2773 USA: Barack Obama, l'«anti-Hillary» parte da Lincoln

20070212 23:58:00 webmaster

Il solo senatore nero si candida alla Casa bianca. «La cosa da fare subito è andar via dall’Iraq entro il 31 marzo del 2008. La speranza è potere»

di Franco Pantarelli

New York – Si è affidato a un messaggio «polivalente» Barak Obama per annunciare che la sua «esplorazione» è finita e che ha deciso ufficialmente di candidarsi alla Casa bianca. La scelta di Springfield, la capitale dell’Illinois, davanti al cui Capitol ha parlato (affiancato dalla graziosa moglie e dalle due disciplinatissime figlie, come si conviene) contiene infatti vari «simboli». Uno, è la patria di Abramo Lincoln, il presidente che pose fine alla schiavitù (e qui il messaggio è ovvio). Due, Lincoln era anche quello che si trovò a curare le ferite di una nazione drammaticamente divisa dopo la guerra civile che aveva lasciato sul terreno 600mila morti. Gli Stati uniti di oggi non vengono da una guerra civile ma la divisione creata dalla presidenza più faziosa, più estremista e più intollerante nei confronti degli avversari politici che la recente storia americana ricordi, è estremamente palpabile. Tre, è lì, al Capitol di Springfield che lui, Obama, ha cominciato la sua vita politica (come del resto Lincoln) solo dieci anni fa, quando è stato eletto al senato locale. Una carriera folgorante che fa ormai parte delle ragioni del suo successo, dato l’amore degli americani per i winners. Quattro, l’Illinois è anche la patria di Hillary Clinton, che sebbene newyorkese di adozione perché è a New York che ha conquistato il suo seggio senatoriale, è chiaro che al momento di affrontare Obama nelle elezioni primarie non mancherà di puntare sul «sono una di voi».
Di tutti questi simboli – ed è un paradosso – il meno facile da far funzionare, almeno per il momento, è il primo, cioè quello riferito alla schiavitù e diretto chiaramente ai neri. Proprio il candidato che punta a «fare storia» diventando il primo presidente nero, finora ha mancato di entusiasmare quelli con la pelle dello stesso colore. Sarà perché non è un nero americano «vero», nel senso che non discende da uno schiavo (il padre era uno studente venuto dal Kenya); sarà perché non parla quel linguaggio che l’esplosione della musica rap ha codificato come una specie di identità linguistica ma è un fatto che non suscita fra i neri l’entusiasmo – per dire – di un Robert Kennedy. La destra, che in questa fase spara nel mucchio dei (tanti) candidati democratici in attesa di aggiustare la mira sul prescelto ha già provveduto a insistere su questo aspetto ma l’opinione corrente è che questo paradosso è del tutto provvisorio e che è inimmaginabile che il voto nero non finisca per riversarsi su di lui se otterrà la nomination democratica.
Centoquarantanove anni fa, in quello stesso luogo, Lincoln aveva pronunciato una delle sue frasi più famose, che i bambini imparano a scuola: «Una casa divisa contro se stessa non si regge». Obama ha ammonito contro la divisione esistente: «Lavoriamo insieme duramente per trasformare questa nazione. Se restiamo divisi, siamo destinati al fallimento». Poi l’ha buttata sui cambi generazionali grazie ai quali «in ogni tempo questo paese ha trovato la capcità di fare ciò che doveva essere fatto». Gli esempi? «La lotta contro i colonizzatori, contro la schiavitù e contro la grande depressione», e poi «l’apertura agli immigrati, la costruzione delle grandi linee ferroviarie e il viaggio dell’uomo sulla Luna». Ora la sfida è di «riadattare la nostra economia nell’era del digitale, investire massicciamente nell’educazione, proteggere i diritti dei lavoratori, dare finalmente un’assistenza medica a quei tanti che ancora non l’hanno, combattere la povertà con tutti mezzi possibili, affrancare l’America dalla dipendenza dal petrolio estero, combattere il terrorismo ricostruendo le nostre alleanze», una stoccata per Bush, colpevole di aver alienato tante simpatie nel mondo, e una per Hillary Clinton, che all’inizio della presidenza del marito partì con entusiasmo con il progetto di garantire l’assistenza medica a tutti ma non ci riuscì.
E a proposito di Hillary, mentre ieri Obama dava il suo annuncio a Springfield lei stava parlando nel New Hampshire (stato importante perché è da lì che le primarie partiranno). In qualche modo è stato una sorta di confronto a distanza, e mentre Hillary ha dovuto ancora una volta giustificarsi per avere votato in favore della guerra in Iraq, Obama poteva concludere il suo lungo elenco delle cose da fare con la frase: «Ma tutto ciò non può accadere finché non la finiamo con questa guerra in Iraq». E per metterla un po’ più sul concreto ha ricordato la sua proposta di legge per prevenire l’aumento delle truppe voluto da Bush e ha annunciato la presentazione di un piano che prevede il ritiro delle truppe dall’Iraq entro il 31 marzo del 2008.
I maligni dicono che è fortunato perché nel momento in cui il senato di Washington diceva «sì» a Bush lui non c’era ancora e non si è quindi trovato ad affrontare l’enorme pressione che i repubblicani erano in grado di esercitare allora sui democratici, approfittando del trauma provocato dagli attacchi terroristici e tacciando di «antipatriottismo» o addirittura di «connivenza con i terroristi» tutti quelli che storcevano la bocca sull’Iraq.
Nessuno sa, ovviamente, che cosa avrebbe fatto Barak Obama se fosse stato lì. Ma un fatto certo è che nel 2002, cioè prima che la vergogna di quel voto venisse consumata, lui pronunciò un discorso contro l’invasione dell’Iraq che a leggerlo ora sembra una profezia. Saddam Hussein, disse, non costituisce nessun pericolo imminente per gli Stati uniti e l’invasione dell’Iraq comporterà una lunga occupazione con costi e conseguenze che al momento non si possono compiutamente valutare ma saranno terribili. In definitiva, cari elettori americani, «la vita di questo alto, allampanato avvocato di Springfield ci dice che un futuro diverso è possibile. Ci dice che le parole contano, che le convinzioni contano, che nonostante le differenze razziali, regionali, religiose o di opinione noi siamo un popolo. E ci dice anche che la speranza è potere».

www.ilmanifesto.it

 

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EmiNews 2007

 

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