3108 Congresso di DL – La Margherita: LA RELAZIONE DI FRANCESCO RUTELLI

20070421 12:30:00 redazione-IT

20-04-2007

Care amiche, amici, gentili ospiti,
benvenuti al Congresso di Democrazia è Libertà-la Margherita.
È il II Congresso di questo nostro partito, nato per la convergenza tra PPI, i Democratici, Rinnovamento Italiano e grazie all’apporto di centinaia di personalità e migliaia di militanti provenienti dalle esperienze del cattolicesimo popolare e democratico, laico-liberale e riformista, del vitale associazionismo del nostro paese, dell’ambientalismo.
Domenica decideremo che sarà anche l’ultimo nostro Congresso.

Ma non sarà una decisione di addio. Realizzeremo l’obiettivo di fondare una nuova, ambiziosa, difficile, affascinante impresa: la nascita del Partito Democratico.

E’ un passaggio senza precedenti nella democrazia italiana, che si svolge in parallelo ed unità d’intenti con il Congresso dei Democratici di Sinistra, iniziato ieri a Firenze. I due maggiori partiti del centrosinistra italiano, che hanno raccolto insieme circa dieci milioni di voti nelle elezioni politiche di un anno fa, decidono di non continuare da soli l’azione politica, decidono di unirsi e di aprire il cammino futuro a tutti quei cittadini e a quelle forze che condividono questo disegno.
Noi ci uniamo perché, ben consapevoli della dignità, della forza, dei valori che derivano da tanta parte delle esperienze da cui originano i nostri partiti, siamo soprattutto consapevoli che dobbiamo rispondere a sfide nuove, dobbiamo organizzarci in modo migliore. Che è tempo di unire i democratici e i riformisti italiani.

Saluto gli ospiti che rappresentano il mondo della cultura e dello spettacolo, che si trovano certamente a loro agio in questo luogo così speciale.
Saluto i nostri ospiti illustri che vengono dall’estero.
Saluto i leader politici. I rappresentanti delle forze economiche, sociali, dell’associazionismo.

Al futuro si debbono dare basi solide. E in questi tre giorni dovremo rispondere a domande molto impegnative.
È giusto, è necessario sciogliere le nostre appartenenze e dare vita a un partito nuovo, anziché proseguire, ad esempio, sulla strada di alleanze o con una federazione tra soggetti che mantengano la propria autonomia?
È saggio, in un’epoca in cui tra i segni dominanti appaiono la frammentazione, l’esasperazione delle divergenze, i particolarismi, imboccare la strada dell’aggregazione tra forze che hanno certamente tratti diversi?
Qual è, soprattutto, l’idea del nostro Paese, l’idea per il nostro Paese che intendiamo mettere in campo e su cui dovrà crescere il Partito Democratico?
È compito del Congresso dare risposte a questi interrogativi.
Subito, va detto che noi compiamo una scelta di fondo: non solo di far nascere un partito nuovo, unitario ed aperto. Ma che questo partito non sia fondato su un’identità ristretta.
Leggiamo nelle nostre società le potenzialità del pluralismo di culture, rappresentanze, propositi; e cogliamo tutti i rischi di frammentazione e conflittualità.
Per guidare i cambiamenti occorre un grande partito. Non lunghe coalizioni di partiti in competizione tra loro. Occorrono idee ambiziose, piuttosto che racconti svolti in concorrenza.
Ed è illusoria l’ipotesi di un’identità, ideologicamente o culturalmente definita, che pretenda di essere omogenea, condivisa da tutti, in mezzo alle trasformazioni incessanti di questo inizio di XXI secolo che esigono dialogo, confronto, integrazioni, sintesi.
Dobbiamo agganciare l’Italia a un mondo che corre. Dobbiamo restituire fiducia nella politica e nel pubblico servizio. Dobbiamo far partecipare milioni di persone, con sensibilità e passione.
Come ha scritto Amartya Sen “bisogna educare gli uomini ad accettare il dato di fatto che possediamo molte identità, e conviene usarle come punto di contatto con gli altri”.

Il partito arriva a questo appuntamento avendo centrato i suoi obiettivi fondamentali.
E’ nato a ridosso delle elezioni del 2001, quando pochissimi immaginavano che le nostre liste avrebbero potuto raccogliere un risultato a due cifre. Fu invece ben più robusto: la prima prova che l’unione di partiti può conseguire, a certe condizioni, consensi superiori alla somma dei punti di partenza. Sappiamo che quei consensi furono ingrossati dalla coincidenza nel simbolo e nella conduzione della campagna elettorale dalla mia responsabilità di candidato premier. Dal giorno dopo le elezioni, è iniziata una storia nuova: Mastella ha ripreso la sua strada autonoma, la Margherita ha iniziato la vita del partito e la costruzione di un suo progetto politico basato su tre presupposti:
quel 13% di consensi – tolti i voti dell’UDEUR – avrebbero perso per la via un’importante componente di sinistra che si era identificata con la campagna contrapposta a Berlusconi, e dunque lo spazio di originale fisionomia della Margherita era da formare con un profilo di centrosinistra attento all’innovazione dei contenuti di programma e anche ad una capacità di interpretare elettori moderati ma non favorevoli alla Destra;
la costruzione di uno spazio autonomo sarebbe stata sempre strategicamente intrecciata con il disegno dell’Ulivo, ovvero lo sviluppo dell’incontro tra le anime diverse del riformismo democratico italiano;
la quotidiana battaglia sarebbe stata volta al ritorno al governo, a partire dal recupero e la crescita di consensi nelle elezioni locali e regionali.

Abbiamo registrato un successo su tutti e tre i fronti. In particolare il lavoro paziente di costruzione di coalizioni, scelta dei candidati, raccordo con le forze emergenti nei territori – condotto con lealtà e dedizione unitaria, e attraverso uno stretto rapporto con Piero Fassino e i DS – ha consentito di riconquistare al centrosinistra non solo la maggioranza, ma i tre quarti delle regioni italiane, e una percentuale non dissimile nei governi delle Province e dei Comuni. La Margherita consolidava dappertutto le sue posizioni, ed oggi partecipano a questo Congresso 174 Amministratori Regionali (di cui 140 consiglieri eletti), 32 Presidenti delle Province, centinaia di Sindaci di piccoli Comuni – fatemi salutare per tutti loro Sergio Rizzo, il Sindaco di Maierato, piccolo Comune calabrese, presidente dei giovani dell’ANCI di quella regione, impegnato per la legalità e contro la mafia – e Sindaci di grandi città: fatemi salutare, per tutti, una protagonista della libertà, dell’amministrazione democratica e trasparente in una delle più belle e difficili città d’Italia, Rosa Russo Iervolino. Non è un caso se per confermare il nostro impegno strategico, ho citato due nostri rappresentanti del Mezzogiorno.
La Margherita ha conseguito il 10,7% dei voti nelle elezioni politiche (abbiamo certamente pagato qualche prezzo nell’ultima fase della campagna elettorale al recupero in aree centrali dell’elettorato da parte del centrodestra a causa di incertezze comunicative ed eccessive caratterizzazioni da parte delle sinistre radicali), ed è stato l’unico tra i partiti maggiori ad accrescere sensibilmente la propria rappresentanza parlamentare, con 122 tra senatori e deputati eletti. Il nostro partito ha contribuito a formare il carattere riformista e moderno, sociale e liberale ad un tempo, della proposta di governo dell’Unione. Ha rilevanti responsabilità nella compagine del Governo Prodi, così come nei ruoli istituzionali della Repubblica, dove assicura un’altissima responsabilità con intelligenza ed equilibrio uno dei nostri fondatori, Franco Marini; negli assetti politici e parlamentari dell’Ulivo, dove occupa la più importante posizione con dinamismo e qualità Dario Franceschini.
Non ci siamo fermati nel perseguire il disegno politico dell’Ulivo verso il Partito Democratico. E ci presentiamo oggi coerenti e decisi a questo appuntamento, di portata storica.
Non mi nascondo problemi ed inadeguatezze con cui ci siamo misurati. Certamente, l’errore di un tesseramento tenuto aperto troppo a lungo, e che ha dato corso in alcune parti del paese a sproporzionate raccolte di tessere. Una buona lezione imparata in vista della costruzione del Partito Democratico, che dovrà essere aperto a tutti, sulla base del principio “una testa un voto”, e vedere il contributo determinante del nostro partito, della nostra organizzazione, dei nostri amministratori. Ma l’occasione di oggi voglio coglierla per ringraziare tutti coloro che hanno dedicato tempo, energie, dedizione, intelligenza a questo nostro progetto. Agli eletti, ai militanti, ai funzionari, ai dipendenti. A una comunità di donne e uomini ricca di qualità e di capacità. Abbiamo fatto molta strada.
Ne faremo tanta ancora, insieme. E come sono stato il vostro Presidente, al servizio di tutti in questi anni, così lo sarò in questa nuova impresa, se mi rinnoverete la vostra fiducia.

