3107 DEMOCRATICI DI SINISTRA: Chiusi i lavori del 4° Congresso

20070421 21:23:00 redazione-IT

Con la replica del segretario Ds Piero Fassino, si conclude oggi il quarto ed ultimo congresso dei Democratici di sinistra, forse il più sofferto, di sicuro il più difficile visto che segna la chiusura di un lungo capitolo per la sinistra italiana. Ieri, Fabio Mussi con la frase «cari compagni, noi ci fermiamo qui» ha fatto venire i brividi a molti, dentro il Mandela Forum, ma poi Walter Veltroni, uno tra i papabili per la leadership del futuro Pd, ha riscaldato la platea ricordando che una persona si può definire di sinistra al di là del nome, e che «quello che si sta facendo non può che essere un radicale cambiamento nella politica e nelle risposte alle esigenze del Paese».

Dunque si apre un nuovo futuro, tutto da costruire, ma da affrontare insieme, affrontando le difficoltà che sempre ci sono quando si inizia qualcosa di nuovo.

Fassino: oggi democratico vuol dire essere progressista, riformista e di sinistra

Con il discorso di Fassino si conclude così il IV ed ultimo congresso dei Democratici di sinistra, primo atto della costruzione del futuro Partito democratico. Il segretario si rivolge alla platea e subito afferma che è stato «un congresso vero pieno di passione, un congresso dal quale usciamo con decisioni, non solo impegnative, ma più chiare. E’ più chiaro perchè stiamo compiendo un passo così importante, cosa ci proponiamo, come lo vogliamo fare e con chi». E’ un discorso sofferto quello di Fassino, dove traspare la voglia di rispiegare ancora una volta che quello che è successo in questi giorni non è una fine ma l’inizio di una nuova stagione piena di promesse. Per chi aveva dubbi sulla scelta del nome Partito Democratico il segretario spiega che «oggi democratico è essere progressista, riformista e di sinistra». La democrazia dunque, come tema cruciale per la risposta alla globalizzazione e alla sua crisi di consenso. «Non è vero – ha spiegato il segretario della Quercia – che l’aggettivo democratico è meno impegnativo, più leggero di democratico di sinistra. Il dibattito ha reso evidente che la democrazia è il grande tema del nostro tempo. Attorno alla democrazia si gioca la capacità di governare la globalizzazione».

Il problema della globalizzazione e della sua «crisi di consenso», afferma Fassino, «è un problema di sovranità, perché tutti i fenomeni sono globali ma non è globale la sovranità». Citando l’intervento congressuale di Pier Luigi Bersani, Fassino si dice d’accordo con la previsione del ministro: «Prima o poi bisognerà tornare a porre il problema del governo del mondo». Nonostante la scissione decisa dal gruppo guidato da Fabio Mussi, Fassino continua a ribadire che «mi pare ci sia la possibilità di un’intesa tra di noi che raccolga anche le sollecitazioni, i suggerimenti che sono venuti dai compagni che hanno espresso rilievi critici nel corso del dibattito congressuale». E come per spronare ancora una volta Mussi a tornare si chiede: «ma perché andarsene?». E aggiunge «credo che noi, ieri, abbiamo vissuto un momento di grande turbamento, in special modo per chi, come me, D’Alema e Veltroni hanno un lungo rapporto di amicizia con Fabio Mussi. Una storia comune che da 35 anni ci vede insieme. Ma direi anche per quelli che hanno percepito nelle parole di Fabio una sofferenza vera, l’inquietudine di un uomo sincero che ha espresso con grande dignità e forza le sue ragioni alla comunità nella quale ha vissuto per tanti anni».

Infine il segretario mette a nudo le paure dei compagni cioè l’ansia di non chiudere la porta, interrompere un legame e spezzare una storia. Ma in realtà ribadisce per l’ultima volta che c’è un ponte gettato verso i compagni che hanno deciso di non proseguire. E che alla fine «tutti ci reincontreremo». «Attenzione dire semplicemente ci ‘reincontreremo’ non può essere un alibi consolatorio, abbiamo un dovere in più: crediamo nel Partito democratico e, quindi, abbiamo il dovere di costruirlo in modo tale che anche chi ha deciso di non entrarci oggi possa venire domani e possa venire senza doverci spiegare perchè ha deciso di tornare. Ci basta che venga e – ha concluso Fassino – venga con noi».

