3101 UN BILANCIO SOCIALE PER L'ITALIA: il ministro Ferrero lancia l'iniziativa

20070418 21:49:00 redazione-IT

A Roma confronto tra i massimi studiosi italiani delle politiche sociali. Molti i dati statistici forniti dai vari interventi, dall’Istat al Censis, su povertà e della disgregazione sociale

ROMA – L’Italia deve adeguare il suo sistema di welfare alle nuove esigenze e la politica deve saper affrontare le nuove emergenze sociali legate soprattutto all"aumento delle diseguaglianze sociali e ai processi di esclusione. Per questo è necessario ripensare tutto il sistema delle politiche sociali e cominciare a monitorare il settore in modo scientifico e costante. Abbiamo infatti il bilancio economico redatto ogni anno dalla Banca d’Italia, ma non abbiamo ancora un bilancio sociale.

Il ministro per la Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, si fa promotore di una iniziativa che dovrebbe coinvolgere anche altri dicasteri per arrivare appunto alla stesura annuale del Bilancio Sociale del Paese. Lo ha proposto oggi durante un convegno organizzato dal suo dicastero nelle sale del Cnel e al quale hanno partecipato i massimi studiosi italiani delle politiche sociali. Molti i dati statistici forniti dai vari interventi, da quelli dei rappresentanti dell’Istat e del Censis, che hanno analizzato le dinamiche della povertà e della disgregazione sociale, a quelli di studiosi come Roberto Pizzuti, Enrico Pugliese e Marco Revelli, che hanno analizzato il rapporto tra le trasformazioni sociali in corso e l’aumento delle diseguaglianze. Ota de Leonardis e Giancarlo Rovati hanno analizzato i sistemi di welfare nazionale e locali in relazione a gruppi specifici di popolazione.

L’Italia ha fatto grandi progressi, ma si scontano ancora gravi ritardi, mentre in alcuni settori strategici (come per esempio l’alfabetizzazione informatica e l’accesso a Internet) si riscontrano fenomeni preoccupanti di divaricazione sociale. Lo ha spiegato durante il convegno al Cnel – fornendo una gran messe di dati – Linda Laura Sabbadini, direttore centrale Istat, che ha parlato dell’aumento dell’utilizzo della rete elettronica anche da parte dei minori, ma con differenze sostanziali tra il nord e il sud del paese. "Permangono grandi differenze territoriali e sociali – ha spiegato Sabbadini – più del 50% dei minori del Nord frequenta corsi extrascolastici contro il 36% del Sud e il 37,7% delle famiglie operaie. Ci sono 16,5 punti di differenza su teatro, 14,4 su cinema e 24,7 su musei tra i minori del Nord e del Sud.” Sempre secondo il direttore Istat, il "minore multimediale è un soggetto emergente nel paese, ma non lo è ancora nel Sud. La tecnologia è dunque la “nuova frontiera” visto che ormai circa il 70% delle famiglie con minori ha un personal computer in casa, ma appunto con grandi differenza da zona a zona. La percentuale scendeal 58% nelle isole, mentre se il 69% circa dei figli di dirigenti imprenditori e liberi professionisti utilizza il computer la percentuale scende al 52% per i figli degli operai.

Ma l’elemento che sembra preoccupante nell’analisi delle discriminazioni sociali ancora esistenti (e per certi versi in crescita) riguarda la capacità della scuola di agire sulle differenze sociali e territoriali. Dalle analisi proposte nel convegno di oggi sembra però che la scuola non è ancora in grado di agire nel senso del riequilibrio. La scuola non alfabetizza chi non viene alfabetizzato in famiglia. E oltre alle differenze nell’uso del computer e nella capacità della scuola di far fronte all’aumento delle differenze sociali, esiste una forma ancora più forte di esclusione sociale. Ci sono – è stato detto oggi al convegno – circa 500 mila bambini e ragazzi dai 6 ai 17 anni che nel 2005 non sono mai andati al cinema, non hanno letto libri, non hanno mai usato un computer e quindi non hanno mai nagivato in Internet e infine non hanno mai fatto nessun tipo di sport. La dottoressa Sabbadini definisce questa parte dei minori “gli esclusi da tutto”. E guarda caso tra questi esclusi il 9,4% si concentra nelle famiglie operaie e il 13,2% al Sud, mentre la media nazionale si attesta sul 7,3%.

In questa situazione è quindi davvero essenziale ripensare il sistema delle politiche sociali nel suo complesso. Per far questo è prima di tutto necessario ridisegnare un quadro di insieme dove collocare le singole policy. Al convegno il compito è toccato prima a Mimmo Porcaro e poi a Raffaele Tangorra, entrambi dirigenti del ministero della Solidarietà Sociale. In particolare Tangorra ha inserito le politiche italiane all’interno del quadro europeo e ha analizzato i principali indicatori con cui si possono monitorare le politiche sociali. Tangorra ha sottolineato anche come uno dei primati italiani (con certo invidiabili all’estero) riguarda il tasso di povertà e il rischio di povertà futura per migliaia di persone. Emergente, per esempio, il fenomeno dei working poor, i lavoratori poveri. Dai dati statistici emerge infatti che tra le persone considerate povere (secondo i parametri standard) uno su quattro ha un’occupazione. Esistono e sono in aumento i lavoratori poveri. Tangorra ha anche sottolineato la necessità di ripensare il rapporto tra decentramento (la famosa riforma del Titolo Quinto) e le politiche nazionali, mentre il professor Roberto Pizzuti, docente di economia alla Sapienza di Roma, ha criticato l’analisi economica tradizionale che attribuisce al peso delle politiche sociali la responsabilità del mancato sviluppo del paese. Per Pizzuti, in particolare, sono falsi gli allarmi sull’eccessiva spesa in campo previdenziale. L’Italia è in linea con l’Europa e anzi il problema vero del futuro non sarà la sostenibilità economica del sistema, ma la sostenibilità sociale. Le pensioni saranno cioè troppo basse per troppe persone.

Nel convegno è stato analizzato anche il ruolo della famiglia sia come soggetto centrale della convivenza, ma anche come contraddizione. Sulla famiglia si scaricano infatti troppe responsabilità e le nuove politiche di welfare dovranno tenere conto sia delle famiglie come aggregati, ma anche delle persone singole come individui portatori di diritti. Lo ha spiegato, concludendo in lavori lo stesso ministro Ferrero. (pan)

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Le politiche sociali? ”Non un costo, ma un dovere politico e costituzionale”

A Roma il convegno ”Verso il bilancio sociale del Paese”. La relazione di Mimmo Porcaro, responsabile della segreteria tecnica del Ministro Ferrero. La necessità di indicatori attendibili per la stesura di un bilancio autorevole

ROMA – Povertà, esclusione sociale, disuguaglianza sono gli argomenti al centro del convegno “Verso il bilancio sociale del paese”, che ha preso il via oggi a Roma.

