2991 URUGUAY: In omaggio a Enrique Rodriguez Larreta

20070316 23:12:00 webmaster

di Antonella Dolci (da Stoccolma, per Emigrazione Notizie)

E’ morto ieri (14 marzo 2007) a Montevideo, dove era andato in visita dalla Svezia dove viveva con la moglie Zulma Martinez, Enrique Rodriguez Larreta, un uomo straordinario, di 85 anni.

[b]In omaggio a Enrique Rodriguez Larreta, deceduto a Montevideo il 14 marzo.[/b]
L’intervista che segue è stata fatta sul balcone del loro piccolo appartamento di Pocitos a Montevideo, dove trascorrono ogni anno alcuni mesi dell’inverno svedese.

[b]MADRE E PADRE CORAGGIO E I LORO FIGLI[/b]- Due destini eccezionali sotto la dittatura uruguayana
[b]I FATTI[/b]- Nel giugno del 1973 ci fu un golpe militare in Uruguay. Nel settembre del 73, in Cile. Il racconto che segue si riferisce a carceri, maltrattamenti e torture che hanno sia preceduto che seguito la data dei golpes.

MADRE E PADRE CORAGGIO E I LORO FIGLI
Due destini eccezionali sotto la dittatura uruguayana

I FATTI
Nel giugno del 1973 ci fu un golpe militare in Uruguay. Nel settembre del 73, in Cile.
Il racconto che segue si riferisce a carceri, maltrattamenti e torture che hanno sia preceduto che seguito la data dei golpes.

I PERSONAGGI

Enrique Rodriguez Larreta è nato nel dicembre del 1921. Appartiene ad una delle “grandi” famiglie dell’Uruguay, che ha dato al paese senatori e ministri. Fu lo zio Eduardo a fondare nel 1923 EL PAIS, il maggiore quotidiano dell’Uruguay.
Prima di diventare la pecora nera della famiglia Enrique ebbe una gioventú protetta. Appassionato di cavalli, fu giornalista sportivo e poi scrisse cronache di costume su aspetti tipici della vita di Montevideo. Si occupava spesso di trasportare cavalli da corsa, in aereo, in Brasile e in Argentina. Ha militato nel Partito Blanco, il tradizionale oppositore del partito conservatore dei Colorados, alla cui ala sinistra appartenevano molti che poi scelsero la via della lotta armata e divennero Tupamaros, come José Mujica. .
Nel 1950 si sposò con Zulma Martinez ed a poco a poco, tra il ’50 e il ’59, nacquero quattro figli.
Negli anni tumultuosi e fecondi che precedettero la dittatura, tutti i figli erano in un modo o nell’altro impegnati in politica, chi al liceo, chi all’università, anche se non tutti, per disciplina di partito e regole di prudenza, potevano dire esattamente a casa quale era il grado del loro impegno e le loro funzioni.
Maturarono ambedue politicamente insieme ai loro figli e li seguirono nell’esilio in Svezia, dove ancora vivono, diventando una roccia nell’ambito della colonia uruguayana in esilio ed un po’ i nonni dei bambini della comunità.
Nel 1969, quando l’opinione pubblica era commossa dalle crescenti azioni dell’organizzazione clandestina dei Tupamaros (MLN-Tupamaros: Movimiento de Liberaciòn Nacional Tupamaros, da Tupac Amaru, il capo indiano che resistette agli spagnoli) che voleva ”svelare la vera faccia dell’apparente democrazia uruguayana” , Enrique venne intervistato in TV sulla situazione del paese. L’intervistatore trovó forse le sue critiche troppo taglienti e lo apostrofó: Ma allora, Lei è Tupa?
– Se essere Tupa è lottare per la gente, allora sí, lo sono”. _
– E non si vergogna?
– Chi si deve vergognare è Luis Valle, che ha un figlio come Jorge (allora presidente dell’Uruguay).

Chiedo: In quegli anni, non avete mai avuto paura?

