3298 Mamadou va a morire: La strage dei clandestini nel Mediterraneo

20070523 11:27:00 redazione-IT

Il libro di Gabriele Del Grande – Introduzione di Fulvio Vassallo Paleologo

Un grande reportage racconta le vittime dell’immigrazione clandestina, l’invasione che non c’è e i nuovi gendarmi di un cimitero chiamato Mediterraneo.
Dal 1988 almeno 10.000 giovani sono morti tentando di espugnare la fortezza Europa. Vittime dei naufragi, ma anche del caldo del Sahara, degli incidenti di tir carichi di uomini, delle nevi sui valichi, dei campi minati e degli spari della polizia.

Mamadou va a morire è il racconto coraggioso di un giovane giornalista che ha seguito per tre mesi le rotte dei suoi coetanei lungo tutto il Mediterraneo, dalla Turchia al Maghreb e fino al Senegal, nello sforzo di custodire i nomi e la memoria di una generazione vittima di una mappa.

Il suo è anche un grido d’allarme su una tragedia negata, che chiama in causa l’Europa, i governi africani e le società civili delle due sponde del Mare di Mezzo.

"Dimenticare, rimuovere, rassegnarsi alla normalità delle tragedie dell’immigrazione descritte in questo libro, sarebbe come lasciare morire ancora una volta le persone vittime dell’immigrazione irregolare. Ancora peggio sarebbe ritenere, come pure qualcuno sembra fare, che queste tragiche storie possano avere un effetto pedagogico sui ‘candidati’ all’emigrazione clandestina" (dall’introduzione di Fulvio Vassallo Paleologo).

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Introduzione di Fulvio Vassallo Paleologo

