, di ricerca continua a vivere nella precarietà di un lavoro mai stabile, di una remunerazione spesso umiliante, di una carriera mai compiuta.
Per gli operai di Mirafiori è il disagio di una vita quotidiana segnata da fatica fisica – la catena di montaggio esiste ancora per molti – scarsa retribuzione, incertezza occupazionale, a cui si aggiunge la frustrazione di vedere il proprio lavoro manuale non riconosciuto e sospinto al fondo della gerarchia sociale.
Si aggiunga che temi politicamente significativi – come la sostenibilità delle pensioni e il funzionamento del pubblico impiego – da troppi anni vengono evocati in termini puramente punitivi, senza che mai si renda chiaro ai destinatari perché e come si vogliono realizzare riforme incisive.
Quando un disagio si manifesta, una classe dirigente non gira le spalle, né rivolge lo sguardo altrove.
Per questo ho ritenuto che fosse dovere del Segretario del principale partito della coalizione di governo intraprendere – in queste settimane al Nord, a gennaio al Sud – un viaggio nei luoghi simbolici dell’Italia che lavora e produce.
Per andare ad ascoltare, capire, ragionare e discutere.
E soprattutto per dare riconoscimento a persone, ceti, soggetti, mondi che non si sentono riconosciuti e rappresentati da un sistema politico e istituzionale che vivono come distante, sordo e ostile.
Insomma serve anche qui un’innovazione di metodo di lavoro, di stile politico, che è anche discontinuità di messaggio al Paese.
Gli italiani devono essere aiutati a non avere paura del cambiamento. E solo una politica che non ne abbia paura può farlo. Ma lo può fare soprattutto una politica capace di ascoltare la società, di riconoscerne meriti e valori, di non deludere a domande e aspettative. Una politica che si guardi dal rischio di un riformismo dall’alto e senza popolo e, invece, sappia ricostruire con i cittadini un rapporto di fiducia e di condivisione.
In questo modo dobbiamo dare agli italiani la precisa sensazione che abbiamo raccolto il messaggio critico venuto in queste settimane e lo abbiamo tradotto in un impegno rinnovato per il cambiamento del Paese.
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Le difficoltà ci parlano, insomma, di una crescente estraneità dei cittadini alla vita politico-istituzionale.
E come potrebbe non essere così di fronte ad un Parlamento in cui seggono rappresentanti di 21 partiti, ulteriormente frammentati in correnti e sottocorrenti che enfatizzano ancor di più la frammentazione di ceto e territorio?
Come potrebbe non essere così di fronte ad una politica che troppo spesso si manifesta non già impegnata a scegliere, a costruire, a fare, apparendo invece spesso dispersa nel chiacchiericcio inconcludente, nell’esternazione estemporanea, nella quotidiana ricerca di una piccola visibilità fine a se stessa?
Non può davvero essere sottovalutato il solco che si va allargando tra politica e società: una distanza che se non colmata con una forte iniziativa democratica rischia di divenire facile terreno per derive qualunquiste, plebiscitarie, antipolitiche.
Peraltro è già stato così dieci anni fa, quando Berlusconi e il suo leaderismo populistico riempirono il vuoto apertosi con la crisi profonda delle istituzioni e dei partiti della prima repubblica.
Non si pensi che quel rischio sia ormai alle nostre spalle per il solo fatto che Berlusconi ha deluso e ha perso le elezioni.
Proprio quel che è accaduto in Italia in queste settimane – e anche altrove, come in Olanda dove hanno prevalso le forze populistiche di destra e di sinistra – ci dice che occorre una forte e immediata iniziativa per restituire ai cittadini una politica in cui possano riconoscersi e avere fiducia.
La transizione istituzionale da troppo tempo irrisolta; il ritorno alle logiche proporzionali indotto dalla nuova legge elettorale; la divisione che si è prodotta nel centrodestra con l’UDC che punta apertamente a un nuovo sistema elettorale e politico: tutto ciò sollecita ancor di più una riorganizzazione profonda del sistema politico e istituzionale, un federalismo compiuto, una riforma della politica che la renda trasparente e vicina ai cittadini, una democrazia che funzioni, un bipolarismo mite.
Il Paese ha bisogno di stabilizzare definitivamente un sistema che ponga al centro la competizione tra credibili alternative di governo, un sistema che consenta a chi vince di governare, potendo contare sull’accumulazione di energia coesiva necessaria ad intervenire in modo incisivo sui tanti nodi che paralizzano l’Italia.