– Enrique: Certo. Tutti hanno paura. Ma sono sempre stato d’accordo con i miei figli.
– Zulma: Sospettavo che il mio figlio maggiore, Gimbo, militasse. Entrava sempre correndo. Usciva senza mai dire dove andava.
Tutto è cominciato nel 1968. Lavoravo allora a 20 km da Montevideo, in una specie di Cassa Mutua per le Pensioni. Lí qualcuno dice che ha ascoltato alla radio che in un nascondiglio vicino alla Stadio Centenario erano stati fatti prigionieri, con molto fracasso, tre famosi dirigenti dei Tupamaros. Ed uno di loro era mio figlio.

Fu mandato in giudizio e liberato dopo una settimana. Il padre lo aspettava al caffè di fronte al carcere. A casa vennero tutti gli amici a festeggiare, molti della FER (Federación Estudiantil Revolucionaria , altri persino del Partido Colorado). Era un po’ considerato il cervellone da tutti.
– Se gli abbiamo fatto rimproveri, espresso preoccupazione? No, nessun rimprovero.
Gimbo era sempre stato un po’ un ribelle. A quindici anni aveva lasciato il liceo senza dir niente a casa, forse perché c’era un militare che abitava di fronte al liceo e gli dava sempre fastidio. La nonna paterna intervenne e lo mandó a studiare dai gesuiti nell’interno del paese, a Tacuarembó. Cosí da quel ragazzetto stupido che era, grazie all’influenza di questi gesuiti che facevano ampie opere sociali, maturó, divenne più sensibile ai problemi sociali. Ed appena tornato a Montevideo ed iscritto all’università, cominciò a militare nella FER, il movimento universitario.
– Quando ci fu il golpe in Cile, nel settembre del 73, Gimbo andò in Argentina, dove lavorava in un giornale e militò in diverse organizzazioni, come OPR 23 (Resistencia Obrero-Estudiantile e una che aiutò a fondare, PUB.
Tra il 68 e il 73, quando Gimbo aveva tra i 17 e i 22 anni, venne arrestato e messo in carcere tre volte.

-Zulma: La terza volta che venne detenuto mio figlio Gimbo, era l’inverno del 72. Il nipotino, Carlitos, aveva forse un anno e mezzo. Ci lasciarono il bambino, lui e la moglie, per andare all’Arizona, il cinema del quartiere, a pochi isolati di distanza. Non tornarono più. Com’è andata poi l’apprendimmo dal giornale El Paìs qualche giorno dopo: quel giornale (quello fondato dal nonno di Enrique) ha sempre avuto un’ottima collaborazione con la polizia.
Sembra che ad un certo momento venne accesa la luce in sala ed entrò un gruppo di militari. Uno di loro, Amodio Perez, il famigerato traditore, credeva di aver riconosciuto mio figlio quando entrava. – Quello è Rodriguez Larreta. Chiesero a mio figlio i documenti. Li aveva come Rodriguez Martinez (Martinez è il mio cognome e Larreta lo aveva eliminato). – Non è lui, disse un militare. Uscirono. Ma Amodio Perez, fuori, insistette: Quello che ho visto entrare era Rodriguez Larreta, è uno dei dirigenti massimi dei Tupamaros. Cosí riaccesero le luci, entrarono di nuovo e se li portarono via.
Avevamo creduto fino allora che i militari non fossero ben informati su Gimbo e sulle cariche che ricopriva nell’organizzazione. Infatti, qualche giorno prima erano venuti a cercarlo e avevano perquisito la casa. Poiché Gimbo non era in casa, si portarono via il fratello minore e lo trattennero per 15 giorni. Lo portarono nel nord del paese, a Tacuarembó, lo torturarono. Da allora non ha mai ricuperato bene l’udito.

Zulma. Due settimane dopo circa venne uno dalla caserma a suonare alla porta di casa, con un biglietto per chiedere vestiti puliti da portare al Batallón Florida. Lasció i vestiti sporchi. La giacca di Gimbo era piena di sangue.
Non mi sono arrabbiata né mi sono messa a piangere. Pensai: Meno male, è vivo!
Quella volta Gimbo rimase in carcere un anno, mia nuora un po’ meno, uscí il giorno del suo compleanno, in ottobre.
Gimbo dopo qualche mese fu trasferito in un altro carcere , a Durazno. Fuori c’erano 35 grandi di caldo ma nella cella era sotto zero. Quando lo andai a visitare, aveva la pelle completamente bianca.

