3321 IL RAPPORTO ISTAT FOTOGRAFA UN' ITALIA SEMPRE PIU' POVERA

20070525 11:46:00 redazione-IT

DOSSIER DA: Il Manifesto del 24 maggio – www.ilmanifesto.it
Articoli di: Guglielmo Ragozzino, Roberta Carlini, Ernesto Geppi, Chiara Marchionni

Siamo il paese più vecchio d’Europa ma anche il più diseguale: pochi ricchissimi e tanti poveri. Una famiglia su sei fa fatica ad arrivare a fine mese mentre quattro milioni di anziani tirano avanti con seicento euro mensili. Si allarga il divario tra Nord e Sud. E’ la fotografia dell’Italia scattata dall’Istat, nel cui rapporto annuale lancia l’allarme economia: cresce poco e in maniera distorta. Unico dato positivo è l’essere diventati un paese di forte immigrazione.
«Le famiglie appartenenti al 20 per cento più povero della distribuzione percepiscono soltanto il 7,8 per cento del reddito totale, mentre la quota del quinto più ricco risulta cinque volte maggiore (39,1 per cento)».

La povertà della nazione
Guglielmo Ragozzino

Proprio alla vigilia dell’assemblea di Confindustria, sono arrivate, con il rapporto dell’Istat-Istituto nazionale di statistica, le cifre sullo stato di salute dell’Italia e sulla distribuzione dei redditi. Il confronto non potrebbe essere più aspro. Gli industriali, oggi, il loro giorno verificheranno la ricchezza della nazione e se ne attribuiranno i meriti. Ieri al contrario è emersa con nettezza la povertà della nazione: come se fosse Alfred Marshall a parlare, e non Adamo Smith.
La povertà della nazione ha colpito perfino l’attenzione del vescovo Angelo Bagnasco, il presidente della Cei. La cattiva distribuzione del reddito è in aumento in Italia, quale che sia il governo. Non sono soltanto le persone rimaste indietro nella scala sociale a soffrirne, in famiglia o prese una per una. E’ un fenomeno di massa che coinvolge milioni e milioni di persone: «il 28,9 per cento delle famiglie ha… specificato di non aver potuto far fronte a una spesa imprevista di importo relativamente modesto (600 euro)». Così l’Istat, anche se non è facile dimenticare che un quarto dei pensionati riceve meno di 500 euro mensili e il 31 per cento tra 500 e 1.000 euro. Per tutti, 600 euro sono una somma importante. Per i primi, anziché di un «importo relativamente modesto», si tratta di una somma irraggiungibile, il risultato di un terno al lotto. Ed è un avverbio relativamente che suggerisce molte riflessioni sulla distribuzione dei redditi nel nostro paese e sulla percezione che se ne ha, perfino in un ambiente attento e colto come quello dell’Istat.
Sono dati che vengono discussi all’interno, nel manifesto; qui vogliamo aggiungere solo un altro paio di notazioni sui redditi: sui ricchi e sui poveri del nostro paese; anche se sarà «nostro» a pieno titolo solo per alcuni; e «loro» per tutti gli altri. «Le famiglie appartenenti al 20 per cento più povero della distribuzione percepiscono soltanto il 7,8 per cento del reddito totale, mentre la quota del quinto più ricco risulta cinque volte maggiore (39,1 per cento)». E poi: nel Nord-est una persona con disabilità riceve un sostegno che grava sul pubblico – stato, comune – per 4.182 euro in media. La media per lo stesso sostegno nel sud è di 448 euro.
Ma torniamo al 20 per cento delle famiglie più ricche, quelle che godono di redditi doppi di tutto l’insieme delle famiglie; e redditi cinque volte maggiori di quelli del 20 per cento delle famiglie meno provviste. Anche all’interno del campo dei ricchi vi sono notevoli differenze; anzi, vi sono di solito barriere tra chi guadagna un milione e chi solo centomila. Alcuni partiti hanno tentato in passato, senza successo, di organizzare i secondi contro i primi. Adesso, se accettassero, tutti gli industriali andrebbero bene, per il nuovo partito che nasce.
Oggi, in Confindustria, luogo assai democratico, le barriere saranno abbassate. Tutti in coro gli industriali, guidati dai più ricchi di loro, chiederanno ai ministri, presenti in massa, notizie sul cuneo fiscale. I ministri, rassegnati, prometteranno . Qualcuno, nel «nostro» paese, parlerà ancora di come ridurre il cuneo sociale?