Per questo, dopo che gli italiani hanno respinto con il referendum lo strappo costituzionale della destra, dobbiamo rilanciare il confronto sulle riforme istituzionali ed elettorali.
Questa esigenza oggi si è fatta urgente, su tre versanti: la forma di Stato, con i necessari aggiornamenti alla riforma del Titolo V e la realizzazione del federalismo fiscale; il bicameralismo, con l’improrogabile necessità di riforma del Senato; il rafforzamento, in un quadro di garanzie e contrappesi, dei poteri del premier. Le commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato hanno concordato un programma di lavoro che dovrebbe portare entro marzo a proposte legislative, mentre il ministro Chiti ha avviato una ricognizione degli orientamenti di tutte le forze politiche. Siamo, dunque, pronti a discuterne in Parlamento, per costruire un percorso di riforme che possa raccogliere il consenso di un largo schieramento parlamentare, ben oltre la maggioranza di governo.
Allo stesso modo chiediamo con forza e determinazione la modifica della legge elettorale che tutti – anche le destre – riconoscono ormai essere un ostacolo al corretto funzionamento di una moderna democrazia, come dimostra anche l’adesione di molti autorevolissimi esponenti dell’opposizione, che nella scorsa legislatura votarono la riforma Calderoli, all’iniziativa referendaria di abrogazione parziale di quella stessa legge.
Per noi, il sistema ottimale per l’Italia resta il collegio uninominale a doppio turno. Disponibili, senza pregiudizi, a discutere anche soluzioni diverse, purché rafforzino il bipolarismo e la coesione delle coalizioni e recuperino il necessario radicamento territoriale degli eletti.
Se così non dovesse essere, c’è il referendum: e lì decideranno i cittadini.
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Rilanciare l’azione di governo con incisive riforme economiche e sociali e avviare il confronto sulle riforme costituzionali ed elettorali sono due condizioni necessarie per affrontare il "problema italiano". Ma sappiamo bene che non sono sufficienti.
Alfredo Reichlin ci sollecita continuamente a non limitarci ad una lettura riduttivamente economicistica.
Dietro l’affanno economico, dietro il disagio sociale, c’è qualcosa di più profondo e più serio, che ha a che fare con la stessa identità storico-civile del nostro Paese. Del resto, le stesse difficoltà economiche dinanzi alle quali si trova l’Italia, proprio per il loro carattere strutturale non possono avere una soluzione solo economica.
Dopo cinque anni di destra l’Italia è, infatti, un paese a rischio: perché il suo sistema produttivo è in affanno; perché certezze di vita, di lavoro, di reddito sono divenute precarie per molti, in particolare i giovani, le donne e le persone sole; perché cresce la difficoltà a tenere unito un Paese, che non solo continua a vivere un’irrisolta questione meridionale, ma scopre di avere nella pancia anche una questione settentrionale; perché il sistema politico e istituzionale è venuto riducendo ulteriormente la capacità di rappresentare la società italiana e di affermare il primato degli interessi generali.
E tutto questo ha sollecitato frammentazioni corporative di ceto e di territorio, ha acuito il senso di estraneità dei cittadini alla vita politica e istituzionale, e soprattutto ha indebolito i fattori di coesione indispensabili perché una comunità si senta nazione.
Nonostante ciò l’Italia è un "grande paese", ricco di risorse, professionalità, competenze, lavoro, tecnologie, capitali. Ancora in queste settimane il Rapporto CENSIS ci parla di una ripresa economica fondata su creatività, innovazione, apertura ai mercati, nuove managerialità.
Ma, appunto, questo rende ancor più urgente una guida politica, forte, autorevole, riconosciuta, in grado di rivolgersi al Paese con credibilità.
Serve la messa in campo di nuove energie coesive che spingano la politica, la classe dirigente nel suo insieme e in definitiva la società italiana tutta, a trovare il senso, la passione, la determinazione a perseguire l’interesse generale. E a comprendere lo stesso interesse generale non come mortificazione ed appiattimento mediocre, ma come valorizzazione del talento e del merito, visti come prezioso bene collettivo: tutto questo non può essere frutto di una politica economica, ma ne è semmai il presupposto.
Il "problema italiano" è ancora, per dirla con Gramsci, quello di una "riforma intellettuale e morale", potremmo dire di una "autoriforma civile", che dia al Paese la spinta necessaria a non tornare "espressione geografica", ma a ritrovarsi come Nazione tra le nazioni d’Europa.