Zulma: Ricordo l’episodio nella confiteria come l’inizio della repressione. Ero con mia nuora e Carlitos che era bebé. Entrarono dei militari e cominciarono a controllare i documenti. Solo io li avevo in regola ma Carlitos ebbe la buona idea di mettersi a piangere rumorosamente. Aspetti che il bambino piange, disse mia nuora. – Lasci stare, signora, risposero, seccati, e se ne andarono.

Quando venne sequestrato Gimbo, si era già allontanato dai Tupamaros. Dei militari uruguayani avevano seguito le sue tracce in Argentina e venne sequestrato il 1 luglio del 1976, a Buenos Aires.
Era fermo ad un angolo di strada. Pare che lo segnalò un conoscente (che collaborava, a quanto pare, con la polizia.) Viveva con la moglie e il figlioletto di cinque anni.

La prima preoccupazione del padre, che era subito accorso a Buenos Aires quando la nuora lo avvertì, fu di rimandare rapidamente il bambino in Uruguay. Si sapeva già che esisteva il sequestro di bambini. Vennero immediatamente i nonni materni, anche loro appartenenti alla “buona” società uruguayana. a prenderlo e Enrique e Zulma apprezzano molto il gesto, dato che, politicamente, stavano sulla sponda opposta della figlia e del genero.
Per Enrique e la nuora cominciò la ricerca, negli ospedali e nei commissariati, la presentazione di richieste di habeas corpus ai giudici. All’obitorio però Enrique non volle mai andare. Gli venne risposto che non c’era nessuna documentazione sul figlio e che quindi non era stato detenuto.

In quei giorni erano stati uccisi dei frati pallottini. Quando Enrique ottiene finalmente un colloquio con il presidente della Corte Suprema, gli dicono che ci sono già 6000 casi di scomparsi. Enrique sbotta:- Ma Lei che fa qui? O denuncia, o rinuncia.
Oltre due settimane di ricerche inutili : il 13 luglio, vengono sequestrati anche il vecchio Enrique e la nuora, Raquel.
Zulma in tutto questo si trovava in Svezia dove era andata a trovare la figlia. Questa, giovanissima e incinta, si era rifugiata insieme al marito, ricercato anche lui dai militari, in Cile dove li aveva sorpresi il golpe. Erano ora riusciti a salvarsi e a rifugiarsi in Svezia, dove aveva dato alla luce la figlia.
La notizia della scomparsa del marito la apprese dalla radio ad onde corte. Infatti la figlia e il genero, per risparmiarle ulteriori angoscie, non le avevano raccontato della scomparsa di Enrique, e perché non lo venisse a sapere, le avevano detto che la radio era rotta.
– Mi adirai molto con i miei. Non mi piacciono tutti questi chui.chui.chui. e “che non stia in pensiero”, “meglio che non sappia” ecc. Io quello che volevo erano informazioni e basta.

