2901 Intervento del Sen. Claudio Micheloni al dibattito per la fiducia al Senato

20070228 21:25:00 webmaster

Nell’ambito della discussione generale seguita
alle comunicazioni del Presidente del Consiglio On. Romano Prodi relative alla richiesta di fiducia al Governo.

On. Presidente, On. Presidente del Consiglio, On. Ministri, Colleghe e Colleghi,
sto vivendo un periodo di primati. È la prima legislatura della storia della Repubblica italiana che vede in Parlamento la presenza di Deputati e Senatori eletti all’estero dagli italiani residenti fuori dai confini italiani. È la prima volta che sono stato eletto Senatore
della Repubblica ed è la mia prima crisi di governo!

Sono stato eletto nelle liste de l’UNIONE che all’estero non ha rappresentato la somma dei partiti che in essa si riconoscono, ma una proposta-risposta al bisogno di unità, di chiarezza che la grande maggioranza degli italiani all’estero esprime. Per questa ragione l’UNIONE all’estero ha largamente vinto le elezioni, non per altro!
Voterò la fiducia al Governo Prodi con convinzione e con il senso di responsabilità che ho
assunto nei confronti degli italiani all’estero e verso l’intero popolo italiano.
Voterò la fiducia, perché il Governo Prodi ha dimostrato in questa prima fase in cui è
rimasto in carica, di essere cosciente che gli italiani all’estero sono una risorsa per l’Italia.
L’ha dimostrato nella finanziaria. L’ha confermato con il richiamo nei punti fondamentali di
rilancio del Governo.
Per noi eletti all’estero questi primi mesi non sono stati facili: sia per le nostre condizioni
materiali (distanze, mezzi e risorse inadeguate), sia soprattutto per le difficoltà ad inserirci
in questa macchina molto complessa.
Per noi migranti integrarsi è parte del nostro DNA e credo che ci stiamo integrando. Ma
integrarsi non significa rinunciare alla propria cultura, alla propria personalità, alle proprie
esperienze e ai propri valori.
Siamo tutti italiani. Abbiamo tutti arricchito la nostra personalità, la nostra cultura, le
nostre esperienze con ciò che abbiamo trovato nell’incontro con le culture e società che ci
hanno accolti. Non è stato sempre facile.
È però mia convinzione che oggi nel parlamento della Repubblica Italiana, i parlamentari
della Circoscrizione Estero possono essere portatori di esperienze e culture diverse. Né
migliori, né peggiori di quelle italiane. Sicuramente rinnovatrici, in un mondo politico
italiano che, a mio modo di vedere, di innovazione ne ha molto bisogno.
Gli italiani all’estero, nel bene e nel male, sono come tutti gli italiani in Italia. Sicuramente
non sono degli opportunisti ricattatori. Sono persone che con il loro lavoro e il loro
sacrificio hanno creato nel mondo il rispetto e la stima di cui godono oggi l’Italia e tutti gli
italiani.
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I pochi, ma significativi risultati positivi che gli italiani all’estero hanno raggiunto in questi
mesi, non sono il frutto di alcuna minaccia, ma il risultato di un lavoro, di un dialogo
costante con l’insieme della politica e del Governo.
Chi pensa il contrario si guardi allo specchio, se può ancora farlo.
Ho chiesto di intervenire principalmente per rendere partecipe il Senato della Repubblica di
ciò che veramente mi ha colpito, e direi anche ferito, in questi primi mesi di legislatura.
Quando sono stato eletto non mi sembrava vero che il figlio di un emigrato abruzzese
andato in Svizzera a scaricare il carbone potesse arrivare al Senato della Repubblica
italiana. Allora mi tornarono in mente tutti i valori solidi della vita, quelli ricevuti dalla mia
famiglia, una semplice famiglia di contadini abruzzesi. Questi valori si sono poi arricchiti in
innumerevoli incontri, riunioni, assemblee di donne e uomini emigrati in Svizzera, in
Europa. Valori spesso espressi, come faccio io, in un italiano approssimativo. Ma valori
veri, semplici, profondi, forti. Tra questi la famiglia, la solidarietà, e, al di là delle diverse