Una riforma morale e politica che ripensi l’Italia, riformi le sue istituzioni e la sua costituzione materiale, ricollochi il Paese nei nuovi orizzonti dell’integrazione europea e della globalizzazione, plasmi una nuova identità nazionale costruendo coesione sociale, spiriti civico e senso di appartenenza.
Ci sono momenti in cui una nazione è chiamata a ripensare sé stessa, il suo destino, quel che vuole essere.
Penso al New deal con cui Roosevelt restituì forza, dignità e coesione ad un’America sprofondata nella depressione del ’29.
Penso al modo in cui una Germania devastata materialmente e travolta moralmente dalla follia hitleriana seppe ricostruirsi come nazione libera e democratica. Penso a come la Francia, che nella decolonizzazione visse il collasso della sua identità imperiale e del suo assetto istituzionale, seppe uscire dalla crisi della Quarta Repubblica.
Penso a Felipe Gonzales che guida la Spagna fuori dalla notte del franchismo nella democrazia e ne ridisegna il profilo di nazione giovane e moderna.
In ciascuna di quelle vicende decisiva è stata la funzione nazionale assolta da una grande forza politica – talora moderata, talora progressista – capace di proporre una visione, indicare delle sfide, offrire una prospettiva e un progetto in cui ciascun cittadino potesse identificarsi e proiettare la vita propria e dei propri figli.
Ecco: oggi l’Italia è di fronte ad un passaggio non meno alto e impegnativo.
E serve una forza politica che abbia l’ambizione e la forza ideale e morale di assolvere ad una funzione nazionale di guida.
La destra non è in grado di farlo perchè ha dimostrato in questi anni di non avere la visione ideale, il progetto culturale e politico, la classe dirigente necessaria. Tocca oggi alla sinistra, al riformismo, alle forze di progresso restituire all’Italia identità, vocazione, senso di sé e del suo futuro.
Questo è l’orizzonte ideale, questa la missione storica che assegniamo al "Partito nuovo" che vogliamo costruire, il Partito democratico dell’Ulivo: un nuovo soggetto politico, capace di guidare l’Italia in un passaggio storico della vita nazionale. Davvero si banalizza la sfida che sta di fronte a noi se si guarda al progetto del Partito Democratico, unicamente come ad un’opera di semplificazione del sistema politico.
C’è anche questo obiettivo naturalmente. Ma di ben altro spessore storico-politico e di ben altra densità culturale sono le ragioni che ci portano a misurarci con il progetto della trasformazione dell’Ulivo nel Partito Democratico.
Così come sarebbe riduttivo pensare di costruire un partito nuovo su misura di questo o quel leader.
Semmai, la nostra ambizione, come generazione che si è trovata in questo tormentato passaggio di secolo e di millennio alla guida di grandi e difficili processi di rinnovamento e perfino di rivolgimento politico, è di lasciare alle generazioni nuove, a quelle che avanzano dietro di noi, non solo i detriti di una transizione inconclusa, ma anche le fondamenta almeno, le colonne portanti, di una costruzione nuova.
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La condizione di riuscita di questa nostra impresa è un vero incontro di culture riformatrici: un incontro che proprio per essere vero deve pensarsi al futuro e non al passato.
E il futuro – ma per molti aspetti già oggi il presente – ci interroga con sfide nuove, dinanzi ai mutamenti intervenuti nell’ultimo quindicennio nella società italiana, che hanno radicalmente modificato tutte le principali variabili intorno a cui la sinistra e le forze di progresso hanno costruito le loro identità e le loro esperienze.
Il passaggio dal fordismo al ciclo di produzione informatico ha mutato il lavoro, nella sua quantità, qualità, distribuzione e nella sua stessa percezione valoriale.
Lo sviluppo produttivo è chiamato a fare sempre di più i conti con la "sostenibilità" ambientale, energetica, sociale.
Globalizzazione, interdipendenza dei mercati, integrazione europea hanno messo in causa lo Stato nazione e le sue capacità regolative e redistributive.
I mutamenti demografici rimodellano profilo e volto del nostro Paese, facendo emergere nuove criticità – l’infanzia, i giovani, la terza età – e mettendo la società italiana di fronte ai dilemmi e alle inquietudini della multietnicità.
Pulsioni populistiche, leaderistiche, separatiste ci parlano di una crisi della democrazia rappresentativa che sollecita a ripensare istituzioni, forme della democrazia e loro rapporto con i cittadini.