__________________

Più ricchi, più poveri L’Italia nella forbice
Il Belpaese visto dall’Istat. Crescono le inegualianze all’interno di una crescita trainata dall’Europa
La ripresa economica? Per molti ma non per tutti. Nel rapporto annuale dell’Istat, la fotografia del disagio e di una società più vecchia e diseguale
Roberta Carlini

Per crescere cresciamo. Ma è una crescita un po’ fiacca, più lenta e incerta di quella dei francesi, dei tedeschi, degli spagnoli, non parliamo di indiani e cinesi. E soprattutto, è come se, crescendo, l’Italia venisse tirata da tutte le parti, cosicché si allungano le distanze interne: tra i più ricchi e i più poveri, tra le donne e i maschi, tra i giovani e i vecchi, tra le imprese trendy e quelle di sussistenza, tra chi delocalizza e chi resta al palo. E la distanza tra Centro-Nord e Mezzogiorno, eterna questione che ritorna in forma drammatica proprio perché all’interno di un quadro di sviluppo mondiale. Questa la fotografia che il Rapporto dell’Istat di quest’anno ha scattato all’Italia, presentata ieri dal presidente dell’istituto nazionale di statistica Biggeri.
L’economia
Il 2006 è stato un anno di vacche grasse: più 3,9% la crescita del prodotto mondiale, che sale a più 5,4% se lo calcoliamo a parità di potere d’acquisto. Nell’area dell’euro, il 2006 ha visto un più 2,7% del Pil. Da noi il prodotto è cresciuto dell’1,9. Abbastanza per parlare di ripresa economica (riguardo alla quale l’Istat aiuta a risolvere la diatriba elettorale, se sia nata prima la ripresa o il governo dell’Unione: è nata prima la ripresa, dal secondo trimestre 2005), troppo poco per dire che la ripresa è solida. Il divario tra noi e gli altri paesi europei, secondo l’Istat, si deve tutto a debolezze interne alla dinamica dell’economia italiana: servirebbero più consumi, più investimenti, più reddito disponibile. O una politica capace di stimolarli tutti e tre: argomenti utili per chi sostiene la necessità di riversare subito il «tesoretto» nei bilanci familiari, invece di capitalizzarlo a riduzione del debito (ma questo l’Istat non lo dice). Detto questo, è ai numeri della società che bisogna guardare per capire quali conseguenze ha avuto finora il piccolo miracolo economico che ha lambito anche l’Italia. E questi numeri ci dicono di una struttura sociale che si apre come una forbice, accentuando le diseguaglianze e le «vulnerabilità».
Ricchi e poveri
Siamo sempre stati, e restiamo, uno dei paesi più diseguali d’Europa. Nella classifica dell’indice di concentrazione del reddito, siamo ai posti più alti in compagnia di Portogallo, Spagna, Irlanda e Grecia (e delle new entries dell’Est). Il 20 per cento più povero della popolazione ha solo il 7,8% del reddito totale, mentre la fascia alta del 20% più ricco si appropria quasi del 40% del reddito complessivo. Poco si sa, nelle statistiche, di chi c’è nella fascia alta: più autonomi che dipendenti, più laureati che non, più maschi che femmine. Qualcosa di più si legge invece sulla composizione della fascia bassa. La povertà vera e propria – quella statisticamente definita sulla base della soglia dei consumi familiari – ha interessato nel 2005 oltre 2 milioni e mezzo di famiglie per un totale di 7,5 milioni di persone: più o meno lo stesso numero della precedente rilevazione. In questa fascia è sempre abbastanza forte la presenza di pensionati, ma si comincia a vedere una tendenziale riduzione del peso degli anziani tra i poveri mentre aumenta quello dei giovani che sono usciti dal nucleo familiare, dei genitori soli (solitamente donne), delle famiglie numerose.
Un po’ più su del gradino della povertà, troviamo l’area del «disagio economico»: circa il 15% delle famiglie arriva a fine mese con grande difficoltà, e quasi il 30%, se le capita di dover affrontare una spesa imprevista di 600 euro, non ce la fa.
Allargando ancora di più il campo, e guardando ai dati macroeconomici, viene fuori che anche chi non è in «disagio» non brinda a champagne. Nel 2006 il reddito disponibile delle famiglie italiane è rimasto invariato, mentre è aumentata la spesa per consumi: dunque, si è ridotta la propensione al risparmio. Ed è aumentata quella a far debiti, complice un aggressivo marketing delle rate.
Imprese e lavoro
Ma lo sviluppo a forbice dell’Italia non è solo un dato degli indicatori sociali. Anche nella struttura economica, l’Istat vede punte di eccellenza e livelli di pura sopravvivenza: imprese che fanno off-shoring, aumentano produttività e/o redditività, innovano, e imprese che sono «di sussistenza». Le prime sono tutte nel Centro-Nord – con gran sviluppo dei «poli urbani» -, le altre tutte a Sud. A proposito del quale: non c’è indicatore che non segnali un aumento del divario territoriale. Testimoniato dalla ripresa massiccia delle migrazioni interne. Quanto al lavoro, la riduzione del tasso di disoccupazione non può far cantare vittoria. Dentro il 6,8% della media, resta una disoccupazione giovanile del 20%, che sale al 24% per le giovani donne. Per le quali sono drammatiche le cifre sui tassi di occupazione e di attività: e dicono di quell’effetto-scoraggiamento che soprattutto a Sud le tiene lontane dal lavoro.
Vecchi e nuovi
I dati della demografia – l’invecchiamento della popolazione – sono quasi una conseguenza di tutto il quadro. Siamo il paese più vecchio d’Europa: 141 persone con più di 65 anni ogni cento ragazzi sotto i 15. Sale la speranza di vita, scende quella di nascita. Unico dato positivo: l’esser diventati un paese di forte immigrazione. Gli stranieri regolari erano, al primo gennaio 2006, 2.768.000: il 4,5% della popolazione residente. Mentre tra i nuovi nati la percentuale di stranieri raddoppia: 9,4%.