La transizione politica in Italia non finisce mai.
Il bipolarismo così organizzato è inefficiente, ed appare pericolosamente stremato.
Non ci illudiamo che il problema si risolva con un gioco di prestigio azzeccato, con una riforma elettorale miracolosa.
Anche per questo nasce il Partito Democratico.
È l’antidoto politico al malfunzionamento delle coalizioni, l’atto di creatività e responsabilità per restituire forza alla politica nel momento storico in cui si manifesta forse la sua maggiore debolezza.
Il PD vuole far approdare finalmente il Paese ad una equilibrata, matura democrazia dell’alternanza.
Dopo circa quindici anni dall’approvazione dell’eccellente legge Ciaffi per l’elezione diretta dei Sindaci, e della legge Mattarella per l’elezione di Camera e Senato – una legge molto ben fatta, e che ha funzionato, anche se è stata tradita in sede di applicazione nei Regolamenti parlamentari, dove è stato eluso e calpestato lo sbarramento del 4%, e dunque si è aperta la strada alla frammentazione estrema del sistema politico – abbiamo preso un impegno con gli elettori : abolire la pessima legge Calderoli approvata a fine legislatura con i soli voti della maggioranza e con il solo scopo di limitare i danni di una sconfitta annunciata.
Nel nostro partito viene generalmente preferito un sistema maggioritario a due turni basato su collegi elettorali uninominali, perché vogliamo restituire ai cittadini la scelta degli eletti. Abbiamo preso comunque l’impegno di trovare una larga convergenza parlamentare – non solo all’interno dell’Unione di centrosinistra, ma con le opposizioni di centrodestra – e dunque di arrivare ad una sintesi alta, nell’interesse generale. Oltre ad eliminare l’attuale legge elettorale, vogliamo assicurare rappresentatività al Parlamento e stabilità di governo con un rafforzamento del ruolo del premier.
Nel rispetto del richiamo del Capo dello Stato e dell’impegno assunto in Parlamento dal Presidente del Consiglio, abbiamo affermato due priorità:
la riforma di alcuni punti della Costituzione a partire dalla modifica del bicameralismo con l’istituzione del Senato delle Regioni e delle Autonomie e la riduzione del numero dei parlamentari; governabilità in entrambi i rami del Parlamento, con una rappresentanza per tutte le forze politiche che raccolgano consensi adeguati.

Se oggi però noi imbocchiamo la via politica verso una matura democrazia, è perché l’Italia ha bisogno di un moderno bipolarismo in cui le coalizioni per il governo uniscano quanti si candidano effettivamente per governare.
Non per esporre bandierine, per tentare ossessivamente di strappare qualche ipotetico voto in più. Tutti vogliamo un Parlamento rappresentativo, e ricco delle diversità proprie della società italiana. Noi restiamo fedeli all’alleanza stretta davanti agli elettori anche con le forze della sinistra radicale, che vediamo impegnate per la stabilità del governo, ma vogliamo che l’Unione non sia più prigioniera di posizioni di astratto massimalismo. E vogliamo tenere aperta la possibilità di ampliare il centrosinistra a forze moderate, di quel centro riformatore che potrebbe sia guardare ad un significativo ingresso nel PD, sia concorrere a rafforzare il pluralismo dell’alleanza.
Voglio salutare qui il fatto politico più rilevante avvenuto dall’inizio della legislatura: la scelta pulita, responsabile, coerente con una lunga storia democratica e di moderazione compiuta da Marco Follini.
I numeri contano. Ma in certe stagioni conta altrettanto, e di più, una scelta politica. Serve a seminare, serve a costruire, serve a indicare una strada.

Rivolgendomi agli ospiti, benvenuti e graditi, del centrodestra, dico loro che indubbiamente nelle vicende degli ultimi tredici mesi spicca il recupero di consensi conseguiti da Silvio Berlusconi, cui va onestamente riconosciuto un temperamento di battaglia, nell’esercizio della leadership.
In parte, questo fatto ci ricorda che in politica si può sempre recuperare, come nel suo caso dal giudizio impietoso degli italiani sui risultati veramente negativi di cinque anni del suo governo. Ci troviamo di fronte oggi a più e differenti opposizioni parlamentari. La linea dell’UDC di Casini e Cesa ha saputo ad esempio anteporre, sulla politica estera e il rinnovo delle nostre missioni militari, l’interesse del Paese a disegni faziosi di corto respiro. Gliene diamo atto volentieri.
Ma non vediamo affatto chiarezza strategica nelle forze dell’altro campo politico, come è emerso anche nel corso delle consultazioni recenti al Quirinale, nelle quali ciascuno dei quattro partiti ha sostenuto una posizione diversa.
Tuttavia, noi vi tendiamo la mano, perché vorremmo che questa legislatura fosse l’ultima di una contrapposizione senza quartiere. La prima di un confronto ordinato, regolato, civile. Senza fare commistioni di ruoli: così si fa l’interesse del popolo italiano.
Io credo che la nascita del Partito Democratico ci attribuirà la leadership dell’innovazione politica.
Ci farà guidare la riorganizzazione del sistema. Indurrà il centrodestra a inseguire.
Ma noi partiamo con un vantaggio: abbiamo già un enorme lavoro di collaborazione e di integrazione alle spalle: abbiamo gruppi unitari sia alla Camera che al Senato, in Consigli regionali, provinciali, comunali; una elaborazione comune, campagne elettorali sotto lo stesso simbolo nel 2004, nel 2005, nel 2006.

