2872 LA ROTTA LATINOAMERICANA

20070224 15:00:00 webmaster

Tito Pulsinelli (www.selvas.org)

“La verità, nonostante tutto, esiste.”
Victor Serge

La grande tornata elettorale che nel 2006 ha coinvolto una dozzina di Paesi latinoamericani si è conclusa con risultati sorprendenti. Il partito delle privatizzazioni ad oltranza, che coincide con quello dell’ultraliberismo e della sottoscrizione dei Trattati di Libero Commercio (TLC) con gli Stati Uniti, non ne esce bene e vede ridotto il suo spazio di manovra continentale.

“La verità, nonostante tutto, esiste.”
Victor Serge

La grande tornata elettorale che nel 2006 ha coinvolto una dozzina di Paesi latinoamericani si è conclusa con risultati sorprendenti. Il partito delle privatizzazioni ad oltranza, che coincide con quello dell’ultraliberismo e della sottoscrizione dei Trattati di Libero Commercio (TLC) con gli Stati Uniti, non ne esce bene e vede ridotto il suo spazio di manovra continentale.
Non solo in quel subcontinente in cui si cerca di introdurre il diversivo delle “due sinisistre” –quella buona e quella cattiva- ma persino in Messico, Costarica e Nicaragua.

In Messico, la situazione si regge sul precario equilibrio garantito da un golpe elettorale a cui –nonostante tutto- è stato impossibile auto-attribuirsi un vantaggio superiore ad uno scarno “zero virgola qualcosa”. Il continuismo liberista, e l’apertura definitiva e fatale di quel che resta del mercato e della sovranità nazionale, è praticabile solo delegando alle forze armate un ruolo di primo piano.

Il neofalangista presidente “eletto”, infatti, di fronte ad una società lacerata e alla carenza di consensi, ha stretto un patto con i militari, che ora si apprestano ad un protagonismo che riporta alla memoria tempi lontani ed inquietanti.

Dopo 28 anni, il frullatore liberista lascia un saldo inequivocabile: una dilagante emigrazione che richiede la costruzione di un muro da parte degli Stati Uniti, e un’economia che vede al secondo posto l’apporto valutario degli emigranti. Nonostante i prezzi alle stelle, la compagnia petrolifera statale PEMEX è l’unica che l’anno scorso è riuscita a chiudere con una perdita di 7 miliardi di dollari. Per privatizzare, prima bisogna indebitarsi.

Si avvicinano scadenze importanti e tempi di grande passione sociale per il Messico. L’appuntamento decisivo sarà la privatizzazione dell’ultimo grande patrimonio nazionale, che è quello petrolifero, già seriamente ipotecato dalla Federal Reserve dopo il celebre “effetto Tequila”. Entreranno in collisione i due blocchi che si contrappongono nel Paese.
L’esito deciderà se il futuro sarà la definitiva sussunzione all’economia di Wall Street o se tornerà a far parte dell’America latina. Da questo, dipenderà la futura condizione delle classi subordinate, dei contadini e degli indigeni.

Nel “cortile blindato” centroamericano la sorpresa non è stata data solo dal ritorno sandinista al governo del Nicaragua. In Costarica, la risicata affermazione del fronte favorevole al TLC, marcata da un indicatore di “zero virgola qualcosa”, ha riportato alla presidenza il vecchio conservatore Arias. Costui, per ratificare ad ogni costo il TLC, sta ricorrendo alle manovre di prammatica dei politicanti di mestiere: imporlo con le astuzie parlamentari, l’asta delle cariche, senza nessun scrupolo a spaccare il Paese.

Il fatto, però, è che il tranquillo Costa Rica ha fatto dell’abbattimento delle frontiere commerciali a vantaggio di Washington e di Ottawa un tema nevralgico della campagna presidenziale. La difesa della società telefonica ed elettrica ha coalizzato la metà degli elettori. La privatizzazione, abbinata alla liberalizzazione della produzione agricola, sta provocando una crescente polarizzazione, e potrà imporsi solo con uno strappo doloroso che lascerà sequele.

Meno sorprendente è stato il ritorno di Daniel Ortega, alla testa di una ampia coalizione politica e sociale, benedetta persino dal cardinale Obando. L’avversario sconfitto dal FSLN era un giovane e rampante banchiere, uomo di quel ristretto settore legato al business internazionale e agli Stati Uniti. La Nicaragua disastrata dalle infinite “aperture”, perennemente al buio per i disservizi cronici del monopolio dell’energia elettrica privatizzata, dove è scomparsa persino la tradizionale coltivazione del coton, ha detto no. Vuole cambiare percorso.

