3417 BADANTI, il Welfare fatto in casa: indagine nazionale delle Acli

20070622 11:19:00 redazione-IT

Colf e badanti straniere: solo una su quattro vuole restare in Italia. Il sogno tornare a casa
Olivero:Il sistema non può reggere così per sempre
In Italia il 57% lavora in nero. I dati del ”welfare fatto in casa”

Solo uno su quattro (25%) vuole rimanere in Italia e uno su sei ha lasciato la famiglia in patria. Il 24% non ha documenti di soggiorno e la maggior parte è originaria dell’Europa dell’Est. Indagine dell’Iref-Acli

ROMA – Un futuro incerto quello del welfare italiano "fatto in casa”, che deve adeguarsi alle nuove “migrazioni di scopo”. Questa la fotografia che emerge dall’indagine Iref-Acli compiuta sui collaboratori e collaboratrici domestiche di origine straniera presentato oggi a Roma.

Solo uno su quattro (25%) vuole rimanere in Italia. La maggior parte è intenzionata a tornare in patria o spostarsi altrove, al più presto (28%) o non appena conclusa l"esperienza lavorativa (47%), purché duri solo pochi anni ancora (60%): sono soprattutto le cosiddette ‘badanti’, coloro che convivono con la persona assistita, a non voler portare avanti il proprio lavoro ancora per molto (circa 70%). Del resto, già al momento della partenza, 6 su 10 pensavano di venire in Italia soltanto il tempo necessario per risparmiare dei soldi. Il 24% è in Italia senza documenti di soggiorno. Il 57% lavora del tutto o in parte in nero: tra questi, il 61% concorda col datore di lavoro le irregolarità nei versamenti. Il salario medio è di 880 euro mensili, per 42 ore settimanali. Più della metà (51%) assiste persone anziane, mentre il 17% si prende cura dei bambini. Si sentono membri di famiglia (60%), ma chi vive nella casa in cui presta servizio (33%) lavora fino a 59 ore settimanali.

Sono stati circa mille i collaboratori e le collaboratrici di 66 nazionalità diverse intervistati tra marzo ed aprile, con un questionario somministrato “faccia a faccia”. La maggior parte è originaria dell’Europa dell’Est (31%), seguono quelli provenienti dalle Repubbliche dell’ex Urss (29%). Vi sono poi i collaboratori provenienti dall’Asia (16%), dal Centro e Sud America (14%), infine dall’Africa (9%). Scendono quelli provenienti dalle Filippine, mentre aumentano quelli provenienti dall’Europa orientale e soprattutto dall’ex Unione Sovietica (sono passate dall’11 al 33% dal 1997 ad oggi). Proprio questo avvicendamento tra le nazionalità di provenienza, hanno sottolineato i ricercatori, incide sulla stabilità del sistema di welfare familiare e ne mette in dubbio la sostenibilità per il futuro, tanto che sono soprattutto gli ultimi due tipi di collaboratori che considerano il loro trasferimento in Italia come un’esperienza di breve termine.

Minoritaria la componente maschile, infatti le donne rappresentano l’84%. L’età media è di 40 anni. Le famiglie ‘divise’ sono più del 60%. Il 40% spedisce ai propri familiari almeno la metà dei suoi guadagni, soprattutto tra coloro che vivono lontano dai propri cari.

Quasi un collaboratore su quattro (24%) vive e lavora in Italia in condizione di irregolarità, mentre il 54% ha un regolare permesso di soggiorno ed il 18% è riuscito ad ottenere una carta di soggiorno. E’ stata soprattutto la sanatoria del 2002, hanno spiegato i ricercatori dell’Iref, a permettere loro di mettersi in regola, mentre tra chi è entrato dopo la percentuale di irregolari sale al 41%. Più della metà (57%) svolge inoltre il proprio lavoro completamente o in parte senza contratto. Tra di essi, il 24% sono coloro che non possono avere un contratto perché residenti in Italia irregolarmente, mentre il 33% sono coloro che pur essendo regolari svolgono almeno un lavoro in nero. Tra questi ultimi, oltre la metà (55%) denuncia delle irregolarità nei versamenti previdenziali, tra coloro a cui non vengono versati e quelli a cui vengono versati solo parzialmente. Da rilevare che nel 61% dei casi questa opzione è il frutto di una scelta concordata dalle due parti in causa, datori di lavoro e collaboratori, quando non sono questi ultimi a chiedere di essere pagati in nero (14%). Ciò, secondo l’Iref, si spiega con il fatto di ottenere un salario maggiore, ma anche con “la consapevolezza dell’esiguità dei contributi versati ai fini pensionistici, insieme all’impossibilità di commutare questi contributi con una pensione da godere in patria”.