Insomma, sono i tratti intorno a cui si è costruita l’esperienza della sinistra e del riformismo nel Novecento ad essere messi in discussione.
Per questo abbiamo bisogno di un "pensiero nuovo", capace di leggere e di raccogliere le sfide di un secolo nuovo.
Un pensiero nuovo non è solo l’assemblaggio di pensieri vecchi: non basta, anzi non serve, semplicemente giustapporre le diverse tradizioni del riformismo italiano. Se dobbiamo far incontrare quelle radici, è perché insieme dobbiamo mettere in campo nuove idee e nuove esperienze, nuovi alfabeti e nuovi paradigmi.
Nasce da qui la spinta all’incontro tra i riformismi.
Quando ci si pensa autosufficienti ci si divide, quando si avverte con sofferenza il proprio limite, si cerca in altri il proprio completamento. Avviene nella vita e anche nella politica.
Peraltro stanno alle nostre spalle le due ragioni principali su cui si è fondata, lungo più di un secolo, la divisione e la competizione tra le culture riformiste e i partiti che le rappresentavano.
Sì perché divisioni che hanno segnato la vicenda dei riformismi italiani nel ‘900 affondavano le loro radici in letture diverse della società che conducevano a proposte politiche alternative. E, per di più, nel secolo delle ideologie totalizzanti, le appartenenze di campo rendevano ancor più rigide e aspre le competizioni.
Ma oggi il muro di Berlino non c’è più. E l’enorme sommovimento politico prodotto dalla sua caduta, ha condotto le culture riformiste italiane e i suoi partiti a trasformarsi e a ritrovarsi unite nell’Ulivo e lì a elaborare una comune lettura della società italiana e un comune progetto politico per l’Italia.
Ed è proprio in virtù dell’esperienza dell’Ulivo che possiamo puntare a unire oggi quel che la storia ieri ha diviso.
Ci sono, dunque, ragioni forti e valori condivisi che consentono di credere nel progetto del Partito Democratico.
Insomma: serve un riformismo capace di far incontrare i valori della sinistra – pace, democrazia, libertà, solidarietà, uguaglianza – con l’alfabeto del nuovo secolo.
Il multilateralismo per una governance della globalizzazione che affermi diritti dell’uomo, democrazia, liberazione da ogni forma di oppressione.
L’integrazione europea per un Europa che sia il luogo e lo spazio in cui costruire il futuro dell’Italia.
Il sapere e la conoscenza per offrire ad ogni persona più opportunità, scommettendo sul talento, sul merito, sulla capacità.
Il lavoro che, tanto più nelle forme flessibile e mobili di oggi,ha bisogno di essere riconosciuto, valorizzato e restituito alla sua manifestazione di creatività, ingegno e sapere umano.
La sostenibilità, per perseguire uno sviluppo per l’uomo e rispettoso della natura. E ancora: la laicità come eguaglianza dei diritti e certezza per ogni persona di praticare le proprie scelte di vita nella responsabilità e come valore che deve ispirare la ricerca di soluzioni condivise a inquietudini e domande su cui si interrogano credenti e non credenti.
Le pari opportunità per promuovere l’accesso al sapere, al lavoro, alle istituzioni, alla politica per ogni donna italiana.
La multiculturalità per realizzare integrazione, riconoscimento, relazione tra diritti e doveri.
Sono i grandi valori intorno a cui possono incontrarsi il riformismo socialista, l’umanesimo cristiano, il progressismo liberaldemocratico, le nuove culture dell’ambientalismo e della parità di genere. Valori che devono, a maggior ragione, connotare un partito che voglia rappresentare la pluralità di riformismi.
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Naturalmente il dibattito di questi mesi ci dice che ci sono con la Margherita e con gli altri interlocutori del Partito nuovo, questioni aperte. Discutiamone apertamente, perché potremo superare le nostre diversità di partenza se apriamo un confronto diretto e ravvicinato, sforzandoci insieme di guardare al futuro e non al passato.
Una prima questione aperta è la collocazione internazionale del Partito Democratico. Un partito deve pensarsi in un orizzonte non solo nazionale, ma mondiale ed europeo e collocarsi entro un sistema di relazioni che gli consenta di svolgere un ruolo sulla scena internazionale e incidere nelle scelte che lì si operano.
Ora, la storia del nostro continente ci consegna uno scenario politico nel quale i partiti socialisti e socialdemocratici costituiscono di gran lunga la famiglia riformista europea più grande. E chi abbia l’ambizione – come il Partito Democratico – di concorrere a rinnovare il riformismo europeo e unirlo, non può in ogni caso prescindere da quella famiglia.