Il convegno si pone come obiettivo quello di prendere in considerazione le problematiche che caratterizzano il nostro paese e di ricorrere ad uno strumento come il bilancio sociale che, oltre a monitorare la situazione di disagio estremo, abbia come obiettivo anche quello di rendere visibile i vari meccanismi sociali e culturali che sottendono.

Mimmo Porcaro, responsabile della segreteria tecnica del Ministro della Solidarietà sociale, sottolinea l’importanza di dar vita ad un periodico bilancio sociale del paese e afferma che si tratterà di un bilancio che assumerà via via un’autorevolezza ed una capacità di orientamento analoghe a quelle di altre periodiche valutazioni sulla condizione economica e finanziaria dell’Italia.

“Questo obiettivo – continua Porcaro -, è di difficile attuazione nel nostro paese, perché le politiche sociali attuate per alleviare povertà, esclusione sociale e disuguaglianza, anche se necessarie, sono ritenute un costo”.

Porcaro individua due modi per superare questo atteggiamento di chiusura.

Il primo consiste nel sostenere che le politiche sociali non sono semplicemente un costo, ma una risorsa, una condizione dello stesso sviluppo economico, che oltre a costituire una crescita rappresenterebbe un accrescimento del capitale sociale.

Il secondo è che si comincia a pensare che, al di là della loro generale efficacia economica, le politiche sociali sono l’attuazione di un dovere politico che per molti stati è anche un dovere costituzionale: quello di operare perché tutti i cittadini abbiano una vita dignitosa.

Affinché un bilancio sia credibile è necessario che si basi su indicatori attendibili e credibili, dati che si riferiscono al radicamento della povertà, alla crescente difficoltà delle famiglie con figli, al fenomeno dei “working poors” e alla povertà di giovani dotati di titolo di studio, alla concentrazione della povertà nel Sud del paese. Sulla base di queste problematiche è necessario individuare possibili strategie di ausilio come il sostegno al reddito, la definizione dei livelli essenziali di assistenza, di integrare il federalismo con programmi generali, concordati e monitorati di politica sociale.

In conclusione, Porcaro afferma: “Questo convegno, che non a caso si intitola ‘Verso il bilancio sociale del Paese’, vuole solo segnalare un’esigenza, abbozzare una valutazione, iniziare un processo”. (Veronica Cicognani)

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Stato sociale fa rima con crescita economica? L’analisi di Roberto Pizzuti

Pesa sulla spesa sociale l’invecchiamento della popolazione: ”L’aumento degli anziani influenzerà la spesa sociale, a cominciare da quella previdenziale”. Italiani in ritardo su formazione e istruzione

ROMA – La spesa sociale disincentiva l’offerta di lavoro e la propensione al risparmio o piuttosto le reti di sicurezza offerte dal welfare favoriscono l’assunzione di rischi da parte degli imprenditori e agevolano gli investimenti? E ancora: esiste il rischio in Italia che tra stato sociale e sistema produttivo possa innescarsi "una spirale perversa che accentui l’arretratezza”? Il dibattito sul ruolo degli obiettivi sociali rispetto alla crescita di un paese è forte sia in Italia che in Europa; ne è un esempio la scelta del Consiglio Europeo di Lisbona che nel 2000 ha messo sullo stesso piano la lotta alla povertà e all’esclusione sociale con crescita e occupazione, adottando il cosiddetto "Modello sociale europeo’’ come sfida alla globalizzazione. Una linea di intervento che, ad oggi, ha richiesto un aggiustamento degli obiettivi. Fornisce non poche risposte a questi interrogativi l’analisi di Felice Roberto Pizzuti, docente dell’Università La Sapienza di Roma, intervenuto oggi al convegno “Verso il bilancio sociale del Paese”, organizzato dal ministero della Solidarietà Sociale.

Europa sempre più vecchia – Per contrastare il peso dell’invecchiamento demografico della popolazione europea sulla spesa sociale servono “modifiche dell’assetto produttivo capaci di aumentare maggiormente la produttività”. L’indice di dipendenza economica ovvero il rapporto tra gli anziani non attivi e gli occupati tra i 15 e i 64 anni passerà nel prossimo mezzo secolo in Europa dal 37% al 70% e in Italia dal 49% al 93%. Secondo l’economista i flussi migratori e le politiche d’aumento dei tassi d’occupazione non riusciranno che in parte a compensare il calo della popolazione europea. “L’aumento degli anziani influenzerà la spesa sociale, a cominciare da quella previdenziale”, spiega Pizzuti. Le proiezioni sui prossimi 50 anni indicano un aumento del 2,2% della spesa pensionistica sul Pil. “Sarà la risultante di una spinta pari all’8,2% derivante dall’invecchiamento demografico, contrastata per l’1,1% dall’aumento dell’occupazione, per il 2,1% dalla restrizione dei requisiti di accesso al pensionamento e per il 2,7% dalla riduzione degli importi”, sottolinea Pizzuti. In Italia l’aumento previsto sarà invece dello 0,4%, nonostante la spinta dell’invecchiamento demografico sia maggiore (11,5%) rispetto agli altri paesi.

Longevità e spesa sanitaria – L’invecchiamento della popolazione può esercitare effetti negativi anche sulla spesa sanitaria. “L’aumento della longevità, – sottolinea Pizzuti – cambia anche il profilo evolutivo delle condizioni di salute, mentre la spesa sanitaria individuale tende comunque a concentrarsi nell’ultimo periodo di vita, anche se viene ritardato”. In media nei 15 paesi originari dell’Unione la spesa sanitaria ha raggiunto un valore pari all’8,7% del Pil (è il 15% negli Usa); in Italia è pari all’8,4%. Le proiezioni per i prossimi 50 anni per i 25 paesi dell’Ue mostrano una variazione tra lo 0,3% e l’1,7%. della spesa sanitaria sul Pil esclusivamente connessa all’andamento demografico. “Disomogeneità significative si registrano anche nella diffusione delle patologie e degli stili di vita sanitari, oltre che negli anni di vita attesa alla nascita e alle varie età. – spiega Pizzuti – Specialmente dopo l’allargamento dell’Unione, si delinea un quadro di disparità di condizioni che non potrà essere ignorato nel futuro della costruzione europea”.