Enrique e sua nuora stavano in casa a Buenos Aires quando vennero i militari a sequestrarli. Erano dieci, dodici, tra di loro Osvaldo Forese (come fu poi identificato), detto El Paqui (Il Pachiderma). Si sentirono forti colpi alla porta e Enrique si apprestava ad aprire (non c’erano vie di fuga, non poteva far altro) mentre, da vecchio gentiluomo, sussurrava alla nuora terrorizzata- “Non ti preoccupare. Questo si risolve”, quando El Paqui, che dirigeva l’azione, sfondò la porta ed entrarono tutti con i mitra puntati.. – Non c’era bisogno, stavo per aprire, disse Enrique. Gli misero i cappucci, vestiti com’erano, da casa, con le pantofole, e li portarono giù in una camionetta tra grida e insulti. Ricorda numerosi “Viejo ‘e mierda” . I militari erano sia argentini che uruguayani, questi ultimi però senza armi. Nella stessa retata sequestrarono anche Michelini e José Diaz.
– Il cappuccio però mi stava largo, ricorda Enrique. Cosí mi concentrai a cercare di capire per che strade passavamo, dove ci portavano. Registrai annnunci luminosi, ed altro che mi poteva servire per ricostruire un giorno la strada. Il cervello si acutizza, nelle catastrofi.
Fu cosí che poi fui in grado di ubicare il famigerato Garage Orletti.
Ci ammucchiarono in questo garage in penombra, insieme a molti altri presi nella stessa retata. Eravamo circa una trentina. Sentii nel buio una tosse familiare, una voce: era quella di mio figlio Gimbo. Riuscii ad avvicinarmi un poco al lato da dove veniva la voce.
“Bueno, flaco, finalmente te encontré…” disse. Il figlio era meno ottimista: “Non ci possono lasciare in vita, sussurrò, ci sono troppi testimoni”.
Cosí venne la prima scarica di colpi, perché avevano parlato.
Enrique: Fummo torturati tutti, chi più chi meno. Poi ci davano da mangiare. Da bere anche, se non dovevano sottoporci alla „picana“ elettrica.
Mi chiedevi prima se non avevo paura. Era proprio per vincere la paura che mi dedicavo ad accumulare conoscenze. Cercavo di ascoltare la radio che i nostri torturatori usavano mettere al massimo volume per non far sentire le grida. Sentivo passare un treno, sentivo voci di bambini che andavano alla ricreazione. Una scuola quindi, una via ferrata.
Come mi comportavo con i torturatori? Non bisogna perdere la pazienza, riassume Enrique, non insultarli, questo tipo di atteggiamenti non serve a niente. Mi ripetevo” Sono come un limone di gesso, mi può spezzare ma non mi può spremere ”. Poi bisogna mostrare fermezza. Curioso: mi chiamavano ”viejo ’e mierda”, mi davano calci nel culo ma poi mi davano del Lei. Credo che mi abbiano torturato un po’ meno degli altri, forse per la mia età.
Di quei giorni nel garages, ho anche ricordi positivi: le persone con cui ho condiviso quell’esperienza sono diventati venti amici per la vita. Non tutti però.
Non so se Diaz già collaborasse quando lo hanno preso, certo lo fece dopo. C’era anche una donna che tradí, cucinava manicaretti ai militari . Ma le altre ebbero un comportamento esemplare.
Che sto a dirti il tipo di tortura? Le solite: quando ci davano la picana, spesso ci legavano ad un apparecchio, con le mani dietro e con sale grosso sul pavimento, che trasmetteva bene l’elettricità.
I militari uruguayani, lí fuori, si dedicavano a riunire tutte le cose che avevano rubato nelle case dei sequestrati. Poi aspettavano i camion, per trasportare la refurtiva in Uruguay.
Sentii il capo delle guardie, El Gordo, un paramilitare argentino, fare questo commento. Questi uruguayani son incredibili, si portano via persino le viti.
Nel garage siamo stati 15 giorni, con gli occhi bendati.
Poi un giorno ci fecero entrare a tutti in un camion, ci ricoprirono con tela e sopra misero le cose rubate. Era un corteo, me ne accorsi perché si sentivano sirene, e ci portarono alla base aerea militare di Newbley, nel mezzo del quartier residenziale di Palermo.
Ci fecero salire, sempre con la benda sugli occhi, su un aereo militare uruguayano, un Fairchild. José Feliz Diaz Berdayes a quest’altura già collaborava apertamente con i militari e anche la donna, Maria del Pilar Flores.
Avevo i polsi feriti e gonfi, cosí non mi poterono mettere le manette e mi legarono le mani con nastro adesivo. Quando vidi l’aereo, pensai che ci avrebbero buttati tutti in mare ma poi mi ricredetti: avevo un cognato aviatore e sapevo che su quei tipi di aerei non si possono aprire in volo le porte, cosí potei tranquillizzare anche gli altri.
Quando arrivammo a Montevideo, tutti furono fatti salire su un autobus. .Io no, non so perché. Viaggiai da solo sul pavimento di un auto, insieme a tre ufficiali. Ci portarono a Punta Gorda, vicino all’Hotel Oceania. Ci ritrovammo tutti lí, in una casa confiscata sulla riva del mare. Per la prima volta separarono uomini e donne, le donne al pianterreno e noi uomini al primo piano. Dormivamo per terra. La tortura , per immersione, il ”submarino”, si faceva nel bagno “padronale”, al primo piano. – Per la prima volta a Enrique si incrina la voce- Sentii quando torturavano mia nuora. Venivano gli specialisti della tortura, tutti uruguayani si capisce. Molti membri di OCOA (Organizaciòn Coordinaciòn Acciones Antisubversivas).