Il Congresso della Margherita e quello dei DS, il processo nascente del Partito Democratico sono in rapporto strettissimo con i risultati del governo.
Se il governo non andasse bene, ne risulterebbe azzoppato il processo che abbiamo in corso: troppo forte è l’investimento sul cambiamento politico che hanno fatto i nostri elettori (i due terzi degli elettori dell’Unione) perché un risultato non positivo possa essere sostituito dalla definizione di programmi e obiettivi futuri. Specularmente, abbiamo scongiurato che un blocco del processo di nascita del PD togliesse al governo la spinta unitaria e strategica che dev’essere prodotta dall’asse riformatore della coalizione.
Il governo sta centrando i suoi risultati. Ha assunto la crescita dell’economia come traguardo cruciale. Come missione della legislatura. E gli indicatori confermano che il vento della ripresa potrebbe consolidarsi: l’economia è tornata al 2% di crescita annua, il deficit è sotto controllo, l’inflazione è stabile, c’è un inizio di recupero di competitività e ripresa delle esportazioni, favorito anche dalle buone prestazioni internazionali e dai buoni risultati della Germania, prosegue il calo della disoccupazione.
Se voi mi chiedete “qual è la priorità per il paese”, io rispondo risolutamente: la crescita dell’economia. Occorre rendere stabile la crescita dell’economia perché crescano le opportunità per tutti.
Ora occorre affrontare con determinazione e coraggio i ritardi strutturali del Paese, la crisi di competitività che ci ha fatto perdere posizioni nel mondo. È un’iniezione di fiducia che deve accomunare la Nazione, i lavoratori, le famiglie. E l’intero sistema produttivo. I sindacati, le medie aziende, la cooperazione, i professionisti, il popolo delle partite IVA; lo dico chiaramente: senza un recupero tra le piccole imprese, che fanno la ricchezza dell’Italia, il centrosinistra finirebbe presto minoranza nel paese, non solo al nord.

La crescita dipende in misura rilevante dalla vitalità delle imprese, dalla capacità di innovare, dalla disponibilità agli investimenti esteri.
In una parola, dallo stato di salute del capitalismo italiano. Che interessa il governo – che ha destinato risorse cospicue al rilancio competitivo delle aziende – e interessa noi della Margherita.
Noi che da liberali, da cattolici democratici, da ambientalisti, certo non siamo un partito anticapitalista. Non impartiamo lezioni, non condividiamo giudizi sprezzanti.
Richiamiamo piuttosto, come in tutte le democrazie liberali avanzate, la responsabilità sociale delle imprese (e forse qualche rigore in più su mega compensi e stock option che talvolta appaiono fuori controllo e indifferenti alle fortune di azionisti e dipendenti).
La decisone di Pirelli di cedere il controllo su Telecom ha riaperto la discussione sullo stato di salute del nostro capitalismo.
E’ in gioco il destino della più grande impresa privata italiana. Un destino che ci riguarda tutti, anche perché la rete TLC è il sistema nervoso della nostra economia.
Il governo non interferisce, si limita ad occuparsi delle regole, lascia al mercato la soluzione dell’assetto proprietario dell’azienda.
Anche su questa dichiarazione di principi liberali, non accettiamo lezioni. Ma vediamo bene le questioni che la vicenda ha fatto emergere. La questione del bilancio delle privatizzazioni avviate oltre dieci anni fa. Rivendichiamo quella scelta cruciale per la modernizzazione del Paese e l’aggancio all’Euro. Non ci nascondiamo i limiti che la lunga scia delle decisioni prese allora ha fatto venire alla luce. Ma voglio dire forte e chiaro che certi limiti non possono costituire un alibi per qualunque ipotesi di ripublicizzazione.
E più in generale è forse venuto il tempo di mettere anche le imprese italiane di fronte alla necessità di ridiscutere le regole che contribuiscono a rendere asfittico il nostro mercato dei capitali e che consentono il cosiddetto gioco delle scatole cinesi.
Ma vi pare possibile, con tutta l’apertura verso gli investimenti stranieri, che mentre Enel per acquisire il controllo di Endesa debba mettere sul piatto oltre 30 miliardi qualcuno possa acquisire il controllo di Telecom (che certo non è meno importante) con un decimo di quella cifra?
Non mi pare proprio l’apoteosi del mercato. Certo non lo è per le migliaia di azionisti che non si collocano al vertice ma alla base della piramide azionaria di Telecom.

Oggi dobbiamo rispondere a una fondamentale domanda: perché, se il contesto economico sta migliorando, il sentimento diffuso non è ancora di ritorno alla fiducia?
E’ solo colpa di una difficoltà di comunicazione, come spesso sentiamo dire?
Non solo, certamente. Ma prendiamoci una parte di responsabilità che ci spetta.
Dobbiamo indicare con molta più nettezza agli italiani la direzione per l’economia. I traguardi chiari, netti, comprensibili per tutti.
Ma poi dobbiamo tradurre i seri e positivi obiettivi che ci diamo in parole chiare. Il prossimo che parlerà di “cuneo fiscale” anziché di “tasse sul lavoro” verrà additato al pubblico scherno. Se non lo troviamo noi, l’Accademia della Crusca deve indicarci come tradurre in italiano “ammortizzatori sociali”.
E se pensiamo di spiegare la sostenibilità del sistema pensionistico a furia di “coefficienti di trasformazione” sarà lecito chiamare il medico.
Poiché so che non posso limitarmi a questa critica, mi prendo la responsabilità di un ragionamento e di una proposta sulle priorità dei prossimi mesi, in cui dobbiamo destinare alla riduzione del debito e al ritorno a un solido avanzo primario molti frutti derivanti dalle maggiori entrate, ma in cui dobbiamo realizzare almeno altri due maggiori risultati: iniziare a ridurre la pressione fiscale, e trasmettere agli italiani la certezza che dal risanamento dei conti pubblici possono ricevere dei benefici.
Ripeto: noi pensiamo che occorra dare a chi ci ha votato e vuole ristabilire piena fiducia verso il centrosinistra, ai larghi ceti medi e popolari del Paese, il senso della direzione della nostra politica – la strategia per finanze sane, competitività, innovazione, migliore scuola, formazione e ricerca – e, allo stesso tempo, il senso di un’attenzione sociale concreta, perché in Italia troppe persone vivono con stipendi bassi e con pensioni insufficienti. Perché ci sono troppi dibattiti generici sulle famiglie mentre siamo il paese che rende più costoso e più difficile per chi ha un reddito medio avere dei figli e quasi proibitivo per tutti avere più di due figli.
Siccome la nostra linea non è quella della demagogia e dell’irresponsabilità – non abbiamo nostalgia degli anni della spesa e del debito fuori controllo – e siccome la peggiore ricetta sarebbe quella di una pioggia di piccoli ritocchi in cento direzioni, suggeriamo al Governo, come ho già fatto con il premier e con i Ministri che hanno competenze nel settore, di scegliere una linea di priorità e impegnarsi a spiegarla bene ai cittadini.
In Italia, oggi, oltre l’80% delle famiglie è proprietario della prima casa. Resta un problema, serio, di precarietà e impossibilità di un abitare civile per molti cittadini, in quanto gli affitti sono sempre più cari e l’acquisto di una casa è inaccessibile per chi ha redditi bassi o discontinui.
Ma le rigidità che derivano dalla crescita dei valori immobiliari si scontrano anche con attese di flessibilità proprie di famiglie in cui non si trovano soluzioni per i ragazzi che iniziano il lavoro o vogliono creare una famiglia, per gli anziani soli, per le varie esigenze legate alla frammentazione e alla mobilità delle strutture sociali.
E dunque il problema dell’abitare torna centrale, e parla a tutte le famiglie italiane: riguarda il piccolo imprenditore artigiano come il dipendente pubblico, il commerciante come il giovane precario, i single e le famiglie numerose.
Per questo, noi proponiamo al Governo di concentrarsi su un programma per la casa degli italiani sin dalle prossime settimane, di cui indico qui alcuni titoli: via l’ICI della prima casa; tassazione secca del 20% sugli affitti (che porterà certamente più abitazioni sul mercato attraverso l’emersione) il cui gettito passi interamente ai Comuni, compensandoli della perdita dell’ICI.
Un piano per la casa di tipo nuovo, concordato con regioni ed enti locali, con l’obiettivo di immettere sul mercato nuove offerte, specialmente in locazione per combattere il disagio abitativo e dare più flessibilità al sistema (pensiamo anche agli ex-edifici della Difesa per creare alloggi per studenti) ma sempre col dovere di integrare situazioni differenti, per non creare più ghetti o realtà separate.
Risultati: una riduzione importante della pressione fiscale a valere sulla priorità-casa. Crescita dell’autonomia finanziaria dei Comuni e loro responsabilizzazione per gestire le politiche dell’abitare con risposte specifiche per il loro territori. Piani finalizzati delle Regioni per costruire, ristrutturare, utilizzare meglio i patrimoni.
Ecco un indirizzo strategico, cui destinare parte delle risorse dell’extragettito. Secondo noi, ne verrà consenso al Governo e il senso di una direzione virtuosa nei conti, utile per lo sviluppo, attenta al sociale.