Migliaia e migliaia di morti, un numero imprecisato di dispersi di cui non si saprà mai nulla, effetti collaterali della guerra ai migranti che l’Europa ha di-chiarato unilateralmente, per lo scopo manifesto di contrastare l’immigrazione clandestina, proprio mentre sbarrava i canali di ingresso legale, persino ai richie-denti asilo.
Dopo le timide aperture del processo di Barcellona, avviato nel 1995, e le speranze suscitate dai documenti di Tampere nel 1999, da un Consiglio Europeo all’altro, soprattutto a partire dall’11 settembre 2001, le politiche di sbarramen-to e di militarizzazione delle frontiere hanno condizionato le scelte degli orga-nismi comunitari, sempre più preoccupati da allarmi per la sicurezza nazionale e da paventati pericoli di invasione che, almeno per quanto riguarda il preteso rapporto tra clandestini e terrorismo, si sono dimostrati del tutto infondati.
Intanto l’immigrazione clandestina non è certo diminuita, inserendosi come un fenomeno strutturale in un’economia liberista di dimensione globale caratte-rizzata dalla delocalizzazione su scala internazionale delle attività produttive e da un consistente mercato parallelo del lavoro irregolare, dall’edilizia all’agricoltura, dai servizi ai lavori di cura, formidabile attrazione per i lavoratori migranti di tutto il mondo, disposti ad accettare il rischio di una traversata su una “carretta” del mare, la condizione di clandestinità e una retribuzione irrisoria pur di garan-tire una minima possibilità di sopravvivenza alle proprie famiglie.
Di fronte al fallimento annunciato delle politiche espulsive praticate a livello nazionale, che hanno ridotto i centri di detenzione amministrativa a luogo di selezione e di espulsione della forza lavoro, o di prolungamento della detenzione carceraria, piuttosto che di effettivo allontanamento degli immigrati irregolari presenti nel territorio, i principali Paesi europei hanno riscoperto il valore della cooperazione internazionale, non più come strumento per praticare un’autenti-ca solidarietà con gli abitanti dei Paesi più poveri, quanto piuttosto per imporre ai governi degli Stati di transito, soprattutto dei Paesi nord-africani, accordi di collaborazione basati sul finanziamento delle politiche di arresto, di detenzione e di espulsione dei migranti irregolari prima che questi potessero tentare l’ultimo salto, la traversata verso l’Europa.
In questa direzione, l’Italia e la Spagna hanno offerto gli esempi più eclatanti, nei rapporti, rispettivamente, con la Libia e con il Marocco, concludendo accordi che hanno permesso operazioni di deportazione di migranti anche se provenienti da Paesi terzi, in cambio di quote privilegiate nella programmazione dei flussi d’ingresso o di trattamenti preferenziali negli scambi commerciali (con il superamento dell’embargo verso la Libia).
Snodo essenziale di queste politiche di contenimento, se non di vero e proprio blocco dei movimenti migratori, è costituito dagli accordi di pattugliamento congiunto e dalle attività dell’agenzia Frontex istituita nel 2004 dall’Unione europea per il controllo delle frontiere esterne e il contrasto dell’immigrazione clandestina. Evidentemente le attività di controllo, e spesso di salvataggio, compiute dai mezzi navali dei singoli Stati, come si è verificato nel Canale di Sicilia, non sono sembrate più sufficienti a contrastare l’immigrazione clandestina con quel rigore che avrebbero voluto i fautori della Fortezza Europa. Come se i mor-ti in mare non fossero già troppi, come se occorresse ancora lanciare messaggi dissuasivi nei confronti di chi non ha altra scelta di vita che tentare l’avventura della traversata su una carretta del mare. La missione operativa di Frontex si è tradotta nel pattugliamento congiunto (con unità provenienti da diversi Paesi) e nel respingimento in mare delle imbarcazioni cariche di migranti verso i porti di provenienza, anche se il tentativo di sbarrare la rotta a battelli stracarichi e instabili, o una semplice virata improvvisa, ne poteva comportare il rovesciamento, con la perdita di molte vite umane. L’effetto deterrente costituito dallo schieramento di unità militari finanziato dall’Unione europea non ha comun-que arrestato i movimenti migratori clandestini, ma ne ha reso più pericolosi gli itinerari, anche per il ricorso a imbarcazioni sempre più piccole per sfuggire ai controlli dei radar e degli aerei ricognitori.
Un’immigrazione clandestina che diventa merce di scambio per chi deve stabilire i nuovi assetti geopolitici nel Mediterraneo (e non solo), che tutti affermano solennemente di volere realizzare nel rispetto dei diritti fondamentali della persona umana, salvo a concludere poi accordi di collaborazione per il contrasto dell’immigrazione clandestina con Paesi che quei diritti non rispettano affatto. Accordi di riammissione tenuti segreti per anni, proprio sulla pelle delle vittime, i migranti costretti alla clandestinità.
Gli Stati dell’Unione europea sono chiamati oggi a un crescente impegno militare, soprattutto quelli più esposti alla frontiera sud, come la Spagna, l’Italia, la Grecia, ma collaborano anche Paesi come la Germania, l’Olanda, la Francia e il Belgio, apprestando mezzi (navali, ma anche aerei e terrestri) e curando la formazione congiunta delle guardie di frontiera, nella prospettiva di una polizia di frontiera europea unica, capace di realizzare intese operative con le polizie dei Paesi di transito.
Questa è l’Europa voluta dall’attuale Commissione, malgrado le posizioni contrarie emerse in seno al Parlamento europeo, unico organo comunitario dotato di una diretta legittimazione popolare.
Come affermato nel gennaio del 2007 dal Commissario alla giustizia e agli affari interni dell’Unione europea, Franco Frattini, «EU needs helicopters, boats, and planes». Secondo Frattini, sostenuto particolarmente dalla presidenza tedesca, occorre che tutti i Paesi chiamati a contribuire all’agenzia Frontex facciano presto, se si vuole bloccare il nuovo flusso di migranti che si attende nei mesi di aprile, maggio e giugno, quando le condizioni meteo saranno più favorevoli.
I dati agghiaccianti forniti da Fortress Europe costituiscono un primo squar-cio di verità dopo anni di disinformazione o di vere e proprie menzogne, come quelle diffuse dal governo italiano in occasione del blocco in acque internazio-nali della nave tedesca Cap Anamur carica di naufraghi.
In futuro, le attività delle unità navali europee impegnate nelle operazioni di contrasto dell’immigrazione clandestina dovranno essere meglio documentate, rispetto alle operazioni semiclandestine, come le grandi manovre navali anti-immigrazione realizzate a partire dall’estate del 2000 fino a oggi. Almeno, l’opinione pubblica, apparentemente rassegnata a questa strage degli innocenti, potrà conoscere le catene di comando e individuare i veri responsabili delle tante tragedie dell’immigrazione clandestina. E si potranno conoscere meglio le storie di quell’umanità in fuga (dal bisogno, dalla fame o dalle guerre non cambia poi tanto) che tenta di entrare in Europa per ritrovarsi, quando va bene, tra le sbarre di un centro di detenzione amministrativa.