Italiani in ritardo su istruzione e formazione – L’Italia investe troppo poco in formazione: la spesa (4,9% del Pil) è circa un punto al di sotto della media dei paesi Ocse (5,8% del Pil). Ma non si tratta solo di quantità. “Alla preoccupazione per l’inferiorità della nostra spesa, – sottolinea Pizzuti – si aggiunge quella per la sua efficacia sia sulla formazione degli studenti sia rispetto alle necessità del nostro sistema produttivo”. Rispetto agli studenti quindicenni dell’area Ocse gli italiani sono al quart’ultimo posto della classifica; in particolare quelli delle scuole pubbliche raggiungono punteggi nettamente migliori di quelli che frequentano le scuole private, i licei italiani superano la media Ocse, mentre i ragazzi italiani delle scuole professionali si collocano nettamente al di sotto. Esistono inoltre disomogeneità in Italia tra le scuole del Nord, del Centro e del Sud. Secondo l’analisi di Pizzuti pesano i limiti della offerta formativa, la domanda disomogenea e mediamente scarsa delle famiglie e le caratteristiche mature del nostro sistema produttivo e la bassa richiesta di competenze che da esso proviene.

In Italia mancano gli ammortizzatori sociali – “Una peculiarità evidente del nostro sistema di welfare è costituito dalla irrisorietà delle prestazioni per ammortizzatori sociali e di quelle assistenziali”, sottolinea Pizzuti. E alla carenza di ammortizzatori sociali, si aggiunge quella dei sistemi di contrasto dalla povertà. Se la realtà del fenomeno è stabile in Italia, tuttavia “la differente distribuzione nel territorio nazionale è andata accentuandosi, approfondendo la dualità del nostro paese”. Rispetto al dato medio del 13,1% di popolazione povera, infatti, nelle regioni del Centro-Nord la quota è sempre inferiore al 10%, con minimi del 3% e del 4% in Emilia Romagna e in Lombardia. In quasi tutte le regioni del Mezzogiorno si supera invece il 20%. La spesa assistenziale affidata ai comuni (media nazionale 90 euro pro capite) inoltre va da più di 300 euro nel Trentino Alto Adige a meno di 30 in Calabria. “A fronte di questo quadro preoccupante della diffusione della povertà, e forse almeno a sua parziale spiegazione, nel nostro paese è completamente assente un sistema di base per la protezione del reddito”.

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La povertà di anziani, giovani e immigrati secondo Giancarlo Rovati

Le politiche di contrasto secondo il presidente della Commissione indagine sull’Esclusione sociale. Trattamento minimo comune per gli anziani, contrasto alla povertà d’istruzione e misure di sostegno al reddito per giovani e immigrati

ROMA – Al convegno "Verso il bilancio sociale del Paese”, in corso di svolgimento a Roma, è intervenuto Giancarlo Rovati, presidente della Commissione di indagine sull’Esclusione sociale. Nel corso del suo intervento, Rovati ha preso in esame la situazione di anziani, migranti e giovani in povertà, citando a supporto tutta una serie di dati Istat e Ismu sulla condizione di povertà relativa di queste tre fasce di popolazione nel nostro Paese.

“Le analisi sulle dinamiche della povertà relativa nel nostro paese condotte nel corso dell"ultimo decennio sulla base dei dati ufficiali – ha affermato – ha ripetutamente sottolineato che in cima alle classifiche dei gruppi sociali più a rischio vi fosse la popolazione anziana, composta per la maggior parte da donne, in ragione delle dinamiche demografiche ad esse più favorevoli. Minore attenzione è stata invece prestata alla povertà relativa delle fasce più giovani della popolazione, comprendenti sia i minori (fino a 17 anni) che le classi di età tra i 24-34 anni, essendosi innalzato fino a questa soglia estrema il convenzionale confine anagrafico per definire l’età giovanile. A rendere meno attenti a questo fenomeno – ha spiegato – è stata solo in parte la mancanza di evidenze statistiche sulla incidenza della povertà tra i minori ed i giovani, quanto la priorità politico-sociale attribuita agli anziani, sia in ragione della loro oggettiva vulnerabilità (economica, sanitaria, previdenziale ed assistenziale), sia del loro crescente numero, che ne ha fatto uno dei più rilevanti interlocutori ed arbitri del mercato politico-elettorale. Si deve a questo atteggiamento se tra tutti i target di popolazione in povertà, solo per gli anziani si sono registrati segnali di miglioramento, anche se gli anziani in povertà restano sempre al di sopra della incidenza media”.

“Il gruppo che è entrato per ultimo, in senso cronologico, nell’agenda delle analisi e delle riflessioni politico-sociali sulla povertà relativa è rappresentato dagli immigrati – ha aggiunto – provenienti da paesi vicini e lontani; in questo caso, ad attrarre in via prioritaria l’attenzione dei decisori e dell’opinione pubblica sono stati a lungo i problemi connessi ai flussi, alle regolarizzazioni, all’inserimento lavorativo e abitativo e solo recentemente anche gli aspetti connessi direttamente ai loro redditi e consumi, sulla cui base avvengono le stime ufficiali della povertà relativa. Un freno oggettivo alle analisi quantitative su questi aspetti è stato a lungo costituito dalla mancanza di informazioni statisticamente rappresentative ed è un merito della Commissione di Indagine sull’Esclusione Sociale aver avviato da quattro anni uno specifico approfondimento anche su questo tema, avvalendosi dei dati elaborati dall’Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità – promosso dalla Regione Lombardia e dall’Ismu – che ha di recente pubblicato il suo 12° Rapporto. Riprendendo una serie di evidenze empiriche sullo svantaggio relativo accumulato delle più giovani generazioni nel corso degli anni Novanta, la Commissione di indagine sull’esclusione sociale ha prestato nell’ultimo triennio una costante attenzione alla condizione dei minori e ultimamente ha promosso, con il supporto dell’Istat, uno specifico approfondimento sulla povertà dei giovani, esposto nell’ultimo “Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale. Anno 2005”.

Proprio in relazione a questa indagine, Rovati ha snocciolato tutta una serie di dati, riguardanti la condizione di povertà relativa delle tre categorie (per i dati vedi le tabelle allegate). Ma per Rovati, “le politiche di contrasto della povertà di ciascuno dei tre target debbono tener conto di un elemento distintivo di fondo: la loro collocazione rispetto al ciclo di vita”.