In questo sta il valore del Congresso del PSE di Porto, dal quale è venuto un sostegno esplicito e convinto al progetto del Partito Democratico, considerato una sfida storica per l’Italia, ma anche una scelta che può cambiare la politica europea e i suoi assetti. E un contributo a rinnovare e unire il riformismo europeo.
A Porto non si doveva decidere la collocazione europea e internazionale del futuro Partito Democratico. Una scelta che si deve discutere in Italia.
Ma proprio per questa discussione e per le decisioni da assumere, non è irrilevante sapere che la più grande famiglia riformista europea guarda al nostro progetto con simpatia e favore ed è disposta ad accompagnarne il successo aprendo le porte del PSE al Partito Democratico.
Nelle parole calorose di Rasmussen, così come nel sostegno esplicito manifestato in questi mesi, e ancora a Porto, da tutti i principali dirigenti socialisti europei c’è la consapevolezza di dover perseguire con determinazione una coraggiosa innovazione delle loro esperienze, aprendosi al confronto e all’incontro con altre culture riformiste del continente.
E in questa chiave appare chiaro quanto la modifica statutaria – con cui il PSE allarga suoi orizzonti a partiti "progressisti e democratici" – non sia una scelta burocratica, ma di forte valore politico. E francamente appare curioso che chi in Italia e anche nel nostro partito invoca la centralità del socialismo europeo – magari per contestare la scelta del Partito Democratico – non abbia ritenuto di riconoscere il valore di quella innovazione.
D’altra parte è noto come i partiti socialisti e socialdemocratici di oggi non siano più da tempo i partiti della II Internazionale, ma abbiano maturato via via una evoluzione politica e culturale che ha fatto loro assumere il profilo di grandi forze di centrosinistra, dentro cui si ritrovano le molte sensibilità che si ritrovano in Italia nell’Ulivo.
Tony Blair ha rifondato il laburismo inglese aprendolo all’incontro con il socialismo liberale; Gonzales ieri e Zapatero oggi sono i leader di un socialismo spagnolo che ha assunto i valori della modernità; le socialdemocrazie scandinave hanno ripensato il loro welfare per realizzare equità e progresso nella società flessibile; Segolene Royal è l’espressione di un socialismo francese che va oltre la sua storica cultura colbertista e che Mitterrand rifondò a Epinay unificando socialisti, radicali, repubblicani e cristiano sociali; i socialisti portoghesi hanno promosso "Nuove Frontiere" un rassemblement che si ispira all’Ulivo. E i socialdemocratici austriaci hanno costituito il gruppo parlamentare insieme a personalità liberali elette nelle loro liste.
E anche sul piano mondiale l’Internazionale Socialista è da tempo un’organizzazione aperta e plurale che, accanto a partiti socialisti e socialdemocratici, vede un’ampia presenza di partiti progressisti e democratici di diversa ispirazione. E sia il PSE, sia l’IS intrattengono da tempo con il Partito Democratico americano un rapporto strutturato di collaborazione in via di costante intensificazione, come dimostra la presenza di Howard Dean a Porto.
Sappiamo bene che questa nostra impostazione non registra ancora una condivisione dei nostri amici della Margherita.
Noi non chiediamo a chi viene da un’altra storia di riconoscersi nella socialdemocrazia. Chiediamo di essere partecipi di un comune impegno con la famiglia socialista per aprire una stagione nuova del riformismo anche in Europa. Discutiamone, ma senza pregiudizi e soprattutto sulla base di un approccio politico, e non ideologico.
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Una seconda questione aperta è quella della laicità o, detto in modo più articolato, del rapporto tra le diverse visioni etico-religiose e la laicità delle istituzioni, dinanzi all’emergere di nuove questioni antropologiche.
Sappiamo tutti che su temi etici e civili è cresciuta nella società una sensibilità molto più attenta. Più attenta a che ogni persona possa praticare liberamente le proprie scelte di vita. Ma anche più attenta a che la libertà non sia mai disgiunta dalla responsabilità.
E noi a questa duplice sensibilità abbiamo il dovere di dare risposta.
Dobbiamo scegliere quale metodo adottare: possiamo rispondere in termini identitari, facendo anche di drammatici e inediti dilemmi – quali la dura sofferenza di Piergiorgio Welby – l’ennesima occasione per dividerci in modo ideologico.