In questo nuovo contesto –in cui si paga anche per studiare nelle scuole elementari- è di vitale importanza rinegoziare il debito con il FMI e negare l’avallo definitivo al TLC. Il nuovo governo, e la coalizione che lo sorregge, sostiene una politica di difesa degli interessi dell’economia nazionale, e in questa si identificano anche quei settori produttivi che scomparirebbero con l’inondazione di merci provenienti dal nord.

In Brasile, a dispetto degli sforzi dispiegati a pieni mani dalla borghesia di Sao Paulo, non c’è stata partita e Lula ha vinto senza nessun affanno. Nonostante il suo moderatismo e una politica di redistribuzione sociale abbastanza tiepida, persino i suoi critici più severi –messi alle strette- hanno ratificato il loro appoggio. Eppure non ha messo mano alla riforma agraria, e il latifondo e l’agro-esportazione della soya transgenica sono rimasti intatti. La meta delle 400000 famiglie beneficiate dalla riforma agraria è rimasta incompiuta.

In effetti, tra Lula e il rappresentante ultraliberista dei settori legati alla transnazionalizzata economia finanziaria, i dubbi svanirono (anche tappandosi il naso). La destra rimetteva in discussione persino il ruolo geopolitico del Brasile, con un riallineamento vorticoso con Washington, e una frenata brusca all’integrazione regionale. La destra vassalla, infatti, preferisce essere la coda dell’ingrigito leone, piuttosto che la testa del blocco del sud.

La continuità del nuovo corso venezuelano, avvenuta con ampio e comodo vantaggio il 3 di dicembre, è una maiuscola conferma anche della funzione di Paese-cerniera che unisce le Ande, i Caraibi, l’America centrale e la latitudine amazzonica.
La scintilla scoccata a Caracas otto anni fa, ormai ha scavalcato con agio le Ande, dove la recente svolta boliviana ed ecuadoriana, lascia in solitudine la Colombia e il Perù, prede del miraggio sempre più incerto del TLC. Da via di ripiego dell’abortita ALCA, attualmente corre addirittura il rischio di incagliarsi nel senato di Washington.

La riconferma di Alvaro Uribe alla guida della Colombia, ribadisce l’inalterata continuazione della repressione dei movimenti popolari con la mano militare del Plan Colombia, ma non avviene sotto una buona stella.
Dense nuvole scure si addensano sulla testa di Uribe. In pochi mesi sono scoppiate burrasche che anticipano imminenti cicloni. Le accuse di connivenza a vari alti esponenti politici e magistrati, coinvolti direttamente
con l’economia criminale dei “paramilitares”, ormai tocca molto da vicino vari ministri del governo, e la stessa famiglia del Presidente.

Alcuni settori sani dello Stato cominciano a reagire contro la collusione aperta tra “paramilitares”, forze armate e governo. L’opera di bonifica istituzionale è una lotta contro il tempo, che tende a concretizzare qualche risultato positivo prima che i “paramilitares” portino a termine il business della “pacificazione”.
Consegna delle armi a cambio della garanzia ad una pena massima di 8 anni di carcere per qualsiasi tipo di crimine, conservazione dei beni patrimoniali estorti, del potere politico locale e della loro rappresentanza parlamentare. Conserveranno, insomma, la leva del narcotraffico e la stasi dell’ordine feudale, in modo che l’unica via di ascesa sociale dovrà rimanere la mafia.

La Colombia rimane in bilico, sorretta dalle sovvenzioni con finalità militari del Pentagono (le terze, dopo Israele ed Egitto) che perpetuano la guerra civile, la narcoeconomia di grande scala e l’iniquità sociale. Le elites bogotane, refrattarie ad ogni evoluzione, opposte alla tendenza regionale, sono condannate a guardare solitarie unicamente verso il nord. E soffrire una dipendenza sempre più accentuata; d’altronde si tratta di una vocazione storica.

La strutturazione del caos permanente, però, consente agli Stati Uniti di mantenersi saldamente in una piattaforma militarizzata, con proiezione ad ampio raggio d’azione verso quel sud sempre più refrattario al verbo globalista, che procede più spedito alla formazione del blocco regionale.

In Bolivia ed Ecuador, cuore amerindio del subcontinente, il processo di cambio raggiunge il suo culmine, ed innesca l’inevitabile controffensiva dell’oligarchia. Restia ad accettare il verdetto elettorale, è disposta a giocarsi il potere sul terreno dello scontro diretto e violento. Nello Stato neocoloniale, l’accesso al potere politico non facilita nemmeno una decente alternanza o la depurazione istituzionale.