Ho fatto prima riferimento alla più grande scuola di formazione del Paese: i Comuni, le Province, le Regioni; il servizio ai cittadini sul territorio.
Molti tra i presenti possono raccontare infinite storie vissute in prima persona per aiutare a capire cosa intendo per cultura di governo del Partito Democratico.
Cosa è stata infatti, care amiche ed amici, l’esperienza che alcuni e, via via, migliaia di noi hanno intrapreso dalla fine del ‘93, se non una effettiva anticipazione di quello che oggi si concretizza nel Partito Democratico?
Abbiamo realizzato con i fatti, con i risultati, un comune sentire. Che, nel senso concreto del termine, costituiscono testimonianze, spesso silenziose, frutto della qualità di un lavoro paziente e in squadre operose. Quando ad esempio iniziammo la preparazione dei lavori per il Giubileo, di fronte alla prospettiva di migliaia di cantieri concentrati in circa tre anni, io dissi ai miei collaboratori: andate a visitare un monumento. Si trova nello Stadio Olimpico. È la lapide che ricorda i morti sul lavoro nella preparazione dei Campionati Mondiali di calcio del 1990: ben 24 vittime. Non dobbiamo ripeterlo.
Il nostro impegno, lo dico francamente, non fu per una nuova legge. Non per nuove sanzioni. Non centrata su interviste. Furono decine di riunioni con il Prefetto, con gli ispettori del lavoro, quelli delle ASL. Per potenziare i controlli. Renderli generalizzati, senza guardare in faccia nessuno; e coordinati, nel senso di non intervenire più volte prendendo di mira lo stesso cantiere mentre se ne trascuravano decine di altri. Il risultato: non ci fu neppure una vittima del lavoro nei cantieri di Roma per il Giubileo.
Quelli che ci piacciono, amiche ed amici, sono i Sindaci che ascoltano e faticano.
Molto meno quelli che organizzano fiaccolate populiste per soffiare sul fuoco delle paure dei cittadini.
Vedete, se qualcuno chiede perché a Reggio Emilia il Partito Democratico punti a raccogliere la maggioranza assoluta dei voti, è perché in questi decenni di “Giunte Rosse” – e oggi di un bravo sindaco della Margherita – si è fatto funzionare le scuole materne e gli asili, i servizi, i trasporti, il teatro. Questo è il centrosinistra che sa raccogliere la fiducia dei cittadini, questo vogliamo che sia il Partito Democratico al servizio degli italiani: il partito più radicato nel territorio.
Ho citato i teatri di Reggio, e voglio sottolineare, non solo per riferirmi a questa parte che tanto amo del mio lavoro nel governo, quanto le politiche per la cultura, giudicate – a lungo e così a torto – marginali sono invece fattore insostituibile di sviluppo e anche di competitività per il Paese.
Chi riflette sulla sfida di rinnovare l’identità profonda della nostra Patria sa che poche vie sono decisive come l’arte, il patrimonio, il paesaggio, per ritrovare la dignità e la forza anche simbolica di una Missione nazionale integrata con la capacità dell’accoglienza turistica, lo sviluppo dei servizi, la moltiplicazione delle imprese, motivazioni creative per le giovani generazioni.
Voglio citare l’azione rigorosa – in nessun modo da presentarsi come nemica della modernizzazione e della qualità delle trasformazioni – che abbiamo intrapreso per la tutela del paesaggio italiano, sottoposto ad aggressioni dozzinali e irresponsabili.
Così come la campagna aggressiva per il recupero di centinaia di capolavori trafugati dall’Italia: un riscatto necessario, dopo le stagioni dell’incuria verso il patrimonio, della complicità verso l’illegalità, dell’indifferenza verso valori che oggi siamo tornati a riconoscere, se è vero che le città italiane oggi competono, ancor prima che per ospitare una fabbrica, per accogliere una grande mostra, un festival del teatro, per organizzare un itinerario di conoscenza e scoperta civile.
E se ho proposto di tenere qui questo congresso, nel mitico Studio 5 di Cinecittà dove i più grandi maestri – tra cui Federico Fellini – hanno creato i loro capolavori, è perché questo è luogo di industria avanzata, di lavoro e artigianato qualificato, di talenti creativi, di innovazione incessante.
E se è una gioia immensa salutare i nostri cineasti che tornano ad avere non solo l’attenzione della critica, ma grandi successi di pubblico (non accadeva da 30 anni quel che sta accadendo nel 2007, con il 40% degli incassi che vanno a film italiani; film popolari, film di qualità), è un impegno quello che a nome del Governo io prendo qui davanti a voi, per la nuova legge sul cinema, per la nuova legge sullo spettacolo. Per una svolta che resti duratura, dopo gli anni in cui, con il Governo precedente, abbiamo visto le donne e gli uomini della cultura costretti a manifestare, sotto l’ironica leadership di Roberto Benigni, per mettere fine all’impoverimento e alla depressione delle grandi realtà del cinema, del teatro, della danza, della lirica, della musica italiana!
Questo è il sogno italiano che vuole tornare a vivere e vuole rendere l’Italia più che mai amata nel mondo.

E’ necessario ora guardare al quadro più largo.
All’orizzonte delle alleanze e delle collaborazioni europee e internazionali. Ricorderanno alcuni tra voi i tre traguardi che, nella prospettiva di preparare le condizioni per la nascita del Partito Democratico, posi nell’estate del 2005: accanto alla nettezza dell’autonomia nel rapporto tra politica, economia, soggetti sociali; accanto al pluralismo delle culture, anziché le esasperazioni identitarie ed intolleranti, noi indicammo un nuovo approdo nelle alleanze europee ed internazionali.
Questo Congresso ci indica che abbiamo percorso un sorprendente tratto di strada. Guardate, innanzitutto, alle autorevoli delegazioni presenti.
Ai nostri amici del PDE, dieci partiti europei che concorrono a formare, nel gruppo dell’Alleanza dei Democratici e Liberali Europei, la terza realtà del Parlamento Europeo, in continua espansione, oggi giunta a 106 deputati.
Ai rappresentanti del Partito Democratico degli Stati Uniti, del Partito del Congresso Indiano, del Partito Democratico giapponese.
A Peter Mandelson, Pasqual Maragall e a Graham Watson, leader dell’ALDE in Europa.
A grandi combattenti per la libertà e la democrazia: a chi l’ha conquistata e se la tiene stretta, come la Democrazia Cristiana del Cile, a chi l’ha perduta e vuole riconquistarla, come Maung Maung, il Segretario Generale del partito di Aun Sun Suu Khy ancora costretta agli arresti domiciliari; il leader del Partito Democratico Tailandese; il leader dell’opposizione cambogiana.
A chi vuole una democrazia libera dal terrorismo e dalle guerre, come il Premier del Kurdistan Irakeno e leader del Partito Democratico Kurdo Massud Barzani e come Shukria Barakzai parlamentare afgana del primo Gruppo Democratico e Progressista non formato né su base regionale, né su base etnica.
Ringrazio il Primo Ministro d’Israele Ehud Olmert del partito di Kadima e il premio Nobel per la Pace Mohamman Yunus inventore del Microcredito che ci saluteranno con un loro messaggio video.
Con i nostri ospiti ci riuniremo domattina per consolidare il nostro network, l’Alliance of Democrats: un serio contributo per guardare non al passato ma al futuro.