Oppure possiamo – e a mio modo di vedere dobbiamo – trovare il coraggio di ascoltare e comprendere le ragioni dei diversi approcci e ricercare, insieme, soluzioni condivise. E’ con questo impianto che la maggioranza di centrosinistra intende giungere al riconoscimento dei diritti di coloro – eterosessuali e omosessuali – che vivono in una convivenza di fatto.
E’ una scelta giusta: perché è una legge giusta, civile e di buon senso. Perché riconosce diritti a chi non ne ha. Perché è uno strumento che consolida e rafforza legami affettivi e personali di un rapporto di convivenza. Perché anche in una coppia di fatto c’è sempre un partner esposto a maggiore debolezza che deve essere tutelato. Tutte buone ragioni per introdurre anche in Italia ciò che in altri paesi europei c’è da tempo.
Ed è, dunque, infondato l’allarme paventato dall’Osservatore Romano di uno "sradicamento della famiglia", non solo perché non vi è alcuna equiparazione giuridica tra famiglie e coppie di fatto, ma perché una equilibrata normativa sulle convivenze rafforza e non indebolisce i vincoli di solidarietà, responsabilità e affettività tra conviventi, contribuendo così anche ad una più forte e responsabile coesione sociale. Cosi come appare necessario dare soluzioni normative adeguate a temi non meno cruciali quali il testamento biologico, l’accanimento terapeutico, la modifica della Fini-Giovanardi sulle tossicodipendenze, la ricerca sulle cellule staminali. E, non da oggi, penso che sarebbe una buona cosa se maggioranza e opposizione, insieme, decidessero di migliorare la legge sulla fecondazione assistita, almeno nei suoi punti più critici.
Non vi è, dunque, in noi alcun dubbio sulla necessità di un rinnovato impegno riformatore sui temi etici. Così come non vi è alcun dubbio sulle necessità di affermare la laica sovranità dello Stato e delle sue istituzioni.
Ma proprio la delicatezza e la complessità di temi che investono la vita e la morte, il destino della specie umana, la generazione degli individui, la sessualità, la famiglia, il rapporto tra scienza e natura, impongono la via del confronto, del dialogo ravvicinato, della mediazione alta come le sole strade per produrre soluzioni mature e condivise.
Questo atteggiamento peraltro è stato richiamato con molta forza a conclusione della sua visita ufficiale al Papa dal Presidente Napolitano, laddove ha invitato all’ascolto, alla comprensione delle reciproche ragioni, alla ricerca del bene comune. Insomma: se è pienamente diritto di una maggioranza legiferare anche in queste materie – e lo rivendichiamo anche per il centrosinistra – appare comunque opportuno perseguire, fino a che è possibile, la ricerca della massima condivisione.
La laicità non è infatti un’ideologia, una visione compattamente alternativa ad una visione religiosa concepita come altrettanto chiusa e compatta.
Né la laicità è il rifugio in una presunta e illusoria neutralità, in uno spazio asettico ove si pretende si possa decidere senza fare i conti col pluralismo etico e religioso.
La laicità è riconoscimento di piena cittadinanza – dunque rilevanza pubblica, non solo privata – per le diverse visioni etiche e culturali.
Ma la laicità, da parte sua, esige che ognuna di queste visioni accetti che l’assunzione di una decisione collettiva, tanto più se di valore normativo e generale, sia ispirata al criterio della ricerca della soluzione più adeguata e rispettosa delle diverse sensibilità e non a quella della mera affermazione di un’identità.
Anzi, la laicità dello Stato e delle sue leggi consiste non già nel negare alla pluralità di approcci culturali, etici o religiosi di manifestarsi, ma nella capacità di perseguire soluzioni ispirate al rispetto delle scelte di vita di ogni singola persona, all’universalità e uguaglianza dei diritti, alla liberazione delle donne da ogni forma di oppressione o negazione del loro genere, alla possibilità di esercitare la libertà nella responsabilità.
Una laicità così intesa non solo non ha nulla da temere da un partito nuovo, grande e plurale, ma ha tutto da sperare.
Perché solo un partito grande e plurale può superare la logica della contrapposizione di identità separate.
Perché solo un partito grande e plurale può quindi produrre soluzioni adeguate ai problemi nuovi e agli inediti dilemmi etici che il nostro tempo ci propone.
E perché solo un partito grande e plurale può difendere la laicità della ricerca di soluzioni adeguate e condivise, dalla pressione dei fondamentalismi, degli integralismi, dei clericalismi di tutte le osservanze.