Non conferisce nessun potere di trasformazione e –senza il ricorso alla Costituente, alla riscrittura delle regole minime del gioco- condanna all’inerzia e alla perdita del consenso accumulato. Vale a dire al declino dell’appoggio dei movimenti contadini e indigeni, dei settori urbani in miseria e della classe media impoverita.

Basti solo pensare che i giacimenti di gas della Bolivia erano contabilizzati come proprietà della multinazionale Repsol e, come tali, quotati a Wall Street. Con 3 miliadi di dollari controllavano riserve gasifere stimate attorno ai 250 miliardi; in altri termini, le multinazionali recuperavano l’investimento in soli 4 anni, e rimanevano proprietarie di tutto il resto.

Questa peculiare “dialettica” tra economie globalizzate e nazionali può anche prendere forma di leggi vincolanti. Come quella che obbliga i governi dell’Ecuador a dare la priorità al pagamento del debito al FMI, persino rispetto ai bilanci per l’istruzione pubblica e la sanità. Si arriva al tragico paradosso di uno Stato petrolifero, con le mani legate, costretto ad importare benzina e derivati a quelle stesse multinazionali che estraggono petrolio in Ecuador. Azzerrando in questo modo gli esigui benefici.

In questa fase, sia in Bolivia che in Ecuador, osserviamo che il ricorso alla Costituente viene osteggiato con furore, e il conflitto tra maggioranze sociali e le elites di Santa Cruz e Guayaquil, si sposta dal terreno elettorale a quello giuridico, ma si tratta in realtà di scontro di classe, perchè l’oligarchia non permette nessuna modificazione istituzionale. Il loro Stato è intoccabile.

Senza la mobilitazione permanente dei settori sociali da poco coinvolti nella partecipazione politica –che in Ecuador rifiutano di eleggere i deputati- le oligarchie e i loro compari internazionali avrebbero partita vinta ai primi rounds. I partiti politici, senza i movimenti, non sono in grado di far fronte ad una situazione di questo tipo. Sono i limiti invalicabili della democracia rappresentativa. Votare è indispensabile, però non è sufficiente per garantire alternanza o inversione di tendenza.

La Casa Bianca ha cercato di sbarrare la strada con i “golpes elettorali”, dove non vi riesce passa a destabilizzare i neo-governi che contano con un vasto e radicato sostegno popolare attivo. Alla fine, a questo si riduce quel “populismo” che attacano con tanto livore e timore.
Captano e muovono come massa d’urto le minoranze privilegiate tradizionali, con l’indotto di guardaspalle (mediatici, legulei, sicurezza) e manutengoli vari che -a cambio della depredazione delle materie prime e bio-diversità- coltivano l’illusione di ascendere al ruolo di borghesia trans-nazionale. In realtà, rimarranno funzionari neocoloniali subordinati o dirigenti di quarta fila delle multinazionali del nord.

Con le mega-elezioni del 2006, è entrata in crisi l’ideologia che codificava la possibilità dello sviluppo dei Paesi periferici solamente proibendo agli Stati ogni forma di intervento nell’economia, con un mercato spalancato e senza nessuna regola. Si sono ridotti gli spazi ottimali per l’accesso delle multinazionali alle materie prime. In tal senso, è stata pedagogica l’esecrazione e il grido di dolore levatosi nelle due sponde atlantiche contro la nazionalizzazione dei giacimenti di gas in Bolivia.

E più tardi, contro l’annuncio del Presidente Correa di riportare l’Ecuador nel seno dell’OPEP, di rinegoziare il debito con l’FMI e di non rinnovare la concessione della base militare di Manta agli Stati Uniti. Nel giro di una settimana, il Venezuela e l’Argentina hanno estromesso due compagnie nordamericane dalla distribuzione dell’elettricità.
Il governo di Caracas, con 730 milioni di dollari, ha ottenuto l’82% delle azioni della maggiore industria del Paese, tagliando fuori la multinazionale AES. Kirchner ha reagito con durezza alle pressioni dell’ambasciatore Earl Wayne, tendenti ad assegnare il controllo della metà della Transener al fondo di investimenti nordamericano Eton Park. “Non siamo una repubblichetta” ha ammonito il Presidente argentino, respingendo l’assalto di un fondo che ha come capitale dichiarato…3200 euro!