Tra tanti ospiti illustri, amiche ed amici cari, ce n’è uno che ci manca. Ma sappiamo che ha davvero molto da fare. È stato a Roma con noi pochi mesi fa, e non ha trovato molti giornalisti pronti ad intervistarlo, quando abbiamo tenuto il Congresso annuale del PDE, con la presidenza d’onore di Romano Prodi.
È uno straordinario, creativo, tenace, leader politico. È il più coerente europeista di Francia. È fondatore e co-Presidente del PDE.
François Bayrou, candidato dell’UDF nelle Presidenziali, è stato protagonista di un’incredibile crescita nell’opinione francese, e fino all’ultimo giocherà la sua battaglia anche se tutti sappiamo che le condizioni erano, e sono, difficilissime. François ha seminato bene. Non possiamo prevedere come in questo fine settimana si concluderà il primo turno delle Presidenziali. Ma a lui va il riconoscimento dell’apertura di una nuova frontiera riformista in quel sistema politico.
Mi dispiace molto che l’appello di importanti personalità socialiste francesi – tra questi, l’ex primo ministro Michel Rocard – che hanno proposto un’alleanza tra socialisti e UDF in vista del secondo turno sia stata rigettata dai dirigenti socialisti.
Questa alleanza è proprio quello che noi proponiamo in Europa. Aspettiamo e vedremo. Ma, soprattutto, lavoriamo per costruire un cammino nuovo.
Vedete: io non ho risposto alle polemiche gratuite e non convincenti di alcuni dirigenti del socialismo europeo, che hanno sostenuto che in Europa, come nella circolazione stradale, ci sarebbero solo la destra e la sinistra. Non è vero, e lo ha capito, in Italia, da più di dieci anni chi ha animato il progetto dell’Ulivo: che non vi sarebbe mai stata in Italia un’autosufficienza politica ed elettorale della sinistra e che solo attraverso l’incontro di culture diverse si sarebbero creati fatti e speranze nuove, maggioranze di centrosinistra nel paese. Noi non abbiamo chiesto, e non chiederemo mai alla sinistra democratica di rinunciare ai propri valori e al proprio legittimo orgoglio per le tante conquiste assicurate al popolo italiano. Se lo facessimo, faremmo un torto all’Italia e un danno a noi tutti. Ma solo con il dialogo tra i migliori riformismi e la fine di ogni proposito di egemonia in questo paese si sono sprigionate nuove energie, e si rende oggi possibile far nascere il PD.
Non molto diverso, senza che alcuni dirigenti e funzionari del PSE mostrino di accorgersene, è quanto sta avvenendo in Europa.
Osservate questi diagrammi, che documentano rispettivamente la consistenza di tutte le sinistre nel Parlamento Europeo negli ultimi tredici anni, che hanno segnato il grande allargamento dell’UE; il decremento della presenza del gruppo socialista; il rapporto tra i conservatori del PPE, il PSE, e l’ascendente presenza dell’ELDR, oggi ADLE.
La nostra linea è semplice: l’ingresso nel PSE è impossibile per la Margherita, e sarebbe una riduzione delle opportunità, non una crescita, anche per il Partito Democratico.
Ma noi vogliamo allearci con il PSE; insieme con il PSE vogliamo portare le forze europeiste, riformiste, innovatrici verso un nuovo orizzonte. Dopo questo Congresso, avremo due anni di tempo per costruire questo nuovo e più largo approdo.
Sono certo che la crescente collaborazione con i Democratici Americani – che guardano con reale interesse alla nascita del PD – con il Partito del Congresso Indiano e con altre forze riformatrici che non aderiscono all’Internazionale Socialista rafforzerà i pilastri delle libertà e delle battaglie per un mondo sicuro, pacifico, giusto, governato con il multilateralismo, capace di vincere le sfide per il clima e l’ambiente globale, per i diritti umani, per la sconfitta del terrorismo fondamentalista, per il dialogo che fa crescere la democrazia anziché lo scontro suicida tra le civiltà.
Noi, occidentali, noi, amici e alleati dell’America nel polo della democrazia atlantica, noi multilateralisti, noi italiani che viviamo nel cuore del Mediterraneo, noi possiamo e dobbiamo svolgere una funzione di equilibrio, di dialogo, di integrazione. Non dimenticate che è stata l’Italia, l’Italia del governo di Prodi e D’Alema, ad essere chiamata a portare un contributo decisivo per avere più sicurezza al posto della guerra tra Israele e Libano. L’Italia che prende le sue responsabilità. Con la sua politica. Con i suoi soldati. E anche con i suoi volontari.
Non c’è futuro dell’Italia fuori dall’Europa. Il Partito Democratico nasce su un patto tra europeisti. Nel nome di Alcide De Gasperi e anche di Altiero Spinelli. Grazie all’impegno di Romano Prodi e Carlo Azeglio Ciampi. E, oggi, grazie alla testimonianza rigorosa, lineare, appassionata del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Noi vogliamo essere più rispettati in Europa, più influenti in Europa, più utili all’Europa e dunque più utili anche all’Italia. A 50 anni dalla firma dei Trattati di Roma, rivendichiamo lo spirito dei fondatori, ma soprattutto l’urgenza di capire la crisi di oggi, la distanza delle istituzioni europee dal demos europeo.
Vogliamo dunque istituzioni efficienti, un Presidente del Consiglio europeo in carica per almeno due anni, il Ministro degli esteri della UE e le altre riforme indispensabili nell’Europa a 27. Ma vogliamo politiche europee che i cittadini capiscano e, se non saranno in 27 a condurle – pur restando aperte a tutti le porte – come è avvenuto per l’Euro e per Schengen saranno condotte da chi crede a un nuovo avanzamento del processo europeo: politiche per la difesa e la sicurezza, per il contrasto del traffico di persone umane, per l’energia, per le politiche sul clima e l’ambiente.