A Punta Gorda restammo 15 giorni. Io avevo già cominciato a fare una pianta della casa Poi cominciarono le denuncie dei vicini che sentivano grida. Allora ci trasferirono tutti, in gran fretta, in una casa in un quartiere residenziale a due isolati dall’Ambasciata del Brasile. Lí restammo circa cinque mesi. A me mi lasciarono uscire due giorni prima di Natale. Eravamo in 24, ora, tutti nella stessa stanza. Sempre la stessa routine: benda sugli occhi, materassi per terra per dormire, chiedere il permesso per andare in bagno. In generale, lí, non ci torturarono. Ormai non avevano più nulla da chiederci.
Poco prima di liberarci, ci portarono in giardino a prendere un po’ di sole. Guardandomi intorno riconobbi il quartiere, la fabbrica della Coca Cola. Vedemmo entrare una donna nella casa vicina, una maestra, che mia nuora conosceva. E lei vide i prigionieri nel cortile.
Zulma. Che fosse vivo Enrique me lo disse una parlamentare a cui avevo chiesto un incontro, sposa di un militare di alto grado. – Glielo dico, ma se Lei dice che l’ho detto, lo smentisco…Le dico che sta a Montevideo e che sta bene.

Enrique: Ci eravamo messi d’accordo nel modo seguente, con i militari che evidentemente non sapevano più bene che fare di noi. Ci avevano proposte in diverse occasioni, con blandizie miste a minaccie, di firmare un documento secondo il quale eravamo stati sorpresi in un’azione armata a Buenos Aires, oppure a Montevideo, ecc. ecc ma ci eravamo tutti rifiutati di firmare.
Due di noi erano Tupamaros riconosciuti.Sei di noi (tra cui mio figlio, mia nuora, Margarita Michelini, la figlia del senatore Zelmar Michelini, gran amico mio, che era stato ucciso poco tempo prima, ed io stesso) avremmo dovuto dichiarare all’uscire sui giornali di Montevideo di non aver svolto nessuna attività politica e di essere rientrati in Uruguay di nostra propria volontà. Non ci avrebbero condannato a più di due anni.
I rimanenti sarebbero stati condannati per aiuto ad associazione sovversiva. Tutti avrebbero avuto un difensore d’ufficio, un militare.

Quando a Enrique chiesero quale era la sua posizione in relazione alla “soluzione” che stavano cercando, dichiarò: “Non c’entro niente con tutto questo, non ho nessuna relazione con nessun partito politico od organizzazione politica, anche se non mi piace questo governo né la sua politica economica, non ho commesso nessun delitto, m’hanno ammazzato di botte, ho dormito per terra, ho mangiato schifezze, ed ora devo anche riconoscermi sovversivo e avere un militare come difensore!”
“Ma Lei può uscire libero! -mi dissero (con la speranza che non cercassi un avvocato civile).
Non volevo uscire prima che tutti gli altri fossero stati trasportati nelle diverse carceri. In parte per solidarietà (che lasciassero la casa della tortura e fossero in un carcere normale) e un po’ per egoismo: che potessero testimoniare che ero vivo.
Zulma intanto in ottobre era tornata dalla Svezia.
Zulma: Ogni sera andavo alla Escuela Militar per chiedere notizie di mio marito, di mio figlio e di mia nuora. Mi schernivano: ”A rieccola, quella che va chiedendo notizie di quelli che se la spassano nei caffè dei Boulevards!”