Gli elettori si sono pronunciati sui due modelli geopolitici di integrazione latinoamericana: autonoma o con gli Stati Uniti. Quest’ultimo fronte si è assottigliato, visto che Nicaragua ed Ecuador respingono il TLC, e la situazione messicana è assai incerta. Rimangono la Colombia, Perù, Cile e i rimanenti microStati centroamericani.
Sul versante opposto dell’integrazione senza Washington si sono compattati Brasile, Argentina, Venezuela, Bolivia, Cuba, Uruguay e Paraguay, con varie titubanze degli ultimi due. In sintesi, questo fronte si è allargato sia al di là delle Ande che in Centroamerica. E in Messico si sono riaperte le danze al suono di un ritmo che sembrava fuori moda.

Con questo rapporto di forze, e la solidità del legame tra i nuovi governi insediati e le rispettive basi sociali, è scontato che la destabilizzazione cercherà di fomentare il separatismo. Soprattutto in Bolivia e in Ecuador, dove cercheranno di staccare artificialmente la regione costiera di Guayaquil-industriale ed agroalimentare- e del suo vitale porto. E quella regione boliviana nelle cui viscere c’è il tesoro gasifero. Tenteranno di trasfigurare il conflitto sociale soffiando sul fuoco dell’etnicismo separatista delle minoranze privilegiate.

Questo, però, è di difficile applicazione in Venezuela, al fine di impossessarsi della ricca regione petrolifera del lago di Maracaibo. A parte la realtà catodica della propaganda, il Venezuela si basa su di un soddisfacente modello di integrazione, dove le tre componenti afro, indo ed euroamericane convivono in assenza di seri conflitti etnici, sociali, religiosi o culturali. E’ difficile, pertanto, separare il Zulia per unirlo alla limitrofe regione petrolifera colombiana, in un enclave-degli-idrocarburi dato in gestione ai “paramilitares”, riciclati come separatisti.

Sul versante europeo, i cultori delle “due sinistre” sudamericane, non dovrebbero farsi soverchie illusioni. E riflettere sulle parole pronunciate da Lula nel conclave di Davos, dove ha difeso la legittimità del nuovo corso sudamericano, contro qualsiasi interferenza esterna. Inoltre, dovrebbero chiedersi perchè tutti i Paesi latinoamericani –salvo isolate eccezioni- abbiano intensificato le relazioni economiche e commerciali con Cuba. Esiste una convinta difesa delle sovranità nazionali e ferma opposizione alle interferenze esterne, siano “umanitarie” o di ordinaria “esportazione democratica”. Su questo terreno Bush è solo.

Il continente dove il neoliberimo è venuto alla luce grazie alla macabra levatrice Pinochet, non vede di buon occhio un’Europa succube che –oltre a mantenere blindata l’agricoltura- fa propria la filastrocca propagandistica dei neocons.
Il nazionalismo latinoamericano non è mai stato colonialista o espansionista (salvo il Cile), ma resistenza contro le aggressioni imperiali spagnole, francesi, portoghesi, inglesi, olandesi e statunitensi. E’ superficiale e fuorviante, pertanto, proiettare sugli altri il peso del proprio passato. La difesa della sovranità nazionale, lungi dall’essere un anacronistico morbillo di ritorno nell’epoca globalista, è un binario su cui avanza l’integrazione. Dove la questione sociale è tornata d’attualità, ed è al centro del dibattito pubblico.

Di fronte alla rotta tracciata dall’elettorato, Bush sta programando in tutta fretta il suo primo tour continentale, e a fine marzo visiterà 5 Paesi: Brasile, Uruguay, Colombia, Guatemala e Messico. Il pathos di questa riscoperta tardiva dell’America latina non è certo quello trionfalista della brevissima stagione dell’ALCA.
Si limita a visitare 3 soci incondizionali e a cercare di portare a casa qualcosa di positivo a Brasilia (accordo sull’etanolo) e a Montevideo (qualche liberalizzazione commerciale). Sarà un viaggio emblematico che sancirà la nuova situazione: fine della dottrina Monroe, tramonto dell’egemonismo assoluto.
Il sogno di Bush -al di là dell’ovvio calcolo elettorale- si riduce a seminare insidie lungo il Rio de la Plata, scompigliare il MERCOSUR e rallentarne la marcia, ma non ha molte speranze. Nemmeno quella di trovare collaborazione per legare le mani a Chavez. Bush, in fondo, si presenta a mani vuote, mentre il Venezuela offre l’autonomia energetica come motore dell’unificazione regionale.

11/2/2007

 

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EmiNews 2007

 

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