3110 Congresso DL-La Margherita: INTERVENTO DI WILLER BORDON

20070422 12:39:00 redazione-IT

E’ stato ricordato che siamo ad un bivio tra cronaca e storia. La differenza com’è evidente non è poca, ma è di sostanza, e sinceramente non mi pare che oggi si possa definire con chiarezza quale delle due abbiamo scelto. Ma di certo quello che avviene qui a Roma, ma forse ancor di più quello che avviene a Firenze, solo degli stolti o dei cretini potrebbero non vederlo, è probabilmente il più grande evento di ristrutturazione del quadro politico che in Italia si sia mai conosciuto o messo in moto.

E già in questo ovviamente per chi denuncia l’eccessiva e pericolosa frammentazione del quadro politico, c’è un dato di estrema positività.
Ritengo anche io per di più, come Parisi, che senza la Margherita, senza questo percorso travagliato e difficile, doloroso, molto spesso anche contraddittorio, che è costituito dalla Margherita, tutto ciò non sarebbe stato possibile.

Che questo ancora però significhi davvero che abbiamo messo in moto il processo di costruzione che evochiamo quando parliamo di Partito Democratico, quando ci richiamiamo a quel sostantivo e a quell’aggettivo Partito – Democratico, sarebbe ardito a mio avviso ritenerlo scontato, e non solo perché c’è una sorta di straniamento che prende quando ti ritrovi, tu, che con pochi agitasti da tempo quelle bandiere e che il 19 Maggio 2005 ti trovasti tra quei 58 che ci misero la faccia, per difendere questa prospettiva.
Oggi improvvisamente tirato per la giacchetta in una sorta di automatico meccanicismo da parte di troppi che in questi anni ti hanno deriso e contestato, ma proprio perché quell’impresa corrisponde alla bisogna.

Proprio perché quell’impresa per riuscire per davvero ha bisogno di tali novità che sconfiggano e superino definitivamente le troppe sabbie mobili in un paese dai trasformismi sempre in agguato.

Sono 15, forse di più anni, che alcuni di noi pensano che il sistema politico istituzionale italiano debba essere ristrutturato secondo gli schemi delle grandi democrazie occidentali, della democrazia compiuta, dell’alternanza, della democrazia governante. Questo progetto lo abbiamo chiamato Ulivo, ed oggi esso si declina ancora più ambiziosamente in Partito Democratico.

Ma oggi non è più soltanto l’idea profetica di qualche politico isolato, o la teorizzazione astratta di qualche professore testardo, ma è diventato improvvisamente il tema all’ordine del giorno della vita politica italiana. Ne sono intimamente, pubblicamente, profondamente felice.

Chi più di me, chi più di noi, potrebbe esserlo. Ma mentirei a voi se dicessi che le mie preoccupazioni si sono attenuate. Anzi per alcuni versi esse sono aumentate e l’attenzione si è ulteriormente allertata. C’è infatti più di qualcosa, come sapete, che non mi convince nel Partito Democratico, così come si sta realizzando.

Ho il dovere di dirlo a costo di essere urticante e fastidioso, abbiamo il dovere in questa fase più che mai, della massima chiarezza, e per il cammino comune fatto in questi 5 anni, della massima sincerità.

In quello che vedo nel concreto divenirsi dei fatti politici, nei continuismi più o meno sommersi, non soltanto temo che l’operazione alla fine rischi di limitarsi alla fusione dei due attuali partiti, il che sarebbe pur tuttavia, sia ben chiaro, un dato non secondario, ma di più e anche per questo che esso non raggiunga quel livello di massa critica espresso nella locuzione “vocazione maggioritaria” che è indispensabile.

Di più, temo cioè, che non si tratti soltanto di uno sbaglio o di qualche deviazione del percorso, ma di una cosa piuttosto diversa da quella che serve al paese.

Ieri Francesco Rutelli ci ha detto che secondo lui la priorità per il paese è stimolare la crescita. Come non convenirne, se non altro perché solo dalla ricchezza prodotta si può discutere sulla modalità, della sua distribuzione, sulle regole per la sua formazione e su eventuali correttivi e strumenti di sostegno e di solidarietà per i meno fortunati.
Io credo che la priorità delle priorità sia per così dire ancora più a valle, ovvero sia addirittura infrastrutturale, ed è chiaro che non sto parlando solo delle infrastrutture materiali, ma piuttosto di quel substrato di infrastrutture morali, civili, politiche e istituzionali che sono il tessuto connettivo di un paese.