Ripetiamo spesso che il Partito Democratico sarà il partito delle giovani generazioni, del ricambio nella politica, di una nuova stagione di impegno per le ragazze e i ragazzi d’Italia.
È giusto dirlo, è giustissimo battersi per raggiungere questo obiettivo. Credo però che su questo punto dobbiamo essere onesti. Noi lavoriamo e lavoreremo per creare le condizioni di un partito aperto, disponibile, un partito che può essere “conquistato” dai giovani chi vi aderiranno liberamente.
Ma la nostra generazione non può chiamare a raccolta i giovani, come in un bando di reclutamento, in una chiamata alle armi. Per questo voglio rivolgere alcune parole alle ragazze e ai ragazzi italiani. Una specie di sms dal palco di questo congresso.
Noi tutti siamo corresponsabili di una politica che non è riuscita a entusiasmare, a trasmettere valori, a coinvolgere i nostri concittadini che hanno meno di trenta anni.
Penso che dovremmo provare a capovolgere questo assunto, e a dire alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi, semplicemente: a voi sta bene come vive la vostra generazione?
Vi sta bene di essere tanto più lenti nell’ingresso nella vita attiva rispetto ai vostri coetanei di ogni paese moderno? Su oltre cinquemila nominativi delle “persone che contano” in Italia, solo il 5 per cento è sotto i 40 anni. Negli Stati Uniti, nei grandi paesi europei, a quell’età bisogna già impegnarsi per resistere alla concorrenza di chi è più giovane. Significa che le ragazze e i ragazzi italiani partono già tagliati fuori, e non certo per i loro demeriti.
L’età media dei ricercatori con contratto regolare, in Italia, è di cinquant’anni.
Ancora: vi sta bene di essere tanto dipendenti dalla vostra famiglia, e di essere così condizionati dai vostri punti di partenza: la famiglia e la città nella quale siete nati, il ceto dal quale venite? Un giovane che nasce da una famiglia di operai ha in Italia più del doppio delle probabilità di rimanere operaio egli stesso, rispetto a un coetaneo inglese, francese, tedesco, americano. Mentre i figli di famiglie benestanti in Germania o in America hanno tre volte meno la probabilità di esserlo – poiché lo debbono ai propri meriti – rispetto ai figli dei benestanti italiani.
Più di sei italiani su dieci sono convinti che solo con amicizie e raccomandazioni si va avanti nel lavoro, che il merito non conta nulla. Non abbiamo fatto abbastanza per far loro cambiare idea.
Ragazze, ragazzi, vi sta bene che l’immagine di voi che passa sui giornali, in televisione, nel mondo “adulto”, sia l’immagine di una generazione che si butta via? Che non rispetta se stessa, i luoghi dove studia, i propri coetanei magari più fragili, che non rispetta i beni pubblici intorno a sé?
Io non credo che la scuola italiana sia proprio come appare dai filmati ripresi coi telefonini. Ma sta anche a voi dimostrarlo.
A quanti tra voi non piace un sistema che vi contempla solo come manodopera a basso costo, da un contratto precario all’altro, mentre protegge quelli che sono arrivati, e sono già garantiti?
Non stupisce che più del 70% dei nostri giovani, in questa situazione, preferirebbe una piccola occupazione sicura pagata poco, piuttosto che rischiare, cambiare posto di lavoro con la prospettiva di guadagnare di più.
Non stupisce, ma è un dato drammatico per il futuro della nostra società.
E allora ragazzi, se tutto questo non vi sta bene, è giusto che sappiate che la responsabilità di combattere questo stato di cose spetta certamente a noi, la politica. Che altrimenti dichiarerebbe il proprio fallimento. Al Partito Democratico. Che vuole rimettere in moto l’ascensore sociale, rimettere in moto la mobilità sociale in Italia.
Ma sarei insincero e scorretto se non dicessi che il cambiamento è in gran parte nelle vostre mani.
Dovete farlo voi, senza aspettarvi paternalismo, né elargizioni; e dovete farlo con le uniche armi che avete a disposizione. Le armi della politica democratica, dell’impegno civile in prima persona.
Io vi dico: prendetelo, questo Partito democratico. Venite qui dentro a fare la vostra battaglia. Anche contro i nostri ritardi, le nostre insufficienze, i nostri limiti.
Organizzatevi, come ritenete opportuno di farlo, più e meglio di quanto non lo siano già i giovani che si sono organizzati dentro la Margherita e dentro i Ds.
Imponete con la battaglia politica i vostri temi, il vostro punto di vista, le vostre priorità.
Nessuna generazione al mondo ha cambiato le cose attendendo che il cambiamento lo portasse qualcun altro.
Per questo io dico: la vostra battaglia per cambiare una società che non funziona è qui dentro, nel Partito Democratico che nasce. Nel Partito democratico la vostra linea, le vostre idee, diventeranno non una testimonianza utopica od estremista, non uno sfogo minoritario, ma dovranno essere al centro della linea e delle idee del più grande partito italiano.

Volete ancora una, ma – vorrei dire – persino una sola ragione, semplice, urgente e affascinante, per cui nasce il Partito Democratico? Si chiama ambiente.
È la sfida più ambiziosa ed impellente che l’intera umanità si trova ad affrontare oggi. In un mondo che diventa sempre più piccolo, non diminuisce la portata dei problemi di fronte a noi. I cambiamenti climatici, lo sviluppo sostenibile, l’energia e le risorse naturali del pianeta, ma anche la vita quotidiana di ognuno di noi.
Le persone discutono della scomparsa dell’inverno, della fioritura anomala e precoce nei giardini, della tropicalizzazione del clima. Uragani nel cuore dell’Europa. Ghiacciai eterni che si ritirano. Il nostro Po in secca.
Trasformazioni epocali, che vinceranno solo mettendo in campo qui e ora progetti credibili. L’ambiente globale influenzerà il XXI secolo non meno dei nuovi scenari della globalizzazione o delle dinamiche della popolazione.
Se ne sono accorti i leader progressisti di tutto il mondo, da Tony Blair a Lula, da Barack Obama a Bill Clinton e Al Gore. Così come Angela Merkel. E, in alcuni casi, anche esponenti conservatori come il governatore della California Arnold Schwarzenegger.
Ne ha scritto bene pochi giorni fa Thomas Friedman sul New York Times: “Non si tratta soltanto di una contrapposizione tra chi ha e chi no, ma tra presente e futuro, tra la generazione di oggi e quella dei nostri figli e nipoti”.
Per vincere quella che potrebbe essere la più spaventosa delle guerre che questo pianeta ha conosciuto abbiamo bisogno di tre cose: consapevolezza, visione e concretezza.
Consapevolezza significa che siamo costretti a fare i conti con alcuni dati di fatto inoppugnabili. Quelli, drammatici, presentati all’ONU dall’IPCC: entro il 2020 potrebbe sparire circa il 20-30% delle specie vegetali ed animali, a causa dell’innalzamento della temperatura. Aumenteranno di estensione le aree colpite da siccità e i rischi di inondazione. Entro il 2020 tra i 75 e i 250 milioni di persone in Africa avranno insormontabili problemi idrici. Le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo si confronteranno con l’aumento della malnutrizione e dei rischi di malattie infettive e respiratorie.
Non è catastrofismo. E’ catastrofico non misurarsi con essi, fare finta di nulla.
Visione significa avere ben presente interdipendenze ed interconnessioni della contemporaneità. E lavorare, utilizzando le straordinarie possibilità aperte dalla tecnologia, per ridurre fortemente la dipendenza dal petrolio e, più in generale, dalle fonti fossili. Impegnarci con maggiore decisione sul fronte della riduzione delle emissioni di gas serra, secondo quanto previsto dal protocollo di Kyoto. Ridurre del 20% al 2020 le emissioni di CO2, come prevedono gli obiettivi europei. O alzare questo obiettivo al 60% per il 2050, come vorrebbe il governo inglese, che oggi forse è all’avanguardia in Europa su questa frontiera.
Concretezza significa declinare queste sfide nel contesto del nostro territorio, in un paese come il nostro in cui il tema della salvaguardia ambientale si pone con particolare urgenza. Così come la lotta contro l’illegalità e l’abusivismo edilizio, il dissesto idrogeologico, l’inquinamento e le politiche insostenibili dei trasporti: quei cambiamenti portano anche benefici economici importanti.
Il nostro sforzo, per citare Italo Calvino, deve essere proprio quello di “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Puntando sulla straordinaria bellezza dell’Italia, sul suo patrimonio unico, sulla qualità che dev’essere il nostro biglietto da visita nel mondo, sui saperi e i talenti di un territorio profondo che è fatto di quei piccoli comuni che stiamo lottando per tutelare e valorizzare.
E’ una battaglia, per tutta la comunità, fatta di interventi legislativi e piccoli gesti di ogni giorno. Modificare le incentivazioni delle fonti rinnovabili, semplificare le procedure autorizzative, puntare decisamente sui mezzi e i sistemi di trasporto meno o non inquinanti. Migliorare concretamente la vita delle persone. Come è possibile, ad esempio, che le tecnologie dei telefonini che usiamo con perizia ogni giorno non possano essere utilizzate per migliorare la mobilità nelle nostre città? Che la nuova edilizia residenziale non obbedisca a requisiti minimi di qualità e sostenibilità ambientale, oltre che di integrazione per le persone disabili o non autosufficienti?
Scommettere su una alleanza, un patto tra saperi, ricerca, innovazione, talenti e risorse del nostro territorio, dal patrimonio storico e culturale all’agricoltura di qualità e al “made in Italy”: questa è la sfida per l’ambiente del Partito Democratico.
Le culture politiche del secolo scorso non avevano e non hanno gli strumenti concettuali, una cassetta degli attrezzi che consenta di offrire risposte all’altezza dei rischi globali e delle opportunità di progresso e convivialità legate all’ambiente.
Anche questa è una ragione profonda per cui abbiamo bisogno del Partito Democratico.