Enrique: Uscii due giorni prima di Natale. Negli ultimi giorni ci avevano portato a far dichiarazione davanti al giudice. Eravamo 24, 2 erano Tupamaros.
Il giorno che mi liberarono, il capitano di guardia ebbe una lunga conversazione con me sui cavalli. Mi dava del Lei e mi trattava con rispetto. Osservó che avevo l’orlo dei pantaloni scucito.
– Lei ora esce, mi disse. – Cristina, gridó alla donna che aveva collaborato con loro (Maria del Pilar Nores Montedonico )- cucigli questo al signore.
Mio figlio fu condannato a sei anni di reclusione, da scontare nel carcere di Libertad,
Mia nuora a due, e fu mandata al carcere femminile di Punta Rieles.
Era il 23 dicembre.
Naturalmente promisi ai militari di stare zitto e di dimenticare. Ma
salii con l’impegno preso davanti ai compagni di denunciare tutto. C’erano famiglie, come quella dei Michelini, che non volevano denunciare per non recar danno ai prigionieri. Ma io avevo un mandato, me lo avevano dato tutti e ventiquattro.
Due mesi dopo tornai a Buenos Aires, per cercare di ritrovare il luogo dove eravamo stati torturati. Mi aiutarono alcuni amici dell’ERP. Mi parlarono di un locale che forse era quello giusto. Lo aveva descritto una coppia, i Morales, che era riuscita a scappare di lí.
Una storia incredibile.
La donna, Graciela Vinilla, era stata appena torturata. Era appesa per le braccia a due ganci alla parete, nuda. Le guardie erano uscite per riposare della fatica. Avevano lasciato le pistole sul tavolo. Graciela aveva i polsi molto sottili. Riesce a liberarsi, a slegare gli altri, acchiappano le armi, escono sparando (ammazzarono un militare) e per strada fermano una macchina e scappano. Tutto questo con la ragazza nuda.
Anni dopo, nel 1977, andai in Messico ed incontrai la chica Morales. Il compagno era stato ucciso in Nicaragua, dove era andato a lottare contro i Contras. Nello stesso anno resi la mia testimonianza su quello che avevo vissuto, a Amnesty.

Zulma: Sapevo che Enrique stava per uscire, l’avevo saputo portando un cambio di vestiti a mio figlio al carcere di Florida.
Era notte. Un uomo spinge la porta: era stracciato, con i polsi feriti, senza denti, magrissimo, con le pantofole ( – Mi erano scomparsi i calli, interrompe Enrique, sei mesi in pantofole!) La cagnetta era cosí trasportata dall’allegria che non lo lasciava parlare.
Alle 16.00, quando stava per salire, il capitano gli aveva detto: Non La posso lasciar andare perché il generale (Amauri Pranth) vuole prendere congedo da Lei…”
Lo portarono in un camello (un camion chiuso), vicino all’autista.
“ Se Lei mi promette che terrà gli occhi chiusi…“ gli aveva detto il militare alla guida.
– Ma certo, mentí Enrique, voglio solo dimenticare tutto questo…
Zulma. Ho avuto durante tutto questo periodo molto appoggio dalla mia famiglia. Mia suocera, per esempio. Il giorno del golpe, in Uruguay, uscí per strada un ufficiale di marina, Oscar Leve, a protestare contro il golpe. La vieja si mise ad insultare a voce in petto i militari, con terrore di mia nuora, che stava con lei.
Nessuno poteva permettersi di criticare davanti a lei i suoi figli o i suoi nipoti. Era nata nel privilegio, con domestiche e maggiordomi. Il padre perse tutto, dovette fare i lavori di casa, pulire, cucinare, e lo fece sempre con la più grande allegria del mondo.
E’ una famiglia, i Rodriguez Larreta, i Piera, i Munoz, che ha dato nome a tante di quelle strade!!!

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EmiNews 2007

 

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