L’Italia, un grande paese dalle enormi risorse intellettuali, produttive, culturali e ambientali, vive oggi una crisi assai profonda. In troppi campi l’Italia è una società chiusa. Chiusa alla mobilità sociale, al ricambio generazionale, alla partecipazione femminile, all’inserimento dei nuovi arrivati. L’arco delle scelte che si offre a ciascuno è troppo limitato e condizionato: dal proprio genere, dal reddito e dal grado di istruzione dei propri genitori, dal luogo ove si è nati, da amicizie e conoscenze.
In Italia, nella società e nella politica, sono troppo diffuse le aree di illegalità e di arbitrio. Anzitutto nelle regioni e nelle aree ove la criminalità organizzata rende impossibile ogni sviluppo moderno e ove antiche abitudini di estraneità rispetto allo Stato sostituiscono al diritto il regime dei favori. Ma anche altrove, ovunque i doveri civili siano vissuti come sopruso.
Anche il sistema politico, e al suo interno l’organizzazione dei partiti, lungi dal correggere queste tendenze della società attraverso l’anticipazione di una società diversa, si costituisce invece, tranne poche eccezioni, come un sistema di rendite, spesso difese da pratiche consolidate, connotate dal privilegio e dalla autoreferenzialità.
Abbiamo invece bisogno di un’Italia in cui venga ristabilito, forse stabilito, il rispetto della regola della legge; in cui i comportamenti illegali siano perseguiti e colpiti da sanzioni certe e prevedibili.
Un’Italia più rispettosa della regola, della legge è possibile: un’Italia più giusta, che non premia i furbi ma i meritevoli; un’Italia più ricca, dove il confronto e la competizione tra le persone, le idee e le merci funzionano nel quadro di regole certe e rispettate.
Sono ormai quasi venti anni che questo paese, in forme spesso dissimili, qualche volta anche opposte e contraddittorie, chiede un mutamento radicale: innovazioni coraggiose. La risposta fino ad oggi è stata il balbettio, la chiusura, la conservazione, la rassegnazione, l’accusa a quelli che denunciavano, magari in forma rozza, o che provavano a cambiare, di antipolitica.
E’ vero il contrario: l’antipolitica è il prodotto di scarto, ma pur sempre il prodotto di una cattiva politica, di una politica che, dimenticandosi dei primari scopi per cui essa è attività alta, si è ridotta a bisbiglio autoconservativo, lasciando praterie scoperte, all’interno delle quali alle grandi domande che la società pone, ognuno è libero di dare le risposte più diverse, comprese quelle populistiche e demagogiche.
Abbiamo bisogno di un’Italia nella quale ciascuno sia più libero di realizzare il proprio progetto di vita. Abbiamo bisogno di aprire la nostra società; dobbiamo rendere più contendibili tutte le posizioni di comando, a partire dalla politica. Una società più aperta, più libera è possibile: più giusta, perché offre più opportunità a ciascuno; ma anche più efficiente, quindi in prospettiva più ricca, perché il ruolo svolto da ciascuno è scelto sulla base del merito.
Per fare questo è necessaria quella vera e propria rivoluzione politica e istituzionale che affermi fino in fondo la democrazia dell’alternanza che in Italia continua a sembrare una chimera, e che rimetta al centro il cittadino come sovrano delle decisioni, a cominciare da quelle elettorali, nelle quali egli sia in grado di scegliere direttamente il leader, la squadra e la sua maggioranza.
Per fare questo occorre ripristinare i canali otturati della partecipazione, a cominciare dall’utilizzo delle primarie come strumento ordinario di scelta degli incarichi monocratici e della leadership nei partiti.
Per fare questo occorre riformare nel profondo, forse totalmente ripensandole, le attuali forme partito che sono ormai obsolete, quando non addirittura di ostacolo alla libera e organizzata circolazione delle idee.
Per fare questo occorre una democrazia decidente, che non si paralizzi nelle estenuanti e inconcludenti mediazioni e nei pasticci di un teatrino ormai sempre più insopportabile; e che abbia la serenità ma anche l’ambizione, senza presunzione (e non da soli dunque) di provare a rilanciare il cammino delle riforme, a cominciare dalla riflessione culturale sugli aspetti che più sopra abbiamo segnalato.
E’ solo in questo quadro che la domanda perché fare il Partito Democratico ha la sua giusta risposta: perché serve all’Italia! Ma anche una immediata conseguenza: non tutto quello che si dice o si autodefinisce Partito Democratico corrisponde a questo immane compito.
In questi giorni ho detto a più di un interlocutore: “Se il Partito Democratico non si fa è un guaio serio. Ma se si fa male è persino peggio, perché rischia di essere l’ennesima e forse ultima delusione di fronte ad un enorme credito di speranza”.