Non mi occorrono molte parole, care amiche ed amici, per affrontare un tema che apparentemente dovrebbe essere tra i più controversi, se non scandalosi, nel dibattito politico.
Io contesto l’estremizzazione che alcuni hanno promosso per dare agli italiani l’idea che ci troviamo di fronte ad una grave minaccia: un processo di clericalizzazione della politica italiana.
Questa posizione estrema ha già prodotto intossicazioni intollerabili, e anche alcune reazioni sproporzionate, quasi che ci si trovi, di converso, davanti a un disegno di “scristianizzazione” dell’Italia. Noi dobbiamo riaffermare semplicemente e fermamente la chiarezza e la pulizia della distinzione laica delle responsabilità tra poteri pubblici e religione.
Confermare il rispetto profondo che le istituzioni hanno verso la fede delle persone e verso la Chiesa Cattolica e le organizzazioni religiose, che sono parte irrinunciabile della ricchezza morale e civile di una comunità: “Una rete di popolo – come ha scritto Andrea Riccardi – in mezzo al nostro Paese”.
Nel discorso pubblico, sono laici i non credenti, laici i credenti. Nella responsabilità politica è alla sintesi che siamo e saremo chiamati.
Sono certo che il Partito Democratico darà, proprio attraverso l’incontro di sensibilità, culture, esperienze la temperatura giusta al dibattito sulla laicità e un contributo decisivo al pluralismo. Non c’è nessun bisogno di ricercare minoritarismi, ma di praticare grande libertà e tolleranza.
Del resto, è una sfida mondiale, quella della tolleranza, di fronte al riaffacciarsi imprevedibile, sino a pochi anni fa, delle minacce di fondamentalismi, violenze a base religiosa, intimidazioni alla sfera religiosa.
Voglio raccontarvi quel che mi disse Giovanni Paolo II, in uno degli ultimi incontri, quando si affacciava il rischio della guerra in Iraq. Una guerra che, voglio ricordare, egli tentò personalmente fino all’ultimo di arginare: conservo la foto donatami dal Cardinale Etchegarray del suo incontro con Saddam Hussein, a poche ore dall’invasione dall’Iraq; l’ultima foto del dittatore al potere.
Il Papa aveva tentato vanamente, nell’anno del Giubileo, un pellegrinaggio a Ur dei Caldei, sulle orme di Abramo: gli fu impedito dal regime di Bagdad. Ma mi disse che quel che più temeva, persino oltre le sofferenze della guerra, era il rischio imminente del riaccendersi di guerre a base religiosa; che non sarebbero state più solo un ricordo delle carneficine e del buio del XX secolo.
Ecco: rifletta bene la nostra comunità nazionale sulla responsabilità politica che abbiamo – e che non attiene a una coalizione, un partito, e neppure al governo – nel garantire il ruolo dell’Italia come paese della tolleranza religiosa, del dialogo tra confessioni, del contrasto al fondamentalismo, nemico della laicità come della fede, e dell’impegno per la reciprocità dell’esercizio libero dei culti religiosi.
E’ una responsabilità che sta nella storia di questo nostro paese e credo che un’attenzione di tutto lo schieramento politico a problemi veri e seri come questi potrebbe aiutarci a disinnescare polemiche interne antistoriche e improduttive.
Per altro, quello che a molti sfugge nella foga polemica, riferendoci ai temi della bioetica, è che quando nei referendum di due anni fa tre italiani su quattro si ritrassero dal voto, non fu per una risposta a richieste della gerarchia cattolica. Ma concorrendo ad esprimere il disagio che attraverserà tutto questo nuovo secolo: la richiesta alla politica di dirimere, attraverso un lavoro paziente, competente, eticamente avvertito, questioni straordinariamente e sempre più complesse.
È bene rifletterci, perché sarà questo un primario compito laico della politica: conoscere, regolare, stabilire indispensabili equilibri tra la libertà della scienza, gli sviluppi della tecnologia, e le precauzioni legate ai fondamenti della vita umana.
L’umanesimo democratico del XXI secolo si misurerà, ad esempio, sulla maniera di trattare il patrimonio genetico della persona: in vendita, a vantaggio di un traffico di informazioni destinato a favorire interessi economici e a regolare polizze di assicurazione a svantaggio dei più poveri, oppure a costituire un patrimonio di ricerca e di innovazione a beneficio di tutti?