Anziani. “Le generazioni anziane si trovano in una fase del loro ciclo di vita dove tendono a manifestarsi in modo progressivo processi di infragilimento delle autonome capacità personali – ha affermato -, per ragioni in parte legate alla salute, alle malattie degenerative, alla perdita dell’autosufficienza fisica e psichica (con segnali che fortunatamente tendono ad insorgere sempre più avanti nel tempo, cioè dopo i 75anni), ma in larga misura legate a cause propriamente relazionali e sociali, di cui l’isolamento e la solitudine progressiva rappresentano fenomeni ugualmente allarmanti. Il miglioramento generalizzato delle capacità di prevenzione e cura delle malattie croniche e degenerative sta spostando continuamente il confine sociale della ‘anzianità; una parte crescente degli over 65enni mantengono inalterate la capacità e la voglia di ‘fare’ a vantaggio dell’utilità per sé e per gli altri. Si può così non utopicamente immaginare l’estensione del cosiddetto ‘quarto pilastro’ economico-sociale della società in via di invecchiamento (“aging society”), centrato sulla possibilità di affidare agli anziani opportunità di lavoro volontario o retribuito, a tempo parziale piuttosto che a tempo pieno”.

E ha aggiunto: “Le politiche di contrasto della povertà economica degli anziani (per definizione ormai fuoriusciti dal mercato del lavoro e dalla portata delle politiche attive del lavoro) passa in modo determinate attraverso le politiche previdenziali (per coloro che hanno accumulato regolari contributi pensionistici) ed assistenziali a sostegno del reddito previdenziale (quando è di basso livello) o di quel reddito di cittadinanza che coincide con l’erogazione di assegni sociali. Si deve all’efficacia (relativa) dei trasferimenti previdenziali ed assistenziali se la condizione degli attuali anziani è relativamente migliorata rispetto alle leve passate e se – in concreto – si sono avuti segnali incoraggianti di contrazione della povertà relativa tra gli over 65 anni. Non va comunque dimenticato che la persistenza e – ancor più – la progressione di questa tendenza non è affatto automatica, dato che il reddito da pensione è sottoposto a processi di erosione del potere di acquisto rapidi ed intensi, se non intervengono misure di sostegno adeguate che a loro volta hanno come condizione essenziale la presenza di processi reali di sviluppo del reddito e della ricchezza complessive”.

“Non si deve in proposito trascurare che le politiche previdenziali debbono rispondere al duplice criterio della sostenibilità (sul lato del sistema macroeconomico) e della adeguatezza (sul lato del bilancio familiare quotidiano) e che sotto quest’ultimo profilo esistono nel nostro paese 14,1 milioni di pensionati che debbono usufruire di integrazioni e maggiorazioni delle pensioni minime e ricevono un importo medio di 5.572 euro all’anno (pari 464 euro mensili), a fronte di un importo medio annuo di 8.985 euro pro capite (pari a 749,00 euro mensili)”.

In definitiva, per Rovati “l’elevata differenziazione dei trattamenti assistenziali genera non soltanto un’innegabile complessità gestionale, ma è anche fonte di alcune disparità tra i soggetti più svantaggiati che andrebbero appianate attraverso l’introduzione di un trattamento minimo comune come si è fatto con l’introduzione della maggiorazione sociale nel 2002. Questa logica perequativa e razionalizzatrice andrebbe verosimilmente estesa ad una platea più vasta di beneficiari (rivedendo le soglie di reddito per l’accesso o l’integrazione al minimo), utilizzando parametri omogenei in tutti i casi in cui è necessario garantire un minimo vitale individuale (in assenza di altre fonti di reddito accertate mediante idonee prove dei mezzi) e rideterminando i rimanenti importi in funzione di questa soglia, in modo da tener conto delle maggiori necessità derivanti da specifiche cause invalidanti. Una questione di particolare urgenza che colpisce in larga misura gli anziani riguarda l’introduzione di politiche a sostegno della non autosufficienza, che richiedono una efficace combinazione di erogazioni monetarie e di servizi domiciliari e di prossimità”.

Giovani. Sull’altro fronte, per Rovati “la popolazione giovanile (e la parte preponderante della popolazione immigrata) si trova nella fase ascendente del ciclo di vita, appartiene alle fasi più prossime all’inizio della vita (infanzia), al periodo della prima e della seconda formazione scolastica, si prepara ad entrare nel mondo del lavoro e delle professioni, ha bisogno dunque: a) di un ambiente familiare accogliente, stabile, libero dall’indigenza, capace di conciliare i tempi del lavoro con quelli della cura; b) di attività formative di qualità, erogate da scuole ed insegnanti capaci e motivati, in grado di valorizzare i talenti, di offrire opportunità aggiuntive a chi ne ha di meno, di operare investimenti sul futuro delle giovani generazioni; c) di un ambiente culturale e sociale in cui siano coltivate e premiate le virtù civiche, il senso di responsabilità, il gusto del fare e del ben operare; d) di un’economia e di un mercato del lavoro dinamici, capaci di offrire lavori di qualità sotto il profilo del contenuto professionale e delle condizioni contrattuali e retributive”.

“Le generazioni giovanili, che sul piano demografico si sono contratte ulteriormente nel corso degli ultimi 15 anni – ha affermato -, sono una risorsa preziosa su cui l’intera collettività deve investire per assicurare anche il benessere dei più anziani. Il futuro delle generazioni più giovani non è scindibile dalle politiche di sostegno alle famiglie con figli, notoriamente poco considerate nel nostro paese, sia sul piano culturale che sul piano economico-fiscale nella loro insostituibile funzione procreativa, educativa, sociale”.

Ha affermato ancora: “Un versante specifico delle politiche di inclusione dei giovani passa attraverso il contrasto di quella che possiamo chiamare ‘povertà d’istruzione’, che si cumula alle più tradizionali forme di povertà monetaria, ma che ne è anche una causa diretta per i suoi effetti penalizzanti sulla acquisizione di solide competenze professionali e altrettanto solide prospettive di lavoro qualificato. Sono proprio i dati sulla povertà della popolazione a segnalarci che l’incidenza della povertà aumenta in funzione del basso livello di istruzione, mentre si riduce sensibilmente al crescere della scolarità. Ciò che è oggi vero per le leve adulte della popolazione è destinato ad accentuarsi nel prossimo futuro per le leve giovanili, in considerazione del diffondersi di mercati del lavoro sempre più aperti all’apporto di popolazione immigrata con istruzione di buon livello e qualità. Il contrasto della ‘povertà di istruzione’ non è meccanicamente assicurato dall’innalzamento della spesa per la scuola e l’università se non si innesta su un processo di costante riqualificazione delle capacità e delle motivazioni del corpo insegnante e docente, mediante sistemi premiali che riconoscano le capacità ed il merito di chi ‘fa’ la scuola”.

