2828 CASO ABU OMAR: Politica, passo indietro

20070220 11:52:00 webmaster

di Gian Giacomo Migone (da l’Unità)

Prima o dopo, qualsiasi governo e con esso coloro che lo sostengono in Parlamento e nel Paese incontrano il loro Rubicone, al di là del quale è garantita non solo e non tanto la sua durata – si può anche durare vivacchiando – ma il segno che determina nelle istituzioni e nella storia della Repubblica. Potrei sbagliarmi, ma sono convinto che quel Rubicone si chiami caso Abu Omar e che riguardi la nostra capacità presente e futura di autogovernarci democraticamente, squarciando veli di reticenza che discreditano la politica da troppi anni.

Come tutti i passaggi, esso sarà – anzi, già è – difficile e doloroso, nell’immediato scarsamente compreso. Tuttavia, si tratta anche di una straordinaria occasione che richiede uno scenario, in questo caso la caduta del Muro, e un soggetto idoneo, questo governo, per coglierlo. Perché deve essere chiaro a tutti che il governo Prodi vi ha compiuto alcuni passi di avvicinamento di straordinaria importanza. Esso è uscito dalla trappola irachena, rifiutando con diplomazia preesistenti accordi. Questo governo ha respinto metodi di condizionamento internazionali come la dichiarazione dei sei ambasciatori, che ricordava la Cina segnata dalle concessioni e dai trattati ineguali, lontani di un secolo. E, sempre riguardo all’Afghanistan, per bocca del suo ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, sempre questo governo ha ricordato ai suoi alleati che gli impegni si assumono in sede di Consiglio Atlantico; che, come in ogni organismo di cooperazione internazionale, cioè privo di delega di sovranità, esige decisioni unanimi. Tutti atti inediti, di grande coraggio, ma che esigono una strategia coerente senza la quale potrebbero risultare controproducenti (perché, come noto, guai a chi resta a metà del guado!).

Perché proprio il caso Abu Omar, come cartina di tornasole, test dirimente, un Rubicone all’incontrario, che non ci separa dalla dittatura ma dal pieno autogoverno? La missione in Afghanistan, compiute le doverose precisazioni di metodo da parte del governo, costituisce una complessa decisione di politica estera che governo e Parlamento possono di volta in volta verificare e liberamente compiere, giustamente insistendo su una conferenza internazionale di cui tutti i governi interessati dovrebbero sentire il bisogno. La base di Vicenza contiene aspetti drammatici soprattutto nei rapporti tra Governo e popolazione interessata, ma assume soprattutto valore nel contesto di una verifica dello statuto di tutte le basi statunitensi e della Nato (tutte in teoria sottoposte, nell’uso, alla decisione sovrana del Paese ospitante). Il caso Calipari, invece, richiama principi in parte identici, in parte analoghi a quello di Abu Omar, anche se da esso si distingue in quanto un membro dei nostri servizi ne risulta eroicamente come vittima e non come strumento subalterno di un altro Paese.

I fatti del caso Abu Omar sono largamente noti, anche se mette conto passarli in rassegna per l’importanza straordinaria da attribuirvi. Nessuno contesta, neppure Silvio Berlusconi e gli avvocati del Consigliere di Stato Nicolò Pollari, che abbia avuto luogo il rapimento di una persona da parte di agenti dei servizi segreti di un Paese alleato, in violazione della nostra sovranità territoriale; che la medesima persona sia stata trasferita al Cairo, tramite le basi militari di Stammheim e di Aviano (con quali autorizzazioni delle autorità nazionali competenti resta da chiarire), in nome di una politica unilaterale del governo degli Stati Uniti che, servendosi di metodi di detenzione e di interrogatori vietate sul proprio territorio, si serve di governi più compiacenti che, in teoria, vorrebbe democratizzare (le così dette extraordinary renditions). Il processo ormai avviato, sulla base delle accuse della procura di Milano (le stesse «toghe rosse» che, con la Digos di Milano, hanno preventivamente tutelato l’incolumità fisica di Vittorio Feltri, e di Silvio Berlusconi e della sua impresa) e della sentenza del giudice titolare delle indagini preliminari, dovrà invece chiarire se e a quali livelli di responsabilità siano stati partecipi o altrimenti coinvolti agenti del Sismi. A tale ricerca della verità si oppone la difesa del Pollari che, come un vecchio personaggio di un film di Alberto Sordi («Reggime Nando che glie meno…»), invoca tardivamente il segreto di Stato come impedimento alla propria difesa, fingendo di ignorare che esso possa essere opposto soltanto da un testimone, e non da un imputato per cui prevale in ogni caso il diritto costituzionalmente tutelato della propria difesa.

Tuttavia, il nodo tutto politico dell’intera questione risiede nella linea di condotta finora prevalsa in sede di governo che avrebbe potuto e ancora potrebbe seguire il consiglio sia pure tardivamente formulato dall’ex ministro della giustizia, Piero Fassino, il quale, forse rivolgendosi a suocera (Berlusconi) perché nuora (il governo) intenda, ha sostenuto l’inopportunità dell’interferenza della politica con procedimenti giudiziari in atto. Fino ad oggi, invece, il governo, nella persona del ministro della Giustizia (il quale, a mio avviso giustamente, invoca una decisione collegiale in proposito), si è rifiutato di trasmettere i mandati di estradizione per 26 agenti della Cia al governo degli Stati Uniti e ha sollevato un conflitto di attribuzione presso la Corte Costituzionale contro la procedura di Milano che avrebbe condotto le proprie indagini in violazione del segreto solo tardivamente (e genericamente) invocato, in maniera analoga a quanto sostenuto dal Pollari.

A questo punto vorrei restare fedele al principio sostenuto da Fassino, evitando argomentazioni giuridiche che saranno a suo tempo vagliate nelle sedi competenti, che si tratti della Corte Costituzionale o, eventualmente, della Corte Europea dei diritti. Perché le decisioni di trasmettere mandati ad un altro Paese o invocare il segreto di Stato, addirittura sollevando un conflitto di attribuzione contro la magistratura, sono atti squisitamente politici. Come lo è anche quello di fare o non fare chiarezza di fronte al Parlamento e al Paese, su accordi segreti, veri o presunti, squarciando veli di reticenza, ripeto, comunque costosissimi in termini di rapporti fiduciari fra cittadini e istituzioni.

Per essere a mia volta chiaro; sono in gioco diritti fondamentali, sanciti come tali da fior di trattati dall’Italia sottoscritti e da questo governo sostenuti con grande coraggio; il suo europeismo marcato, di fronte alla normativa sul mandato di cattura europeo e ai pronunciamenti del Parlamento e della stessa Commissione europea; la possibilità di attuare una vera riforma che restituisca onore ai servizi segreti (già inquinata da tentativi di introdurre una normativa ad personam, salva Pollari). Si tratta, infine, di collocare il rapporto con gli Stati Uniti (che si tratti di basi militari o di servizi) su un livello ad un tempo più dignitoso e più trasparente. Per entrambi, nell’interesse di entrambi.

g.gmigone@libero.it

 

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EmiNews 2007

 

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