Questo Paese io temo sia arrivato ad un punto che potrebbe essere di non ritorno. Sento i sintomi, i rischi, di una vera e propria faglia terremotale e vedo, per dirla in modo più sintetico, che siamo di fronte alla crisi di un’intera classe dirigente, non solo di quella politica.

È di qui dunque che ha senso, progettualità, rinnovata passione il nostro pronunciamento per quello che alcuni di noi hanno chiamato Ulivo e oggi chiamano Partito Democratico.
Ma allora la domanda è inevitabile. “È all’altezza quello che stiamo facendo di questa sfida? Di questa necessità? Non solo di dare risposta a dei bisogni, ma forse anche di riformulare le domande, di ridare alle parole i loro significati?”
Temo, lo ripeto, di no.

E non intendo riferirmi solo al trasformismo, male endemico della politica italiana, o a quella sorta di maledizione del continuismo, che non riguarda solo l’altro grande partito, ma che rischia di contagiare anche parti della nostra stessa formazione.

Quanto piuttosto alla sostanza concreta di quello che sta accadendo, che si muove lungo assi che, se a parole, rischiano di apparire troppo irenici, della serie noi democratici vogliamo bene all’Italia, nella sostanza continuiamo a perpetuare vizi e difetti di una classe politica in gran parte generazionalmente sorpassata.

E penso anche al grande tema del ricambio generazionale e della rappresentanza di genere che fino ad oggi ho visto svolgere in chiave paternalistica e maschilista.
Lo dico anche a Francesco Rutelli che ieri ha voluto fare un appello a coloro che hanno meno di 40anni.
Ogni appello se non è seguito da atti concreti rischia di essere nei fatti inutile e scoraggiante.
Sia ben chiaro questo problema io lo pongo, non per l’ennesimo richiamo giovanilistico, ma perché un paese che non sa selezionare e ricambiare le proprie classi dirigenti rischia la necrosi.
Ora siamo in ritardo forse di due generazioni.
Io ho 58 anni, e in Italia potrei considerarmi perfino ancora, come si suol dire, pronto per qualche altro compito futuro.
In altre parti d’Europa e del mondo sarei da tempo in giusta pensione dalla pratica politica attiva.
Come si risolve questo problema?
Se si ha intenzione di risolverlo in modo molto semplice, che non riguarda la scelta di ognuno di noi, che autonomamente la può sempre fare, riguarda una norma di una legge (già in vigore nel Friuli Venezia Giulia) che limiti a 2 mandati parlamentari i principali posti di responsabilità politica, senza se, senza ma. Senza eccezioni e se non si vuole andare al 2018 anche conteggiando, magari tra i due mandati anche l’attuale legislatura.

Con Manzione ho già presentato pochi giorni fa una legge di riduzione del numero dei parlamentari secondo quanto previsto dal programma dell’Ulivo.
La prossima settimana presenterò la legge sul limite di mandato, certo che tutti coloro che sono per il ricambio generazionale firmeranno subito e diventerà immediatamente legge dello Stato.

Le mie non sono sterili provocazioni, ma il testardo convincimento che, se non vogliamo, come intera classe politica, andare oltre il senso di sopportazione e di incredulità, dell’opinione pubblica, occorre sincronizzare promesse e parole, che oggi sono per lo meno mal doppiate.

Vale anche per il modo in cui da domani cominceremo la fase costituente e per le parole che sono contenute nei dispositivi comuni con cui concluderemo i due congressi.

Per me non vi può essere alcun dubbio: domani sera la vita ordinaria di Ds e Margherita si conclude. Da Lunedì si apre solo una fase inevitabilmente di stralcio, per la quale, a buona ragione, basterebbero e avanzerebbero organismi di garanzia. Vedo che invece si intende trasferire pedissequamente organismi, incarichi e quant’altro nella nuova fase.
E a differenza dei Ds, che qualche problema se lo posto, aumentandolo con il bilancino a tutte le componenti. Non mi pare, lo dico, la direzione giusta.
E comunque questa vicenda non può più riguardarmi.