Inoltre, “le elevate difficoltà dei giovani poveri ad acquisire una propria sostenibile autonomia dalla famiglia d’origine ripropone l’opportunità di misure di sostegno al reddito (reddito minimo) per il tempo necessario a promuovere un adeguato inserimento lavorativo e a far decollare un progetto di vita adulto. L’aumento dell’incidenza e dell’intensità della povertà proprio tra i giovani, e specialmente tra le donne giovani, che hanno accettato la sfida di una scelta familiare e procreativa ripropone l’urgenza di politiche di sostegno alle responsabilità genitoriali utilizzando sia la leva dei trasferimenti monetari, mediante le politiche fiscali o forme di reddito minimo, sia la leva dei servizi per l’infanzia e quelli per la conciliazione dei tempi lavorativi e familiari”.

Immigrati. Nel caso degli immigrati, infine, in gran parte in età di lavoro e in condizioni professionali, le politiche di contrasto della povertà non sono dissimili da quelle che vanno applicate alla popolazione autoctona di pari età; “in pratica – ha aggiunto Rovati – hanno a che vedere con le politiche attive del lavoro e con le politiche salariali, posto che tra gli immigrati sono principalmente diffusi i lavoratori a basso reddito, sia per la natura delle attività professionali da essi svolte, sia per le condizioni contrattuali che rendono più discontinue, incerte e ridotte le loro retribuzioni”.

“Tra le problematiche specifiche degli immigrati – ha concluso – vanno segnalate quelle relative ai ricongiungimenti familiari e ai contemporanei effetti di impoverimento che si manifestano al crescere dei componenti dei nuclei familiari e specialmente dei figli a carico: un aspetto quest’ultimo che avvicina la struttura della povertà relativa degli immigrati alla struttura della povertà relativa delle famiglie italiane. Un fenomeno in crescita è rappresentato dai figli degli immigrati di prima generazione che in modo sempre più numeroso vanno ad incrementare la popolazione scolastica e che nel giro di pochi anni si presenteranno sul mercato del lavoro con il bagaglio di conoscenze e competenze acquisite attraverso il loro percorso formativo. Mentre la scuola ha una enorme possibilità di diventare veicolo di integrazione culturale e sociale anche delle giovani generazioni immigrate, la sua eventuale ‘povertà formativa’ si trasformerebbe in un simmetrico handicap culturale e sociale, dagli esiti altamente problematici per l’equità e la coesione sociale”.

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”Istituzioni e società latitanti rispetto al ruolo della famiglia”

Secondo la fondazione Censis, volendo affrontare un bilancio sociale, occorre innanzitutto sostenere le funzioni di generatività, formazione e sviluppo dell’identità e distribuire le risorse a vantaggio delle fasce giovani

ROMA – Nell’ambito del convegno “Verso il bilancio sociale del Paese”, in corso a Roma, Giuseppe De Rita e Carla Collicelli della Fondazione Censis hanno illustrato il contributo dal titolo “La famiglia tra redistribuzione e reciprocità:
elementi per un bilancio sociale”.

L’analisi parte dalla descrizione di tre ambivalenze di base che caratterizzano la famiglia. La prima riguarda l’evoluzione verso la scomposizione del modello tradizionale, soprattutto per il calo della natalità, del numero dei componenti e dei matrimoni, e per l’aumento di separazioni, divorzi e forme diverse di convivenza, ma anche per motivi di ordine culturale e di stile di vita che tendono a privilegiare i nuclei familiari unipersonali o quelli senza figli. A ciò si aggiunge il fatto che non poche famiglie si aprono radicalmente verso l’esterno, dato il crescente impegno della donna nella vita lavorativa pubblica. Ma si evidenziano al tempo stesso importanti segnali di natura ricompositiva, in quanto la famiglia continua a essere il luogo principe dell’attenzione alla qualità della vita, al dialogo e alla comprensione, oltre ad essere ancora il luogo principale della procreazione. La seconda ambiguità riguarda il piano dell’educazione e della trasmissione di valori: molte indagini mostrano come il rapporto generazionale spesso si banalizzi, fra tendenze all’omologazione dei riferimenti culturali e dei consumi, con il conseguente affievolirsi della responsabilità educativa degli adulti verso i figli. Tutto ciò non intacca però la sostanziale affidabilità complessiva della famiglia. Infine si riscontra ambivalenza anche rispetto alle modificazioni dei ruoli di genere. Il processo di ibridazione e contaminazione dei ruoli maschile e femminile fa della famiglia oggi un laboratorio e un cantiere perennemente aperto per la sperimentazione di nuovi modelli. Si avverte però il peso dello squilibrio nel vissuto familiare. Ne fanno le spese i giovani, ma anche le donne, con il peso di una responsabilità plurima e anche gli stessi uomini, spesso messi profondamente in crisi dalla perdita di identità. In qenerale le ambivalenze citate sono il segno di una difficile “transizione nella continuità”, rispetto alla quale mancano segnali chiari, sia nel senso del sostegno che in quello della indicazione delle prospettive da parte del contesto sociale e istituzionale. Un primo punto da sottolineare è dunque quello della latitanza della società e delle istituzioni rispetto al ruolo della famiglia nelle sue funzioni più importanti. Da cui scaturisce l’indicazione, volendo affrontare un bilancio sociale, di esplorare con maggiore attenzione il campo del sostegno alla famiglia come soggetto di generatività, di formazione e di sviluppo della identità, in un contesto nel quale le aspettative si concentrano quasi esclusivamente sulla solidarietà sociale ed economica e sulle modalità con cui le istituzioni le sostengono, integrano o suppliscono. Un vero bilancio sociale, cioè, dovrebbe partire dalla considerazione di ciò che viene fatto per sostenere la famiglia come tale e la sua stessa formazione, in quanto detentrice di ruoli sociali importanti per la convivenza e la coesione.

La “transizione nella continuità” contribuisce d’altra parte a rendere difficile anche un approccio di bilancio sociale tradizionale, visto il quadro di riferimento in divenire sia per ciò che la famiglia è che per quello che si vorrebbe che sia. Il panorama dato da una pluralità di realtà familiari, più di 20 milioni di unità diverse tra loro, modernizzate e omologate nei consumi e nell’uso del tempo libero, e nelle quali la continuità col passato e le certezze sembrano date quasi esclusivamente dai legami affettivi e di responsabilità reciproca, non è facilmente decifrabile. I dati indicano che il reddito disponibile delle famiglie italiane (al netto cioè di imposte e contributi), ha segnato nel periodo 2000-2004 un incremento complessivo del 6,1%, con una crescita, in termini reali dell’1,4% nel 2003 e dell’1,8% nel 2004, pari ad un aumento medio per ogni singola famiglia del 2,4%.