Lo stipendio mensile, su una media lavorativa di 42 ore settimanali, è di 880 euro, con una paga oraria media corrispondente a circa 6 euro. Ma forte è la disparità di trattamento, nel senso che chi è più ‘fragile’ – perché irregolare ed in Italia da meno di 2 anni – lavora in media 17 ore in più a settimana rispetto a chi è regolare e risiede nel nostro paese da oltre 10 anni (50 ore contro 33), ma guadagna anche meno: 750 euro mensili, contro oltre mille. Oltre la metà degli intervistati (57%) lavora in case in cui risiedono degli ultrasessantacinquenni, per cui rientra nella cosiddetta categoria del “badante”: il 29% assiste persone sole, il 20% presta servizio presso coppie di anziani, il 7% lavora presso famiglie con almeno un anziano a carico. Quasi un terzo di loro lavora invece per famiglie con figli (nel 77% dei casi si tratta di coppie a doppia carriera), svolgendo la mansione di “collaboratore domestico”. Il 17% si prende cura dei bambini.

Si sentono membri di famiglia (60%), ma chi vive nella casa in cui presta servizio (33%) lavora fino a 59 ore settimanali. Per chi vive con le persone per le quali lavora è normale mangiare spesso insieme (68%) e sedersi insieme in salotto a guardare la televisione o per scambiare quattro chiacchiere (67%), fino a festeggiare insieme i compleanni (37%) o partecipare a pranzi e feste di famiglia (17%). Per le Acli, è un “vero sistema popolare di integrazione multietnica e multiculturale”, anche se proprio questa dinamica della familiarizzazione comporta aspetti di ambiguità, nel senso che essere uno di famiglia rischia di tradursi in richieste sempre maggiori rispetto a quanto si è tenuti a fare. I collaboratori che convivono lavorano infatti, in media, 3 ore al giorno in più rispetto ai colleghi non conviventi: 59 ore lavorative settimanali, a fronte di 39. Disparità di trattamento anche riguardo al giorno di riposo: non ne beneficia il 21% dei lavoratori in coabitazione contro il 10% dei non conviventi.

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Il ”welfare fatto in casa”? Una realtà da cui non si può prescindere

Indagine Iref-Acli. Bindi e Olivero d’accordo: ”Aumentare il fondo per la non autosufficienza. Il ministro: ”Nel paese ci sono molte emergenze e la coperta è cortissima, bisogna colmare le carenze che si sono consolidate nel tempo”

ROMA – E’ giunto il momento di prendere consapevolezza che il welfare “fatto in casa”, ossia che si affida sul lavoro di collaboratrici domestiche straniere a carico delle famiglie, è una realtà da cui non si può prescindere e che quindi è tempo che il servizio pubblico se ne faccia carico. Se la loro presenza venisse a mancare, la situazione sarebbe tragica per le famiglie italiane, senza contare che nei prossimi anni la loro richiesta aumenterà sempre di più, mentre sta cambiando intanto l’offerta. Andiamo infatti incontro alla cosiddetta “migrazione di scopo” delle collaboratrici domestiche di “nuova generazione”, che si spostano solo per brevi periodi, giusto il tempo di mettere da parte qualche soldo, per poi rientrare in patria, senza garantire un ricambio. La risposta è una sola: l’aumento del fondo per la non autosufficienza, fino a più di un miliardo di euro nel breve periodo, ed una rete di servizi pubblici che si faccia carico della famiglia e dei suoi bisogni, legati soprattutto agli anziani. Questa è la ricetta espressa oggi dal ministro delle Politiche per la Famiglia, Rosy Bindi, intervenuta alla presentazione dell’indagine nazionale Acli-Iref sulle collaboratrici domestiche straniere che lavorano a sostegno delle famiglie italiane. In realtà, il ministro è andato oltre, chiedendosi se non sia possibile che questo tipo di mansione non possa essere svolta in futuro anche da qualche italiana, oppure che ci sia un qualche tipo di riconoscimento, come quello fiscale e previdenziale, per il familiare che decidesse di occuparsene.