Ho sentito ieri Francesco Rutelli usare parole, starei per dire finalmente, dure e severe su una pratica, quella del tesseramento, che ha devastato parte della nostra organizzazione, l’ha esposta al ludibrio mediatico, e anche a cattivi pensieri, rispetto alla situazione finanziaria che questa ha smosso.

Se si fosse trattato di chiunque altro, avrei potuto dire,”meglio tardi che mai”. Ma trattandosi del Presidente del Partito, io sento il dovere di dire a Francesco, che l’etica della responsabilità, che è parte della cultura politica moderna, comporta inevitabilmente che questa si eserciti quando gli atti e i fatti avvengono e si conoscono nei tempi, cioè, in cui l’esercizio della responsabilità è funzionale,

Caro Francesco di quel tesseramento, anche questo congresso, è in parte figlio.

In questi giorni varie persone mi hanno chiesto se non avevo esagerato nel sottolineare i caratteri di irregolarità che hanno contraddistinto alcune fasi congressuali. Penso di no, perché non mi convince che il fine giustifichi i mezzi, e perché è compito precipuo del Presidente dell’Assemblea Federale, cito testualmente lo Statuto, “vigilare sugli adempimenti connessi alle deliberazioni assunte dall’Assemblea Federale stessa, e quindi Statuto e Regolamento”.

Lo stesso Rutelli, in una lettera a me inviata, proprio l’altro ieri, ha molto insistito sulle responsabilità che competono ad ognuno di noi, a cominciare da quelle fissate per gli organi di garanzia, responsabilità che di fronte a nullità degli atti, a seguito di procedure non regolari, assumerebbero vesti diverse, anche se le più gravi per me rimarrebbero comunque quelle di carattere politico.

Ma proprio per questo io ho il dovere di testimoniare davanti al Congresso che ad oggi non esistono, a mia conoscenza, le basi documentali che attestino la piena regolarità della formazione della platea congressuale.

Per concludere, diversi giornalisti mi hanno chiesto quale sarà il mio compito da lunedì. Ho risposto: “Come faccio da più anni, lavorerò per il Partito Democratico.”

Per un partito che se giustamente ci si pone l’obiettivo che esso abbia una vocazione maggioritaria, non può in nessuna maniera, come ci ha ricordato Prodi, essere limitato alla sommatoria Ds – Dl. Occorre dunque allargare il perimetro, a cominciare da quello dell’Ulivo del ’96 e degli anni successivi, rivolgendosi dunque in primo luogo all’Italia dei Valori, ai Socialisti e ai Verdi.

Nessuno in questa fase può arrogarsi il diritto di definire per altri le regole della casa.

E la stessa Assemblea Costituente si deve formare non solo con il criterio “una testa un voto”, ma sulla base di liste concorrenti, a parità di condizioni organizzative e finanziare, e di strumenti comunicativi.

L’impresa è dunque ardua e difficile e, se come io penso, deve essere di un vero e proprio sommovimento di classi dirigenti e di strutture politiche, anche tutt’altro che scontate. Ma non possiamo esimerci dal compierla. Ognuno per la sua parte, ognuno con le sue forze, ognuno con la sua passione, ognuno mettendoci quella capacità di rinunciare alle comodità del presente, ognuno dunque rischiando qualcosa.

La Margherita, io l’ho sempre pensato e l’ho anche detto quando temevo che se ne snaturasse la condizione genetiva, aveva in nuce questa missione, questo progetto.

Ma se anche fosse, come diceva ieri Castagnetti, che addirittura, per alcuni versi, alzava ulteriormente l’asticella invitandoci a sapere che da domani non ci sono più alibi. E che come diceva Parisi, ancora oggi, se le navi devono portarci all’approdo dell’Italia, finalmente democrazia matura, dobbiamo bruciarci i ponti alle spalle, allora dobbiamo sapere che quello che inizia lunedì è una cosa completamente nuova.

Proprio per questo è improprio dire che qualcuno si separa.
Semplicemente un tempo finisce, e se anche domani cammineremo lungo la stessa strada, sarà inevitabile ritrovarci nella stessa stazione.

Congresso Dl-La Margherita 21 Aprile

 

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EmiNews 2007

 

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