Siamo pronti ad unirci, oggi, con i Democratici di Sinistra.
Domani, allargando, e molto, il campo delle adesioni fuori dai nostri partiti, in un dialogo con altre forze che raccolgano la sfida dell’aggregazione con le insegne del PD.
Alcuni ci ammoniscono: siamo sicuri che la somma sarà positiva? Non si perderanno per strada dei consensi?
Abbiamo tempo sino alle elezioni politiche per la risposta. Vi dirò: io credo probabile che dei voti si disperderanno. Ma, se saremo all’altezza, sono certo che molti nuovi voti si potranno conquistare.
È chiaro, agli elettori che hanno già votato l’Ulivo per la Camera dodici mesi fa diciamo: manteniamo l’impegno preso. E ricordo che questi elettori non hanno votato per la sinistra, non hanno votato i DS; né la Margherita.
Hanno votato, una volta di più, per l’incontro tra noi. Hanno votato da sinistra, hanno votato non essendo di sinistra. Hanno votato l’Ulivo.
Saremmo arroganti se chiedessimo ai Democratici di Sinistra di negare la loro storia e la loro cultura per l’appunto, di Democratici di Sinistra.
E al pluralismo di forze e personalità nella Margherita, nessuno potrà chiedere di diventare altro da sé: non a tanti esponenti di culture moderate che hanno concretamente concorso al nostro progetto.
In cosa ci troviamo effettivamente uniti? Anche in quello che Hannah Arendt chiamava, definendo la politica, “la capacità di dare inizio”. Noi iniziamo una storia nuova.
Se c’è qualcuno tra noi che immagini di poter esercitare una rendita di posizione, sbaglia. Se c’è qualcuno, tra i DS, che immagini di riproporre disegni egemonici, sbaglia. Trascorsa la fase di transizione, che sarà molto più breve di quel che molti pensano, saremo tutti parte di una storia nuova.
E saremo obbligati a costruire il futuro, pena l’insuccesso di un Partito Democratico che si dedicasse a rintracciare ragioni e divergenze del passato.
Non nasce per questo. Non ne vivrebbe.
Ha detto ieri giustamente Piero Fassino aprendo il Congresso dei DS: “Il PD serve a superare le nostre parzialità”. Per questo voglio rivendicare qui, per intero, il coraggio di quanti giungono a questa scelta. I DS, innanzi tutto. Una scelta di discontinuità, l’adesione a un progetto nazionale in cui è giusto rintracciare le ragioni più alte della storia e dell’esperienza delle pagine migliori del PCI, prima, della denuncia degli errori con le svolte successive alla caduta del Muro, poi.
Un riconoscimento a Romano Prodi (e a chi più gli è stato vicino, penso a Nino Andreatta come ispiratore dell’avvio, ad Arturo Parisi come protagonista di oltre dieci anni di impegno per l’Ulivo): si compie un processo per il quale porta non pochi meriti.
E un tributo a Democrazia è Libertà. Solo la nascita e il percorso coerente di questo nostro partito avrebbero potuto consentire questo risultato. Lo dico senza presunzione. Ma con vero orgoglio. Anche nell’unico momento di scontro e di rottura registrato al nostro interno, era il 19 maggio 2005, discutevamo aspramente, ma percorrendo questa stessa strada.
Fatemi citare qualche passaggio della più difficile relazione che ho tenuto all’Assemblea federale: «Non è la Margherita il fine del nostro progetto. La Margherita è uno strumento (…..). C’è qui qualcuno che pensa che noi possiamo aderire alle ipotesi dl partito riformista con approdo nel socialismo europeo? (….). Io penso che l’approdo più importante posto al termine del nostro cammino, quello in cui potrà un giorno sciogliersi la Margherita, è la nascita in Italia, in base ad un autentico “nuovo inizio”, di un Partito Democratico».

Il Partito Democratico sarà, dunque, il primo partito del XXI Secolo.
Ma come lo immaginiamo, il tempo che viene?
Cogliamo molto pessimismo tra chi si occupa di scenari e previsioni sociali. Non riusciamo a leggere se il secolo che nasce sarà dominato da economia e tecnologia; oppure, se tornerà prepotente il bisogno di senso nell’esperienza umana. Se dalle cose tangibili; o, anche nelle grandi masse, da valori e da culture che appaiono o si ridisegnano.
Se l’attenzione tornerà alla natura dell’uomo, anche alla luce della manipolabilità del vivente oppure alla trasformazione in un videogioco, in una “seconda vita” virtuale, dei volti dell’esistenza.
Il poco, o molto, che possiamo tentare di fare, è di ricostruire la dignità e la reputazione della politica. Arte del possibile, certo. Ma ancora di più, ormai, arte di governare la crescente pluralità dei soggetti, dei poteri, dei mezzi, degli interrogativi, delle possibili soluzioni.
Come potrà essere il Partito Democratico ?
Certo, noi ci ispiriamo alle storie di successo di chi, nelle difficoltà più gravi, ha saputo aggregare, unire, anziché dividere. E poi, naturalmente, ricominciare, nell’incessante sfida della democrazia: “dopo aver scalato un alto monte – disse Nelson Mandela – ci si accorge che davanti non hai che tanti altri monti da scalare”.
In questa sfida, c’è chi ha combattuto con sacrificio i totalitarismi: il nazismo, il fascismo, il comunismo. Grazie a loro l’Italia è libera, ed ha una Costituzione democratica; e l’Europa è unita, con quasi mezzo miliardo di persone che vivono in pace e libertà.
Eppure, il mondo non è in pace. Come possiamo tacere l’orrore e la violenza che fa migliaia di vittime nel Darfur, in Sudan, mentre restiamo impotenti?

Noi vogliamo essere quelli che uniscono, quelli che avviano le soluzioni.
Con la competenza, con il riformismo operoso; e con la passione, con le motivazioni di un pubblico servizio che vuole migliorare la vita delle persone.
Il PD sarà un partito-strumento. Il luogo dove confrontare idee e progetti.
Proporrà le grandi missioni dell’Italia del XXI Secolo.
Sarà democratico. Quindi ci sarà battaglia di idee. E sarà partecipato e non oligarchico. Aperto e non ristretto. Federale e non centralistico.
Sarà poliarchico, dunque. Ecco perché individuerà democraticamente, con il voto di tutti gli aderenti, il leader per competere al meglio. Ma non avrà un leader solitario: al contrario, una ricca e aperta classe dirigente di donne e uomini. Ribadisco: di donne e uomini. Il nostro partito non è stato all’altezza, non ha fatto un adeguato investimento sul contributo delle donne. Noi ci impegniamo perché con il PD si volti pagina.
Sarà il partito della modernizzazione dell’Italia. Perché il riformismo è realizzare i cambiamenti, anziché annunciare la rivoluzione e certificare la conservazione.
Sarà un partito popolare, radicato nel popolo. E dunque proporrà anche linguaggi popolari.
Sarà il partito del lavoro, della piena e buona occupazione, e del cittadino consumatore, prima che delle corporazioni.
Sarà il partito della politica, contro il trionfo annunciato dell’anti-politica, servente di tecnocrazie e poteri finanziari senza responsabilità generale; un’anti-politica aiutata, purtroppo, dai casi di corruzione, dalla complicazione e dalle inefficienze dei poteri pubblici.
Si è parlato in questi anni male, e molto, contro la politica. Costa, non funziona, non serve. E invece dobbiamo renderla più efficace e semplice proprio per dimostrare che non è così.
La politica è incontro, sfida, amore, ideazione, sconfitta, recupero. La politica si fa con la più preziosa delle materie prime: la persona umana. Ed è un’esperienza irripetibile, umanamente impagabile, anche nei momenti dell’amarezza. Dai tavolini della raccolta delle firme ai palazzi del governo, dalle piccole sale piene di fumo alle trasmissioni TV con milioni di persone. È altissima la dignità, a tutti i livelli, di una politica onesta e autentica. Diciamolo a coloro che sono fuori di qui. La politica è e deve tornare ad essere per molte persone “la vita nella città”. E’ emozione e passione per tutte le persone che sono in questo grande spazio. Ma la politica è uno spazio che deve essere di tutti, per tutti. Noi ci ribelliamo ai guasti, ma anche alla denigrazione della politica, alla denigrazione dei valori che animano chi si dedica alla politica.

Alla fine di tutto questo, in capo ad un duro lavoro, faremo e pluribus unum.
Non vi affrettate a pretenderne l’evidenza in poche settimane; ma sono certo che da tanta ricchezza e attraverso non poche difficoltà scaturirà una unità profonda.
Saremo il partito che non toglie per l’interesse del presente la parola al futuro.
Saremo il partito che torna a dire che la speranza è una virtù.
Saremo il partito in cui l’io conterà molto, ma riscopriremo la gioia e la felicità di saperci riconoscere nel noi.
Noi, oggi, qui, la Margherita, che compie la sua missione.
Noi, domani, che iniziamo con tanti uomini e donne generosi, capaci, innamorati dell’Italia, il cammino atteso e sognato da tanti anni.
Il cammino del Partito Democratico.

20 APRILE 2007

 

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EmiNews 2007

 

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