Solo un partito grande e plurale può dimostrare coi fatti che affrontare le questioni eticamente controverse, guardando in avanti insieme e non dividendosi sulle prospettive di partenza, è possibile e fecondo di soluzioni buone per il Paese.
Non si tratta dunque di sacrificare le ragioni della laicità sull’altare del Partito democratico. Tutt’al contrario, sono proprio le ragioni della laicità che ci chiedono di dare alla democrazia italiana un partito grande e plurale, di laici e di cattolici, di credenti e non credenti, capace di affrontare senza pigrizie le grandi questioni antropologiche del nostro tempo.
Peraltro non può essere elusa la consapevolezza di quanto decisivo e strategico sia nella storia dell’Italia e per il futuro del Paese il mondo cattolico e di come nessuna reale alternativa democratica e di progresso sia praticabile se il mondo cattolico volge il suo sguardo a destra.
E, anzi, l’Ulivo e il Partito Democratico sorgono proprio con l’obiettivo di superare antichi steccati, facendo rincontrare laici e cattolici, credenti e non credenti in un comune progetto politico e culturale di rinnovamento e crescita della società italiana.
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Il Partito Democratico dell’Ulivo sarà il Partito nuovo del quale il Paese ha bisogno se saprà dar vita anche ad una forma nuova di partecipazione democratica, di attivazione delle tante energie disperse e talvolta sfiduciate, delle quali l’Italia è ricca.
L’Italia non ce la farà a riprendere la via dello sviluppo e del progresso senza una nuova stagione di mobilitazione civile nella politica. Anche per questo, il Partito nuovo non può limitarsi a essere una federazione di partiti esistenti, che restano come sono. E neppure la semplice fusione, inevitabilmente fredda, di due apparati.
Unire i riformismi significa agire su due fronti: l’unità delle forze politiche riformiste e il coinvolgimento in tale progetto di una vasta opinione pubblica più larga di quel che oggi i soli partiti rappresentano.
L’unità delle forze politiche riformiste ha certamente il suo perno nell’intesa DS-Margherita, ma non si esaurisce in essa. Le forze politiche che esprimono culture socialiste, repubblicane, liberaldemocratiche, cristiano sociali, ecologiste sono altrettanto necessarie se davvero si vuole realizzare l’unità dei riformismi del nostro Paese.
In particolare noi pensiamo che del progetto del Partito Democratico debba esser pienamente partecipe chi ha espresso ed esprime una cultura riformista socialista: lo SDI – che è stato tra i fondatori della Federazione dell’Ulivo – e anche il vasto associazionismo politico di ispirazione socialista.
Non vi è contraddizione tra riaffermare con forza i valori – in cui anche i DS si riconoscono – del riformismo socialdemocratico e del socialismo liberale e farli incontrare con altre culture riformiste nel Partito Democratico.
Anzi, il Partito Democratico è lo spazio nel quale si può finalmente realizzare il progetto di una vasta unità socialista che riunisca tutte le forze che si richiamano ai valori del socialismo europeo per rafforzare così la più ampia unità di tutti i riformisti.
Al tempo stesso, il Partito Democratico vuole essere un progetto capace di guardare oltre i partiti, per parlare ad una vasta moltitudine di giovani, di donne, di lavoratori, di cittadini, molti dei quali si riconoscono nell’Ulivo, senza necessariamente riconoscersi nei suoi partiti.
Di grande valore è l’appello lanciato proprio in questi giorni da un ampio numero di personalità del mondo ambientalista, che indica quante energie intellettuali, culturali, politiche possono essere mobilitate per un progetto di innovazione politica. Né può essere mai dimenticato l’enorme patrimonio di energie rappresentato dai 4 milioni di cittadini che parteciparono alle primarie.
Così come cresce la sollecitazione che viene dai giovani, dal mondo delle donne, dall’universo associativo per un processo politico non rinchiuso nei recinti dei soli partiti.
Le stesse ampie e spesso impazienti aspettative che in tanti cittadini ha suscitato e suscita il progetto del Partito Democratico, ci dicono quanto grande sia la domanda di una politica nuova.
A tutto questo è tempo di offrire un percorso di pieno coinvolgimento nella costruzione del Partito Democratico.
Per noi DS è un punto dirimente che questa più ampia convergenza di forze politiche, culturali, sociali si possa manifestare fin dalle prossime settimane e per questo chiediamo a Romano Prodi, nella sua qualità di leader dell’Ulivo, di promuovere da subito sedi e appuntamenti per dare al processo di costruzione del Partito Democratico questa configurazione aperta.