Finocchiaro: Per cambiare l’Italia ci vuole un partito migliore

Finalmente sale sul palco Anna Finocchiaro, e il pubblico del Mandela Forum esplode in un fragoroso applauso, per colei che potrebbe divenire la Ségolène Royal italiana. E subito parte con un monito: «siamo un grande partito, abbiamo una grande storia ma da soli non ce la facciamo a rimettere insieme l’Italia». La capogruppo dell’Ulivo al Senato ha spiegato con queste parole perchè l’esigenza di costruire il Pd è divenuta improcrastinabile. «Guardiamolo il Paese com’è, senza alibi. E’ un Paese vecchio e fermo – ha osservato con fermezza la Finocchiaro – che oppone una straordinaria resistenza al cambiamento e all’innovazione, con classi dirigenti indisponibili a cedere il passo alle nuove generazioni nella politica come nell’economia, nelle università come nelle professioni. Nascono pochi bambini, si è fermato l’indice di mobilità sociale. Un Paese che teme il futuro, che non si fida».

«Un quadro politico troppo frammentato – ha aggiunge la presidente dei senatori ulivisti – resiste a qualunque riforma elettorale, e senza riforme del sistema politico continua a dispensare incertezze sulla durata e sull’efficacia del governare, e rende inaffidabile la promessa elettorale». Secondo Finocchiaro un «Paese non si cambia solo con il buon governo, ma se milioni di donne e di uomini trovano un’occasione per mettersi in cammino e cambiarlo anche loro il Paese, avendo garantiti per davvero partecipazione e decisione. Questo riguarda le forme di partecipazione che sceglieremo e non può esserci nessuna ambiguità su questo». Il Pd «non può essere frutto del rimescolamento dei ceti dirigenti politici dei partiti che lo compongono. Non lo dico perchè voglio rispondere ai miei compagni che hanno deciso di non starci, temendo questa deriva. Lo dico proprio per noi, che della necessità del Pd siamo convinti. Se abbiamo un’ambizione al di sotto di questo, lasciamo perdere. Quello non è il Pd è un’altra cosa e non mi interessa, non interessa all’Italia. Se abbiamo deciso un partito nuovo, facciamo un partito nuovo. Mettiamoci tutti, per davvero, in gioco. E sfuggiamo ad ogni tentazione: non voglio essere la sinistra del Pd voglio essere il Pd».

«Un partito nuovo c’è e ha una forza pari ai compiti che si propone, se è un partito attraente, innanzitutto, per le donne e i giovani, forze inesauste di una società esausta. Per questo non voglio quote, ne rosa ne azzurre. O il Pd sarà originariamente il partito dei giovani e delle donne italiane o semplicemente non sarà il Pd. Non sarà quello di cui non noi, ma l’Italia ha bisogno. I miei compagni della sinistra che se ne vanno ritengono che il Pd sarà un partito moderato, che nasce con questa cifra. E io mi chiedo cosa invece possa esserci di più radicale di un partito che riunisca, e massimizzi, la spinta di cambiamento dei riformismi italiani». Ma tutto questo, prosegue Finocchiaro, «non vogliamo farlo da soli, non possiamo più farlo da soli. Abbiamo bisogno d’umiltà e di dirci che già da tempo la nostra parola politica, la nostra cultura politica non basta più neanche a noi stessi. Che abbiamo saccheggiato altre culture, altre esperienze politiche perchè avevamo fame di «parole per dirlo» e non ne avevamo utili di nostre.

«Ma diciamocelo francamente compagne e compagni: da soli non ce la facciamo. E non è solo questione di percentuali elettorali. Siamo un grande partito, abbiamo una grande storia ma da soli non ce la facciamo a rimettere in piedi l’Italia». «Perchè ora – sottolinea riferendosi agli esponenti della seconda mozione usciti dal partito – è il tempo di costruire, e ci vorrà una fatica dannata, e un cuore saldo. Non mi rassegno a pensare che questo, compagne e compagni, noi non lo costruiremo tutti insieme. Mi pare insensato per noi, per voi. Ma la decisione è presa e vi auguro buona fortuna. Non perdiamoci di vista». «Facciamo un partito nuovo. Non è più l’89. Stavolta non siamo incalzati dalla storia, stavolta proviamo a farla noi la storia. E la facciamo senza guardare indietro. E’ tempo di legare all’albero una vela e di combinare la rotta alla deriva. Io – ha avvertito in conclusione Finocchiaro – non ho paura. Sento il peso, enorme certo, della responsabilità. Ma possiamo farlo. Il nostro Paese ha bisogno di una politica migliore. Il Pd dipenderà da noi, potrà esserne il suo migliore interprete. Per essere all’altezza della nostra storia, per essere all’altezza del futuro, per essere utili all’Italia».