Un dato è certo e traspare dalla ricerca di Gabriele Del Grande: ogni ina-sprimento delle misure di controllo delle frontiere e di contrasto dell’immigra-zione clandestina modifica immediatamente i percorsi seguiti dai migranti ma non arresta i movimenti migratori irregolari, tanto in partenza che all’arrivo nei Paesi di destinazione. Nelle imbarcazioni bloccate in mare al largo delle coste atlantiche dell’Africa, sempre più a sud, si scoprono ormai migliaia di migranti provenienti dall’Africa centrale, dal Corno d’Africa, dal subcontinente indiano.
Vite appese a un filo, se la fortuna può aiutare tra le onde del mare, ma una volta respinti a terra dalle pattuglie europee di Frontex, la prospettiva è quella della segregazione e della schiavitù, perché i Paesi di transito, come la Mauritania o la Guinea, non hanno i mezzi per il rimpatrio dei migranti irregolari verso Stati di provenienza tanto lontani, e il Marocco o la Libia si limitano a respingere nel deserto, nella terra di nessuno, quei migranti che ritengono di espellere. In questi casi, le identificazioni si esauriscono nell’attribuzione sommaria di una nazionalità e le procedure di allontanamento forzato si traducono in vere e pro-prie espulsioni collettive, vietate da tutte le convenzioni internazionali.
Negli anni passati l’Italia è stata all’avanguardia in Europa nella pratica delle espulsioni collettive verso i cosiddetti Paesi di transito, come la Libia e l’Egitto, dai quali numerosi migranti, tra cui molti potenziali richiedenti asilo, sono stati respinti verso quegli stessi stati, come l’Eritrea, il Sudan, la Nigeria, il Ghana, il Mali, ma anche il Bangladesh, il Pakistan o lo Sri Lanka, dai quali erano fuggiti. La svolta avveniva a partire dal caso Cap Anamur, nell’estate del 2004, quando la Germania mutava politica, probabilmente anche per ragioni elettorali del governo allora in carica, negando ai naufraghi salvati dalla nave tedesca l’accesso alla procedura di asilo.
L’Italia, al fine dichiarato di non creare «un pericoloso precedente» espelleva sommariamente persino coloro che avevano ottenuto da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo la sospensiva del provvedimento di respingimento.
In quell’occasione, l’intesa tra i ministri degli Interni di Italia, Gran Bretagna e Germania, Giuseppe Pisanu, David Blunkett e Otto Schily, riuniti il 6 luglio 2004 a Sheffield, in Inghilterra, aprì la strada alle successive politiche europee centrate sulle espulsioni collettive, sui respingimenti in mare aperto e sull’ester-nalizzazione dei controlli di frontiera e dei centri di detenzione amministrativa. Come si sperimentò poco tempo dopo a Lampedusa, con le espulsioni collettive verso la Libia, nell’ottobre del 2004 e poi nel marzo del 2005, e poi ancora in altre occasioni nel corso del 2005, dall’Italia verso la Libia e l’Egitto, malgrado le censure del Parlamento europeo e della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
Dopo il caso della Cap Anamur, sul quale è ancora aperto un processo ad Agrigento, sanzioni penali sempre più severe dissuadono le imbarcazioni da pesca e le navi mercantili dal prestare aiuto ai migranti, come se in alto mare non valessero più le Convenzioni internazionali che prevedono comunque l’obbligo di salvataggio immediato. Come se nelle acque internazionali non fosse più applicabile quella discriminante umanitaria che invece esclude la sanzione penale per coloro che aiutano senza fine di lucro gli immigrati irregolari nel territorio nazionale. Numerose testimonianze di migranti riferiscono come le navi e le imbarcazioni da pesca ignorino le richieste di soccorso, talvolta senza neppure rilanciare un allarme che potrebbe salvare la vita a decine di persone; storie raccolte proprio dopo la vicenda della Cap Anamur e le incriminazioni, per agevolazione all’ingresso di clandestini, di alcuni comandanti delle imbarcazioni che avevano condotto azioni di salvataggio.
Senza l’estensione immediata della esimente umanitaria agli interventi di salvataggio operati da mezzi civili in acque internazionali, si corre il rischio che le attività di soccorso siano sempre meno tempestive e che l’elenco dei morti e dei dispersi possa allungarsi ancora di più.
In mare aperto non ci dovranno più essere clandestini da conteggiare come vittime o, se sopravvivono, da respingere al più presto, ma soltanto persone da salvare e da accompagnare in un porto sicuro. Come prescritto dalla legge del mare, oltre che dalle convenzioni internazionali.
La Commissione europea, in vista dell’estate del 2007, stagione nella quale tradizionalmente si intensificano i tentativi di traversata dei migranti, ha rivolto un invito ai ministri dell’Interno dei 27 paesi comunitari per fornire un maggiore sostegno economico a Frontex, in particolare per rinforzare il pattugliamento congiunto al largo delle Canarie e nel Mediterraneo.
Ancora navi militari, elicotteri, aerei da ricognizione, e poi tecnologie militari e uomini specializzati per bloccare in alto mare le imbarcazioni cariche di migranti e tentare con ogni mezzo di respingerle verso i porti di provenienza. Non importa a quale costo in termini di vite umane, anche se tutti i documenti comunitari richiamano i diritti fondamentali della persona umana. Non sembra però che decisioni tanto gravi sollecitino un particolare interesse da parte del-l’opinione pubblica.
Dimenticare, rimuovere, rassegnarsi alla normalità delle tragedie dell’immigrazione descritte in questo libro, sarebbe come lasciare morire ancora una volta le persone vittime dell’immigrazione irregolare. Ancora peggio sarebbe ritenere, come pure qualcuno sembra fare, che queste tragiche storie possano avere un effetto pedagogico sui “candidati” all’emigrazione clandestina.