__________________

I ritardi dell’industria frenano la crescita
Ernesto Geppi

Il Pil si è un po’ risvegliato, ma le imprese rimangono un nodo critico: sono tante, mediamente molto piccole, con una produttività relativamente bassa (che cela una diffusa evasione fiscale e contributiva) con costi del lavoro e retribuzioni decisamente più bassi rispetto ai partner europei. Imprese poco inclini a innovare e a investire in attività di ricerca, con margini di redditività però relativamente buoni, e con casi di eccellenza concentrati in pochi settori (l’industria meccanica) e presso le imprese esportatrici. Negli ultimi anni l’Italia ha rafforzato la specializzazione nelle produzioni a più basso contenuto tecnologico, indebolendosi soprattutto in quelle a intensità medio-alta: un percorso opposto da quello seguito dalla Germania e dal Regno unito, che hanno privilegiato i segmenti a più elevata intensità tecnologica. O dalla Spagna, che si sta allontanando dalla sua specializzazione nelle produzioni a bassa tecnologia. Sarà anche per questo che la nostra quota di mercato sul totale delle esportazioni della zona euro continua a scendere: più di un punto perso dal 2001 al 2006, a scapito soprattutto della Germania la quale ormai dà conto di un terzo dell’export dell’area e ha conosciuto nell’ultimo anno una significativa espansione della presenza sui mercati esteri nonostante l’euro forte.
Una delle poche certezze è che il problema non sta nel costo del lavoro. I dati a livello europeo parlano chiaro: la media oraria dell’industria manifatturiera italiana (22,40 euro nel 2004) è ben più bassa di quella tedesca (31,12), di quella francese (29,36) o del Regno unito (25,26), e fra i paesi maggiori solo la Spagna presenta valori più bassi (17,43). Sono divari ragguardevoli, anche tenendo conto della diversità nella composizione per settore e dimensione, e riflettono l’esistenza di un problema di sistema. Prendendo come riferimento la Germania, in quel paese il valore aggiunto per addetto (una misura rozza e immediata della produttività) nell’industria in senso stretto è pari a circa 62 mila euro (il dato è riferito al 2004): si colloca dunque ben al di sopra della media dell’Ue a 25 (53 mila euro) e ancor di più della media italiana (48 mila euro), la quale a sua volta è inferiore anche a quella spagnola (50 mila euro). In Germania è ovviamente più elevato anche il costo del lavoro per addetto, che viaggia attorno ai 46 mila euro contro i nostri 33 mila e i 30 mila della Spagna. Rapportando questi valori, la competitività delle imprese italiane, come pure di quelle spagnole, risulta addirittura superiore a quella tedesca. Anche la redditività delle nostre imprese risulta superiore a quella dei tedeschi, e questo senza tenere conto della probabile sottostima del valore aggiunto indotta dalla diffusa evasione soprattutto nei settori più polverizzati dell’economia: solo in Spagna e Regno unito competitività e redditività sono più elevate.
Cos’è che fa la differenza? I dati sull’innovazione forniscono qualche risposta. In Germania quasi il 60% delle imprese con almeno 10 addetti ha progetti di innovazione, e questa quota nell’ultimo triennio risulta in forte crescita rispetto al triennio precedente. In Italia la percentuale è al 35%, ben al di sotto della media comunitaria. Il grosso dell’attività innovativa è concentrata sui processi produttivi mentre in Germania è concentrata sui prodotti, con un maggiore investimento in risorse umane e in attività di ricerca e sviluppo. Inoltre le imprese non sono molto inclini e a spendere soldi in ricerca, preferisce che a farlo sia lo stato: costa meno. Dunque, meno del 50% della spesa per ricerca e sviluppo proviene dalle imprese, contro una media Ue del 63% e punte del 70% in Germania, Svezia e Finlandia. Ma anche la ricerca pubblica langue.