Dean: i democratici degli Stati Uniti sono con voi

«Da presidente del Partito democratico degli Stati Uniti apprezzo e plaudo alla vostra decisione di creare un nuovo partito». Howard Dean, leader dei Democratici Usa, ha conquistato così la platea dei delegati Ds con un lungo discorso interrotto continuamente dagli applausi. E alla fine raccoglie il tributo dei congressisti insieme a Piero Fassino, che gli alza il braccio in segno di vittoria. E’ la prima volta che un leader dei Democratici americani del suo livello (Dean ha conteso a John Kerry la designazione per la candidatura alla Casa Bianca nel 2004) parla ad un congresso della Quercia. Ed inizia con una lode agli italiani, «per la vostra storia, la vostra cultura, la vostra cucina e i vostri sport, soprattutto per gli azzurri». «Mi congratulo con voi e i vostri leader – ha aggiunto – questo è un momento davvero storico per il popolo italiano e per gli italiani». Con il Partito democratico «ci sarà un governo progressista più stabile». «E per noi democratici la nascita del Pd significherà la possibilità di avere un partner più grande in Italia». Dean ha paragonato il «lavoro duro» fatto da Ds e Dl in Italia a quello dei Democratici americani: «Abbiamo deciso di unirci per battere l’estrema destra repubblicana. Ci siamo uniti, abbiamo lavorato duro e nel 2006 abbiamo vinto: oggi abbiamo la maggioranza al Congresso e al Senato». Grandi applausi quando dice che «é ora di cambiare rotta in Iraq. I democratici – ha sottolineato – hanno un piano per uscire dall’Iraq, non resteranno in silenzio e continueranno a battersi perché la posizione Usa cambi». Poi insiste sulla politica ambientale, sulla necessità di contrastare il riscaldamento del pianeta: un tema, dice, che è stato sollevato soprattutto per merito dei partiti progressisti. Infine conclude il suo intervento con auspicante «insieme vinceremo».

Amato: Pd, un passo verso una più larga unità comune

«I socialisti non si devono chiudere in un recinto, ma unirsi in un contesto riformista più ampio»: con questo appello il ministro dell’Interno Giuliano Amato ha aperto il suo intervento al congresso, ricordando poi le lotte dei socialisti di fine ‘800, che «volevano cambiar il mondo» e ci riuscirono: «Perchè oggi la loro grandezza e la loro lungimiranza – si chiede – dovrebbero esprimersi nel chiudersi in un recinto che porta il loro nome, e non nel portare la loro storia, i loro valori e le loro aspettative in un contesto più ampio, capace non solo di unire tutti i riformisti ma, su questa base, di ricondurre al riformismo le tante e diversificate inquietudini che attraversano le nostre società?».

Il ministro ha spiegato di vivere questo conflitto in prima persona: «In questi anni – ha detto, dal palco del Mandela Forum – ho rappresentato, nella presidenza del Pse, i due partiti italiani che ne fanno parte, Ds e Sdi, nell’aspettativa, evidentemente condivisa da entrambi i partiti, che essi sarebbero giunti all’unità anche in patria. Io ho incarnato per anni l’aspettativa europea di tale unità: e mi amareggia profondamente che uno dei due partiti si chiami fuori, così come mi amareggia che ci sia anche chi lo fa tra i Ds. Scissioni e separazioni danno sempre una forza momentanea ai loro protagonisti – ha ammonito Amato – ma indeboliscono sempre il movimento, e non a caso sono sempre vissute da iscritti e militanti con autentica sofferenza, come disgrazie».

Amato si unisce così all’appello che Piero Fassino ha lanciato nella sua relazione introduttiva al congresso a proposito della costituente socialista, «affinché finisca per essere essa stessa – ha auspicato – un passo verso una più larga unità comune». Il bisogno di unità va assecondato, secondo il ministro, anche perché il compito di una politica riformista è «uscire di casa per costruire case più grandi, nelle quali ciò che oggi tende a lacerarsi sia ricucito all’insegna di principi condivisi, e ricomposto in identità comuni all’insegna dei diritti e dell’uguaglianza».

 

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EmiNews 2007

 

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