Si tratta di un dato in controtendenza con il clima pessimista che ha prevalso nel Paese negli ultimi anni, e che può essere ricondotto ad alcuni significativi processi che hanno ridefinito nell’arco di pochi anni la geografia dei canali di formazione del reddito, ovvero: la crescita del numero dei percettori di reddito (circa un milione in più tra 2000 e 2004), trainata da un incremento occupazionale del 4,2%; l’aumento dei redditi da lavoro autonomo, che nell’arco di soli quattro anni sono cresciuti per singola unità di lavoro del 10,1%, contro un incremento medio dei redditi da lavoro dipendente dell’1,6%. Attualmente l’82% delle famiglie è proprietaria della casa in cui abita, il 13% possiede una seconda casa. Anche il peso delle attività reali (immobili, attività produttive e oggetti di valore secondo la classificazione data da Banca d’Italia) sul totale della ricchezza delle famiglie italiane è progressivamente cresciuto: se nel 1998 la ricchezza reale rappresentava il 73,8% della ricchezza complessiva delle famiglie, nel 2003 tale quota si è avvicinata all’80%. La patrimonializzazione è peraltro un fenomeno, che attiva ulteriore differenziazione sociale: non a caso, negli ultimi dieci anni la quota di patrimonio totale detenuta dal 5% delle famiglie più ricche in Italia è passata dal 27% al 32% della ricchezza totale. Critica appare la situazione delle famiglie spatrimonializzate, quelle cioè che non hanno sufficienti disponibilità per procedere all’acquisto di un’abitazione.

Nuove povertà I cosiddetti “nuovi poveri” costituiscono l’area di disagio della povertà relativa dei ceti medi da reddito insufficiente o da precarietà. Si tratta, in realtà, di povertà relative, cioè segnate dallo scarto con le condizioni di vita medie degli altri soggetti del proprio ceto sociale e del proprio paese, che non comportano né una vera e propria povertà economica, né degrado psicologico e sociale, né l’esclusione e l’emarginazione che caratterizzano altre forme più gravi di povertà. Esse segnalano soprattutto una mancanza di equità nel sistema istituzionale di offerta sociale e nell’assetto del welfare-state e riguardano principalmente due categorie: le famiglie monoreddito da lavoro impiegatizio e operaio, senza patrimonio e senza altre entrate di tipo autonomo o sommerso; i lavoratori precari, in particolare donne, giovani e immigrati, con carriere professionali interrotte, brevi, o fortemente penalizzate dall’assenza di tutele sociali adeguate, soprattutto se single. Parlando di disagio e povertà, va quindi detto innanzitutto che il tema si presta a facili strumentalizzazioni e semplificazioni. Si pensa spesso che l’aumento della povertà e l’insorgere di nuove povertà siano fenomeni recenti. Mentre non è così. In realtà, subito dopo la fase della ricostruzione post-bellica inizia in Italia una lunga deriva di addensamento sociale, di stallo della mobilità e di impoverimento relazionale, prima vera “nuova povertà” dell’Italia moderna, di carattere soprattutto immateriale. La seconda “nuova povertà” è data dalla fragilità sociale. Quella fragilità che dipende dalla scarsità di risorse, ma soprattutto dalla carente integrazione sociale e dalle deboli capacità di fronteggiamento. Al di là di queste due forme di “povertà post-materialistica”, su di un piano più materiale la società contemporanea si trova a fronteggiare due aree principali di nuova povertà particolarmente pesanti per la dignità della persona, che sono la povertà dell’esclusione sociale degli outsiders e quella della malattia e della solitudine. Su di esse occorrerebbe concentrare le attenzioni. La povertà dell’esclusione sociale è l’unica forma di disagio cui si addice il nome di povertà nel senso tradizionale del termine. Si parla qui di disoccupati cronici, disadattati, rifugiati alla ricerca di una patria, barboni, immigrati economici irregolari, in una parola di “vittime collaterali del progresso”, di esclusi dall’integrazione lavorativa e sociale. La povertà da malattia e solitudine si verifica, invece, anche in assenza di disoccupazione o di mancata integrazione sociale, quando una patologia grave, cronica o mortale, porta lo sconquasso nella vita dell’individuo e dei suoi cari e soprattutto quando a ciò si aggiungono la solitudine e la mancanza di cure adeguate. Spesso non “si cura” nemmeno con la ricchezza economica, e dunque riguarda anche i ricchi.

Dalle analisi risulta che tutte le povertà citate, ma in particolare le ultime due, si aggravano nelle situazioni in cui mancano o vengono a mancare fattori di protezione sociale a monte, come la patrimonializzazione o la casa di proprietà. In genere il bilancio è totalmente negativo, e si verificano le situazioni di maggiore disagio quando si sommano più fattori di impoverimento, e si verifica una sindrome da “mix di cause”.

Anziani Un approfondimento particolare merita il tema della malattia e della solitudine degli anziani, in un momento in cui l’attenzione per gli anziani è ormai da anni schizofrenicamente divisa tra l’esaltazione del ringiovanimento dell’età matura e la preoccupazione per le fragilità ed i bisogni assistenziali degli anziani soli e malati. In effetti la realtà sociale ci rimanda un quadro scomposto, tra anziani che consumano, viaggiano, investono, si occupano dei nipoti, ed anziani abbandonati, non autosufficienti. La situazione di maggiore criticità si ha in questo ambito nel caso degli anziani soli e malati. Cresce la quota di individui sopra i 65 anni che vivono soli in Italia; e d’altra parte solo il 25% degli intervistati ritiene la soluzione dell’”edificio protetto” una soluzione positiva, mentre tutti gli altri preferiscono rimanere a casa. Ma la casa degli anziani è spesso insicura, o troppo grande, o mal servita per gli acquisti, la sanità, la banca, i trasporti. Ai suoi abitanti mancano risorse e spesso informazioni e conoscenze per ristrutturarla affinché diventi più sicura, più collegata, più vivibile. Non vi è da stupirsi se le maggiori paure dell’anziano sono quelle della malattia (76%), della morte del coniuge (67%) e della solitudine (42%). Se la solitudine degli anziani è uno dei mali maggiori del nostro tempo, non bisogna dimenticare però anche le patologie croniche. Dalle ricerche più recenti emerge che rispetto alle principali tipologie di disagio è la tossicodipendenza quella che più preoccupa gli italiani è richiamata dal 58,6% degli intervistati, seguita dall’Aids (41,1%), dalla disoccupazione di lunga durata (26,3%), dalla marginalità minorile (20,3%), dalla prostituzione (17,8%) e dalla povertà economica (15,2%).