ideologie, tutti erano accomunati da un unico denominatore: l’appartenenza a una
comunità, essere e sentirsi italiani, in qualsiasi circostanza, in particolare in quelle più
difficili. Sia nelle tragedie, come quelle di Marcinelle o di Mattmark, che hanno segnato la
nostra storia, sia negli anni tormentati che ha vissuto la nostra Repubblica.
Mai è venuto meno il senso di appartenenza alla comunità italiana.
Ebbene, ciò che mi ha ferito è proprio lo scarso senso di appartenenza, il poco senso
dell’interesse nazionale, del bene comune e l’esiguo senso dello Stato che ho trovato in
quest’Aula.
Care colleghe, cari colleghi,
sono sempre rimasto impressionato nell’ascoltare la maggior parte degli interventi in
questa prestigiosa sede. Interventi segnati da una grande capacità nel difendere opinioni
di parte e anche dentro le parti, opinioni particolari, e grandi disquisizioni
sull’interpretazione del regolamento. In questo campo ho trovato qui dei maestri. Ma,
secondo me, limitarsi a questo significa essere cattivi maestri. Gli italiani ci hanno deputato
a rappresentarli con la difficile missione di realizzare il bene comune. Ci hanno deputato a
confrontare le diverse idee, i diversi progetti per cercare e individuare le vie migliori per
risolvere i problemi del Paese. Ma se noi pensiamo che questo sia solo un luogo di scontro
e non di confronto, un luogo dove cercarsi una personale visibilità, per raggiungere
obiettivi particolari, spesso per affermare distinguo nella propria fazione, all’interno del
proprio partito, stiamo tradendo la missione che il popolo italiano ci ha affidato.
I grandi principi sono sì fondamentali, il rispetto per la vita, la famiglia, la pace. Chi in
quest’aula può essere contrario?
Chi in quest’aula può dirsi contro il rispetto per la vita, la famiglia, la pace?
Nessuno!
E nessuno è solo minimamente autorizzato ad insinuare che qualcuno lo sia.
Ma non si può utilizzare il rispetto per la vita, la famiglia, la pace facendo leva sulle fedi, le
ideologie o i grandi principi, per, in realtà, rincorrere piccoli e miseri spazi di potere
all’interno delle proprie formazioni politiche. Non si possono negare i diritti e i doveri
dell’individuo a beneficio dei diritti e doveri collettivi. Estendere i diritti a chi non li ha non
lede i diritti di chi li ha già. Le leggi devono servire a regolare le situazioni più varie,
devono riconoscere la legittimità di una pluralità di comportamenti e modelli, religiosi e
laici, privati e pubblici.
La difesa della pace non è un diritto, è un dovere per tutti. Non basta gridare "pace, pace,
pace" perché la pace sia. La pace va protetta con una politica attiva, responsabile e
coraggiosa. E così vedo oggi la politica del Governo italiano. Ed è perché sono un pacifista
convinto che sosterrò la politica presentata dal Ministro D’Alema che sicuramente sta
alleviando la sofferenza di popolazioni civili in Afghanistan, in Libano e in ogni altro luogo
dove i nostri soldati sono e saranno al servizio dell’Italia e della pace.
La vita, la famiglia, la pace, le rispetteremo, le difenderemo, le valorizzeremo solo se, con
onestà intellettuale, forti delle nostre ragioni, saremo capaci con umiltà di ascoltare le
ragioni degli altri. Senza veti e senza diktat. Non ricordo più il nome, ma un umanista
francese disse: "Spesso i grandi principi ci servono per nascondere la nostra cattiva
coscienza". Almeno qui nel Senato della Repubblica italiana facciamo in modo che i valori, i
principi della nostra cultura, del nostro Paese ci servano non a nascondere meschini
giochetti, ma a ricercare e costruire insieme le soluzioni condivise dai molti e non ricercate
dai pochi. Anche questa è democrazia. Così facendo, forse con grande fatica, ma con tanta
umiltà, potremmo ritrovare la strada che ci riporterà al senso del bene comune, al senso di
appartenenza, al senso dello Stato.

 

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EmiNews 2007

 

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