“E’ un sistema che non può reggere – ha denunciato il presidente delle Acli, Andrea Olivero – perché estremamente logorante, sia per le famiglie, che per le lavoratrici immigrate, legate da una dipendenza reciproca e costrette spesso ad accordi al ribasso. Da una parte le famiglie raschiano il fondo del barile dei risparmi, per farvi fronte. Dall’altra è legato ai progetti migratori delle collaboratici di ‘nuova generazione’, orientate più di ieri al rientro a casa in tempi brevi, senza che nessuno possa garantirne il ricambio. Si aprono mercati lavorativi per loro più vantaggiosi sia in patria, dove la situazione è in evoluzione, che in Europa, che nella stessa Italia». Secondo Olivero “servono dei correttivi, ossia l’aumento del fondo per la non autosufficienza, ma anche accrescere l’elemento legalità, cioè vincolare le risorse per le famiglie alla possibilità di diminuire il lavoro nero delle collaboratrici e di aumentarne la retribuzione”. In particolare il presidente, insieme a Pina Bruscolin, responsabile Acli colf, ha fatto le seguenti richieste per le collaboratrici: la preparazione professionale, in modo che si garantisca “un’assistenza qualificata e responsabile”; un sistema di soggetti pubblico-privati che gestiscano il collocamento e la sostituzione; una copertura previdenziale omogenea, con la possibilità di riscattare in patria i contributi versati in Italia; il riconoscimento dell’indennità di malattia, come “questione di civiltà”; un percorso di regolarizzazione agevolata, come già fatto con la sanatoria del 2002; l’aumento della retribuzione.

Secondo il ministro, nel “paese ci sono molte emergenze e la coperta è cortissima, bisogna colmare le carenze che si sono consolidate nel tempo”, tanto che sarebbe necessario il triplo delle risorse. “Le richieste – ha evidenziato la Bindi – sono tutte legittime e paradossalmente prioritarie, ognuno ha la propria, ma io sono convinta che questa sia quella con qualche stella in più”. E’ necessario più di un miliardo di euro nel breve periodo, oltre ad un’integrazione socio-sanitaria più netta. “E’ una riforma del sistema nella vita del nostro paese – ha evidenziato – che bisogna con coraggio affrontare”, tanto più che “la risposta alla non autosufficienza è una risposta anche alle giovani generazioni”, in quanto si liberano delle risorse che le famiglie potranno usare a loro vantaggio e sarà comunque un problema che una volta divenuti adulti si troveranno a dover affrontare anche loro.

“Il welfare fatto in casa – ha continuato – deve entrare a pieno titolo dentro la rete dei servizi pubblici, proprio in nome della personalizzazione delle risposte, ma superando la privatizzazione”. Per la Bindi, l’assistente domiciliare deve essere “riconosciuto a pieno titolo come colui che ha in carico la persona non autosufficiente”. Il ministro si è trovato d’accordo con tutte le richieste che le sono giunte dall’Acli, tranne che su due. Secondo lei, “la retribuzione è già dignitosa, visto che gli stipendi medi degli italiani sono inferiori”, mentre le collaboratrici non devono nemmeno preoccuparsi di pagare vitto e alloggio. Rispetto alla copertura previdenziale, che preveda la possibilità di riscattare i contributi versati, la Bindi è favorevole ad “un sistema previdenziale modulato”, per cui anche in questo caso, fissati alcuni paletti, si tratta di trovare il percorso più adatto ad ogni singola persona. (vap)

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EmiNews 2007

 

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