Welfare A fronte delle fenomenologie brevemente descritte, quale è il ruolo del sistema di protezione sociale in Italia? Esiste quindi innanzitutto un problema di carattere strategico di revisione dei modelli di tutela relativo ai seguenti aspetti. Una concezione prevalentemente riparativa, che privilegia la compensazione delle lacune più gravi, rispetto alla valorizzazione delle risorse esistenti; un modello di welfare ancora marcatamente assistenzialistico; un’impostazione ancora centralistica, pur in presenza di un “localismo del sociale” con numerose e cospicue differenze di approccio tra aree diverse, ma senza una reale cultura di autonomia funzionale dei territori rispetto alle proprie popolazioni; una contraddittoria tendenza a lasciare crescere un mercato sociale autogestito, senza avere definito le regole generali del rapporto tra statualità, socialità e mercato, e senza pensare a forme di supporto all’autotutela ed all’ambito informale; un’impostazione lavoristica, che prevede molte forme di supporto per i lavoratori ed i pensionati e poche, o nulle, per tutti gli altri. In Italia la spesa per la protezione delle persone anziane è significativamente più elevata che negli altri Paesi europei: il 62% circa della spesa sociale complessiva, contro una media europea pari al 43%. Ma il grosso di questa spesa è di tipo previdenziale, mentre deboli sono le voci funzionali “disoccupazione”, “famiglia” e “abitazione”. Per di più, l’invecchiamento progressivo della popolazione tende a spingere verso l’alto la componente della spesa pensionistica, accentuando lo squilibrio esistente nella spesa complessiva per la protezione sociale a favore di quest’ultima. Più in dettaglio, la nostra spesa per la protezione sociale nel complesso è pari al 25,1% del Pil, ed è fortemente sbilanciata in favore delle prestazioni comprese nelle voci funzionali “vecchiaia” e “superstiti” (il 14,4% del Pil, contro il 10,6% della media europea). Al contrario, la spesa per la tutela dei disoccupati, della famiglia, per l’abitazione risulta essere pari al 5,6% della spesa complessiva, a fronte di una media europea del 17,8%. In particolare, i trattamenti previsti per la “famiglia” ammontano all’1% del Pil (contro il 2,6% medio), e quelli per la voce “disoccupazione” sono lo 0,4% (contro lo 0,6%). Il circuito redistributivo è perciò fortemente sbilanciato a svantaggio delle fasce più giovani della popolazione e delle famiglie. In base ai dati Istat del Rapporto Annuale 2004, solo il 4,4% del totale delle famiglie italiane che hanno ricevuto una qualche forma di aiuto si è rivolta al settore pubblico: tale valore si riduce di ben 2,4 punti percentuali se si considerano le famiglie che hanno chiesto aiuto esclusivamente allo Stato. A fronte di un 4,4% di famiglie che hanno fatto ricorso ai servizi pubblici, un altro 7,8% si è rivolto ai servizi privati a pagamento e un ulteriore 16,8% alla rete informale. Ancora una volta, dunque, per le famiglie italiane si conferma la crucialità e la strategicità dell’auto-aiuto e delle reti informali, da quella familiare a quella parentale e amicale sino a quella di responsabilità diffusa, che affiancano, ma soprattutto suppliscono il sistema pubblico di offerta, senza che tra le due realtà si realizzino interazioni adeguate. In particolare, alla rete informale si è rivolto il 34,2% delle famiglie con almeno una persona con gravi problemi di autonomia, il 33,3% delle famiglie con madre occupata e con almeno un bambino minore di 14 anni e il 31,4% delle famiglie con almeno una persona con oltre 80 anni. Scarsamente sensibili ai problemi familiari risultano anche le politiche lavorative, e debole è la sensibilità per un modello di sistema famiglia-lavoro, che sostenga la conciliazione dei tempi e delle responsabilità. Secondo i dati sulle forze di lavoro, nel 2004 oltre il 45% delle donne 15-64enni ha dovuto ridurre il proprio orario di lavoro per prendersi cura dei figli e/o di altri familiari e tale valore sale a quasi il 60% tra le donne con un’età compresa tra i 35 e i 44 anni. Inoltre, tra le donne che lavorano part-time, molte lavorerebbero a tempo pieno se fossero presenti servizi pubblici adeguati (sia come costi, sia come orari, vicinanza alla zona in cui si risiede e come personale specializzato). E la difficoltà a conciliare tempi di vita e di lavoro incide anche sulla ricerca di una attività professionale: così, delle donne non impiegate tra 15 e 64 anni, è il 23% ad ammettere di non lavorare perché impegnato nella cura dei figli o di qualche familiare non autosufficiente, ma che cercherebbe lavoro se potesse contare sul sostegno di servizi di supporto alla famiglia (ben il 34,1% delle donne con meno di 34 anni).

È evidente che la situazione delineata rimanda alla necessità di declinare il tema delle politiche per la famiglia in maniera nuova, non solo dal punto di vista degli equilibri tra vecchie categorie sociali ipergarantite e nuove categorie poco o per nulla garantite, ma anche rispetto al nuovo paradigma di un welfare promozionale. In particolare tre questioni attendono di essere affrontate e risolte: il passaggio da un sistema di welfare monolitico verso un sistema a 3 e possibilmente a 4 pilastri, dove all’assistenza obbligatoria di base si affianchino il pilastro mutualistico e categoriale, quello assicurativo e individuale e quello del contributo attivo dei cittadini alla solidarietà; la riconsiderazione dei pesi interni al sistema di welfare, e in particolare l’ampliamento delle linee di intervento rivolte ai giovani, alle donne, e a tutti i nuovi soggetti sociali, in termini di formazione, orientamento e riqualificazione professionale, welfare locale, assistenza alla procreazione ed educazione dei figli, assistenza alla non autosufficienza, politiche dell’alloggio. Il primo è quello della “solidarietà redistributiva” del fisco nei confronti dei carichi familiari, come delle politiche dei trasferimenti, dagli assegni familiari in giù, e delle politiche per la casa. Il secondo riguarda la solidarietà del “welfare locale”, che dovrebbe svilupparsi in maniera molto più solida di quanto non accade, agendo contemporaneamente sulle diverse leve che il territorio possiede, dalla continuità assistenziale, alla assistenza domiciliare, alla responsabilità sociale delle imprese, alla sussidiarietà del volontariato, al ruolo dei servizi per l’impiego, a quello della scuola e dell’università al mutuo aiuto e all’autotutela. E visto che l’intensità e le caratteristiche qualitative del disagio si sposano con le forme del ritardo dello sviluppo e con le caratteristiche del territorio, la solidarietà deve esplicarsi soprattutto nei confronti delle situazioni di “mix di cause”, lavorando sul rafforzamento dei fattori di protezione (casa, risparmi, famiglia allargata) su base territoriale e familiare. Inoltre per quanto riguarda l’esclusione sociale degli outsiders, la solidarietà deve percorrere anch’essa l’alveo del “welfare locale”, ma prevedere accanto a ciò interventi massicci a carattere nazionale.