Come dimenticare quella terribile storia, non scritta in questo libro, di un migrante giunto in Italia sulla nave tedesca Cap Anamur dopo essere stato salvato in alto mare, respinto in Ghana dalle autorità italiane, e poi perito durante un secondo tentativo di traversata. Come tanti altri che hanno provato più volte a entrare nel continente europeo, tante volte, magari fino a entrarvi da morti, come è successo ancora sino a pochi mesi fa nell’isola di Lampedusa in Sicilia.
La prima linea di intervento va individuata a livello delle istituzioni comunitarie e consiste nella richiesta di sostegno a tutte quelle azioni positive poste in essere da enti locali e da ong, che a livello nazionale e internazionale, soprattutto nei Paesi di transito, si rivolgono alla tutela dei richiedenti asilo e protezione umanitaria. Si tratta di praticare una cooperazione internazionale dal basso, con aiuti che arrivino direttamente alle comunità locali, senza finanziare regimi autoritari e pratiche di controllo delle migrazioni che contrastano con i diritti fondamentali della persona.
In secondo luogo, le istituzioni dell’Unione europea competenti in materia di immigrazione e asilo dovrebbero svolgere attività di monitoraggio sullo stato di applicazione effettiva della normativa di fonte comunitaria, e sulla gestione degli accordi di riammissione da parte dei Paesi membri, anche con visite periodiche di delegazioni e la richiesta di dati e documentazione. Quei dati e quella documentazione negati dalle Prefetture e dalle Questure italiane anche alla Commissione ministeriale presieduta dall’ambasciatore Staffan De Mistura, che avrebbe dovuto accertare le gravi violazioni dei diritti fondamentali della persona, denunciati da anni all’interno dei centri di detenzione amministrativa e nel corso delle procedure di allontanamento forzato.
Al di là del ruolo delle istituzioni comunitarie, rimane fondamentale il ruolo delle organizzazioni non governative che in molte realtà nazionali, tanto a sud che a nord del Mediterraneo, sono gravemente “discriminate” e non vengono neppure considerate come interlocutori dei governi in carica, per le critiche che rivolgono alle autorità amministrative e per le denunce che sono costrette a presentare alla magistratura. In particolare, occorre costruire collegamenti operativi per dare voce alle reti di famiglie di emigrati che si stanno costituendo in associazione, come sta avvenendo tra mille difficoltà in Marocco e in altri Paesi di provenienza.
La rete delle associazioni in collegamento con gli enti locali deve riuscire a seguire i percorsi di reinserimento nel Paese di origine dei migranti espulsi o respinti dall’Europa. Sono questi progetti di impegno civile, e non i programmi militari per armare le pattuglie contro i migranti, che l’Unione europea è chiamata a finanziare se vuole restare fedele ai principi fondamentali sui quali si basa la Carta di Nizza e il progetto di Costituzione Europea. Un modo, anche questo, per esportare la democrazia senza bisogno delle armi. Un modo, soprattutto, per impedire che si tenti di nuovo l’avventura della traversata, in condizioni sempre più disperate; un modo per impedire altre stragi del mare.
L’Hcr, infine, dovrebbe dichiarare pubblicamente se e dove è in grado di garantire il diritto di asilo delle persone che si rivolgono agli uffici di quest’organizzazione nei Paesi di transito come il Marocco e l’Egitto. Gli accordi di riammissione con molti Paesi nordafricani sono basati sul presupposto che questi Paesi hanno aderito alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati.
Quando poi si va a considerare la dimensione effettiva del diritto di asilo in questi Stati si verifica come tale status venga concesso in poche centinaia di casi. Va detto che non basta l’adesione alla Convenzione di Ginevra se poi i singoli Stati si comportano in modo da violare i principi essenziali di quella convenzio-ne, e neppure consentono il tempestivo intervento dei funzionari dell’Hcr. Se non si farà chiarezza sulla situazione dei richiedenti asilo nei Paesi di transito, questa importante agenzia delle Nazioni Unite rischia di diventare la foglia di fico dietro la quale si potranno celare i più vergognosi accordi di riammissione e le peggiori operazioni di deportazione dei richiedenti asilo e protezione umanitaria. In nessun caso l’Hcr dovrebbe cogestire operazioni di rimpatrio che si svolgano con accompagnamento forzato da parte della polizia contro la volontà dei migranti.
Al contrario, come già successo in qualche caso, spetta proprio all’Hcr fare rispettare il diritto di accesso alla procedura di asilo, anche in favore dei mi-granti bloccati in mare per effetto delle operazioni di pattugliamento congiunto poste in essere dagli Stati europei, come avvenuto all’inizio del 2007, quando un’imbarcazione carica di migranti è stata bloccata in pieno oceano per oltre una settimana, mentre la Spagna, il Marocco e il Senegal discutevano sullo Stato verso il quale effettuare il respingimento. A rischio, ancora una volta, di centinaia di vite umane sballottate tra le onde.
Gli obblighi di salvaguardia della vita umana, in mare come nei deserti africani, dovrebbero prevalere sempre sulle esigenze di sbarramento delle frontiere. Se ciò non dovesse avvenire e se si penalizzeranno ancora gli interventi di soc-corso operati dai mezzi civili, le vittime della Fortezza Europa continueranno ad aumentare inesorabilmente anche nei prossimi anni.

Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo Maggio 2007

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1 Fulvio Vassallo Paleologo è docente di Diritto privato e di Diritti umani presso l’Università di Palermo. Componente del Dottorato in Diritti umani presso la stessa Università, e del comitato ordinatore del Master universitario su Medicina, migranti, diritti presso la Facoltà di Medicina di Palermo. Svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Studi su Politica Diritto e Società dell’Università di Palermo. Componente del Consiglio direttivo dell’Asgi (Associazione studi giuri-dici sull’immigrazione), opera attivamente nella difesa dei migranti e dei richiedenti asilo, collaborando con diverse Organizzazioni non governative. Tra le sue principali pubblicazioni: No, questa non è una pace giusta, in Il rovescio internazionale, Odradek, 1999; I centri di permanenza temporanea per stranieri espellendi in Italia, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, Angeli, 1999; Brevi cenni sulla legislazione sovranazionale ed italiana sui Rom e sui Sinti, Aut aut, Quaderni di percorsi di cittadinanza, 2000, Relazione presentata al Convegno promosso dall’Anci Toscana su Rom e Sinti: quale futuro in Italia (Firenze, 22 gennaio 2000); (con. S. Palidda) L’ultra-libéralisme à l’œuvre en Italie, in Plein Droit, n. 55, dicembre 2002 ; Allontanamento forzato degli immigrati e diritti fondamentali della perso-na: quando i diritti umani diventano un ostacolo per le politiche migratorie, in La forza e il diritto (a cura di A. Burgio), 2002; Les nouvelles formes de privation de liberté des immigrés clandestins, Asgi, giugno 2003; La convenzione Onu sui diritti dei migranti in rapporto alle normative ed alle prassi dell’Unione europea, Relazione presentata al Convegno organizzato sullo stesso tema dalla Fondazione Scalabrini a Roma, 28 novembre 2003, in Studi Emigrazione, Cser, 2004; Monitoraggio della discriminazione e della xenophobia contro i migranti, assistenza legale e interventi sociali: quali prospettive dopo la conferenza di Durban?, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, Franco Angeli, 2004; (con Paolo Cuttitta, a cura di) Migrazioni, Frontiere, Diritti, Esi, Napoli, 2006.

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EmiNews 2007

 

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