__________________

DONNE
Più occupate, ma non al Sud
Chiara Marchionni

Qualche buona notizia per l’occupazione femminile italiana. Secondo l’Istat, negli ultimi dieci anni le donne hanno trovato lavoro il 2% in più ogni anno, mantenendo un ritmo più che doppio rispetto a quello dei colleghi uomini. Considerando, tuttavia, che i dati sulla crescita occupazionale del Paese restano generalmente bassi rispetto al resto d’Europa, le donne italiane risentono ancora di una forte penalizzazione, che le porta ad accedere al mercato del lavoro con una certa difficoltà (meno 13 punti in percentuale rispetto alla media della «Ue a 15»).
A trovare impiego non sono state però le giovani leve, quelle che dopo anni di studi e relative fatiche sognano di poter finalmente avviare la tanto desiderata carriera. Le fortunate, le italiane che hanno trovato un posto di lavoro in questi ultimi, sono donne adulte, dai 30 ai 44 anni o – e più ancora – donne mature, al di sotto dei 59 anni, rimesse in gioco da uno stipendio che da solo in casa non basta più. Sono donne divise tra carriera e famiglia, sempre più spesso impiegate nel part-time (lo ha richiesto più del 71% delle lavoratrici dipendenti di questa fascia di età) e pienamente rispondenti a quella tendenza che le vuole lontane dall’inclinazione a prendersi carico dell’universo dei problemi familiari (bambini, anziani e i sempre più numerosi disabili». Più di tutto, resta grave la situazione del Mezzogiorno, dove la condizione occupazionale è la peggiore in assoluto, e a fare le spese di un ritardo che è soprattutto di tipo culturale sono le donne adulte, soprattutto con figli. Cosa fa lo Stato per loro? Nel 2004 hanno potuto beneficire del servizio pubblico per gli asili nido, solo 897 bambini su 10 mila, a dimostrazione di una capacità ricettiva «molto limitata» che ha la maggiore incidenza negativa proprio al Sud, pur ritendo «apprezzabile» la variabilità che riguarda però l’intero territorio italino.
Altro dato emergente è quello relativo alla componente lavorativa straniera. Qui risultano maggiormente impiegati gli uomini che le donne, tanto che il tasso di occupazione rapportato a quello delle donne italiane può dirsi relativamente identico. Ad incidere in maniera decisiva sul fattore occupazionale è il periodo che si è trascorso nel nostro paese, da cui sembra fin’ora tragga il maggiore favore la popolazione d’origine filippina, presente in Italia da ormai molto tempo.Quanto all’età, a essere coinvolte sono soprattutto le fasce più giovani, anche se le differenze con i ragazzi italiani si annullano se si tiene conto dell’impegno scolastico.

http://www.istat.it/dati/catalogo/20070517_00/

 

3321-il-rapporto-istat-fotografa-un-italia-sempre-piu-povera

4087

EmiNews 2007

 

Views: 3

AIUTACI AD INFORMARE I CITTADINI EMIGRATI E IMMIGRATI

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*


Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.