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Bilancio sociale. L’emarginazione grave adulta, ”importante indicatore” per la Fiopsd

L’intervento di Pezzana al convegno del ministero della Solidarietà sociale: ”Il grado di civiltà di un paese e la funzionalità del suo sistema di welfare si misurano dal modo in cui esso si occupa dei suoi cittadini più poveri”

ROMA – La Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora chiede che nel bilancio sociale del paese non sia dimenticato un importante indicatore: la grave emarginazione adulta. "Il grado di civiltà di un Paese, ed a maggior ragione la funzionalità del suo sistema di welfare, si misurano anzitutto a partire dal modo in cui esso si occupa dei suoi cittadini più poveri, ha detto il presidente Paolo Pezzana intervenendo al convegno promosso dal dicastero di Paolo Ferrero, a cui hanno partecipato i massimi esperti delle politiche sociali. “In questo senso – ha sottolineato – non possiamo che guardare con inesausta preoccupazione alla situazione del nostro Paese. In termini contabili, benché entro una contabilità sociale, oggi non possiamo neppure dire quanti e chi sono le persone senza dimora in Italia, e quanti sono i servizi, pubblici e privati, che realmente di esse si occupano. Persino la statistica non li ha considerati in questi anni, e comincia ad accorgersi che potrebbe essere stato uno sbaglio”.

“Abbiamo davanti, nell’esperienza quotidiana, numeri crescenti di persone costrette a vivere in stato di grave marginalità, strati crescenti di popolazione cui non sono riconosciuti diritti fondamentali degli esseri umani, servizi nati per il sostegno e l’accompagnamento sociale sempre più soffocati dall’emergenza e dalla penuria di risorse, e quindi costretti a ridurre la loro azione al conforto momentaneo e transitorio di situazioni insostenibili”, ha ricordato Pezzana. Da qui il senso delle tre proposte concrete dell’organizzazione: investire subito in un serio percorso conoscitivo e di ricerca sulla grave emarginazione in Italia e sui servizi che in tale area operano, valorizzando le esperienze e le competenze esistenti, sia a livello nazionale che europeo; adottare indicatori specifici riferiti alle persone senza dimora ed in stato di grave emarginazione adulta per misurare i progressi sociali compiuti dal Paese in termini di inclusione attiva; coinvolgere, valorizzare e sostenere le esperienze già in atto, costruendo tra loro quelle connessioni che, in un sistema di welfare plurale delle responsabilità, possono fare la differenza per realizzare un autentico necessario “Piano contro la povertà”.

Pezzana ha poi ricordato che il 19 febbraio scorso la Commissione Europea ha presentato al Consiglio, al Parlamento e agli altri soggetti interessati la proposta di relazione congiunta 2007 sulla protezione sociale e l’inclusione sociale. ”Il quadro che ne emerge non è immobile o sconfortante come si potrebbe pensare: i problemi ci sono, ma anche la consapevolezza degli stessi non manca, così come sembra non difettare ai Governi europei, incluso quello italiano, la capacità di immaginare il cambiamento, di progettarlo, di farne oggetto di politiche specifiche, capaci di restituire alla Politica quella capacità generale di costruire il futuro che dovrebbe costituirne la ragion d’essere fondativi”, spiega il presidente della Fiopsd. La strada indicata mette insieme forma di offerte di posti di lavoro o di formazione professionale, assistenza al reddito e un migliore accesso a servizi.

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Verso la Conferenza della famiglia: il ministro Bindi accoglie le indicazioni di Istat, Cnel e Censis

Secondo la titolare del ministero, occorre un approccio complessivo, capace di guardare all’insieme dei problemi: dalla scuola alla sanità, dai trasporti al fisco, dalla giustizia ai servizi sociali

ROMA – “I dati diffusi oggi da Istat, Cnel e Censis ci aiutano a tracciare un quadro più completo di conoscenze sulla realtà della famiglia e sulla condizione degli anziani. Sono informazioni di cui terremo conto nella Conferenza nazionale della famiglia, prevista a Firenze dal 24 al 26 maggio”. Lo dichiara il ministro delle Politiche per la famiglia Rosy Bindi che interviene a proposito di quanto è emerso oggi nel corso del convegno “Verso il bilancio sociale del Paese”, promosso dal ministero della Solidarietà sociale. “I rapporti presentati oggi – prosegue la Bindi – confermano che ‘i percorsi di vita’ per le famiglie numerose, o per quelle che hanno genitori anziani in casa, o per le donne sole con figli, sono sempre più difficili da sostenere. Passa da qui una condizione di grave disagio per numerosi nuclei familiari, e un tasso di povertà minorile tra i più alti d’Europa. Per mettere su famiglia e scegliere di avere i bambini desiderati le donne e i giovani, in particolare nel nostro Mezzogiorno, hanno bisogno di un lavoro stabile e una rete qualificata di servizi all’infanzia. Le famiglie devono poter contare su una risposta pubblica al problema degli anziani non autosufficienti”.

“La Finanziaria 2007 ha dato i primi segnali positivi, con gli incentivi all’occupazione femminile, la tutela delle maternità per le lavoratrici a progetto, gli investimenti per gli asili nido, l’istituzione del Fondo per la famiglia e Fondo per la non autosufficienza. Interventi e misure ulteriori, mirate ai bisogni delle famiglie numerose e più fragili, saranno realizzati, come ha annunciato il Presidente del Consiglio Romano Prodi, con le nuove risorse rese disponibili dall’azione di risanamento avviata dal Governo. Ma una nuova politica per la famiglia, che investa sulla crescita equilibrata ed equa del paese, richiede un approccio complessivo, capace di guardare all’insieme dei problemi: dalla scuola alla sanità, dai trasporti al fisco, dalla giustizia ai servizi sociali. E’ anche questa l’ambizione della Conferenza di Firenze da cui verranno le indicazioni politiche e programmatiche del primo Piano Nazionale per la famiglia.”

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www.redattoresociale.it

 

3101-un-bilancio-sociale-per-litalia-il-ministro-ferrero-lancia-liniziativa

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EmiNews 2007

 

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