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Avvertiamo tutti quanto sia necessario un profondo rinnovamento della politica, dei partiti, delle istituzioni, per superare la lontananza e il senso di estraneità di una parte dei cittadini.
Il Partito Democratico può e deve essere l’opportunità di un "partito nuovo" anche in questo: come rinnovamento della politica.
Questo tema – ampiamente discusso a Orvieto – è spesso rappresentato con una contrapposizione tra partiti e società civile. O meglio: si tende ad accreditare la tesi per cui soltanto con partiti "leggeri" e privi di strutture si possa realizzare partecipazione attiva.
E’ un dilemma falso.
Non vi è alcun dubbio che oggi la politica abbia bisogno di aprirsi e di adottare strumenti di larga partecipazione democratica: primarie per scegliere premiership e candidati nelle istituzioni; referendum per consultare periodicamente i cittadini su questioni di grande rilevanza; assisi annuali programmatiche aperte a saperi e competenze della società; voto segreto per l’elezione dei dirigenti; termine di mandato per favorire ricambio generazionale.
Ma tutto ciò può essere realizzato se c’è un’organizzazione forte, capace, radicata, in grado di attivare, organizzare, far vivere quegli strumenti.
E, dunque, se il Partito Democratico vorrà essere capace di rappresentare domande e aspettative di una società complessa e di promuovere la più ampia partecipazione dei cittadini, dovrà essere un "partito": con centinaia di migliaia di aderenti; presente in tutti gli 8000 Comuni italiani; con un’attività che non si limiti alle sole campagne elettorali; capace di riconoscere il protagonismo delle donne; con una capacità di selezione e formazione di nuove leve di dirigenti e amministratori; con gruppi dirigenti riconosciuti e forte valorizzazione delle figure istituzionali, nazionali e locali.
Insomma: se in qualcuno alberga il timore che si voglia dare vita ad un partito "leggero", privo di radici, più simile ad un movimento di opinione o ad una somma di comitati elettorali, sappia che questa non è l’intenzione nostra.
Il tema non è, dunque, contrapporre i partiti alla partecipazione, ma fare del Partito Democratico l’occasione di una straordinaria innovazione della politica e della forma partito, nella direzione di un partito forte, radicato e organizzato capace di apertura, osmosi, partecipazione democratica.
Il tema sul quale dobbiamo confrontarci è semmai cosa voglia dire, nel Ventunesimo secolo, un partito forte, radicato e organizzato, consapevoli che quei partiti di massa, strutturati, centralizzati, dotati di un forte collateralismo sociale, erano anch’essi figli del ‘900 e della sua organizzazione produttiva e sociale fordista. Mentre oggi un moderno e forte partito lo dobbiamo pensare nella modernità liquida, nel tempo reale, nella società flessibile.
E’ un tema che molti partiti socialisti europei stanno già ponendosi, sperimentando forme di partito nuove e flessibili.
Un partito che nei momenti fondamentali della sua vita interna assume decisioni coinvolgendo una platea molto vasta di aderenti, sul modello delle nostre primarie per Prodi, e sulla base del principio "una testa, un voto"
. E poi, nella quotidianità, un partito capace di federare mille realtà parziali, sulla base di una cultura pluralista, figlia della società della rete, un vasto "rassemblement" di organizzazioni territoriali, movimenti tematici, associazioni di ambiente, di genere, di orientamento politico, di ispirazione culturale.
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Proprio questo approccio ci consente di affrontare anche un altro nodo del progetto: le modalità del processo costituente.
Il Partito Democratico nasce per un atto di volontà di partiti e movimenti politici e associativi che decidono di costituire, insieme, un nuovo soggetto politico. Il che comporta una transizione caratterizzata da gradualità e processualità a cui le organizzazioni fondatrici concorrano con la loro organizzazione, le loro politiche e i loro gruppi dirigenti.
In altri termini: l’atto di nascita del nuovo partito non avviene all’inizio del processo costituente, ma ne è l’esito finale. Il che significa che i Congressi dei partiti convocati nel 2007 non decideranno alcun scioglimento, ma saranno chiamati a deliberare di voler essere partecipi del processo costituente del nuovo Partito Democratico.
Così sarà anche per i DS che nel loro 4° Congresso non solo non si scioglieranno, ma approveranno una piattaforma politica con cui c
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2006-1
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