3437 Il Che, il mito, il marchio

20070703 04:10:00 redazione-IT

di Maurizio Chierici (da l’Unita’)

Con le guerriglie che ogni sera accendono i Paesi alla fine del mondo (tre ore d’aereo dalle nostre abitudini) sembra paradossale la commozione che accompagna il ricordo del guerrigliero dei guerriglieri del secolo appena alle spalle. Ma la giovinezza brucia le rabbie e intiepidisce gli slanci e la memoria perde nel tempo veleni e ambizioni, ma non svaniscono i sentimenti, e il guerrigliero dei guerriglieri è un sentimento che accompagna due o tre generazioni cresciute sotto il segno del Che Guevara: poster, t-shirts e barbe dietro alle quali le masse adolescenti enfatizzavano rivoluzioni quasi sempre allo yogurt. E adesso comincia l’estate del Che.

Guevara è morto in ottobre, 40 anni fa, ma giornali e librerie, dibattiti e graffi si preparano all’evento. Mancano quattro mesi e già propongono antiche e nuove immagini: dal film «Viaggio in motocicletta» al documentario premiato con Gianni Minà al festival di Berlino. E la straordinaria ricostruzione su chi ha tradito Guevara: Erik Gandini l’ha raccolta in un documentario – «Sacrificio»- incoronato in Brasile e Portogallo.

Per il momento gira le città italiane in circuiti quasi underground, mentre Toni Capuozzo si incarica di inaugurare la saga Tv. Due libri stanno scalando la classifica delle vendite: «Evocacion: la mia vita al fianco del Che», ricordi di Aleida March, guerrigliera e moglie del guerrigliero (editore Bompiani) e «Guevariana: racconti e storie del Che», curato per Einaudi da Alberto Filippi e Paolo Collo. Sacrificio di Guevara che immalinconisce Josè Saramago, Eduardo Galeano, Osvaldo Soriano, Julio Cortazar. Chi lo ha incontrato e chi lo ha solo immaginato da lontano assieme a milioni di ragazzi anni sessanta. Il Che è morto quando aveva quasi 40 anni; ne avrebbe quasi 80 ma nessuno riesce a immaginarlo con la barba bianca così diverso da come lo ha sorpreso la Leica di Korda. Per ogni giovinezza quale simbolo più esaltante di un argentino di buona famiglia, cura i lebbrosi, libera Cuba dalla dittatura e subito ricomincia a camminare nell’illusione di liberare il resto del mondo? Ricomincia tagliando il passato: quando muore, muore un apolide che ha rinunciato agli onori e alla cittadinanza cubana e non ha chiesto a Buenos Aires di rimettere il nome nei registri argentini. È diventato nessuno.

La febbre del ‘68 era alla ricerca di un simbolo da sventolare nelle piazze. La foto che nel 1967 esce dalla valigia di Gian Giacomo Feltrinelli reduce dall’Avana dove incontra l’Italo Calvino che ha attraversato il mare per sposarsi nella città nella quale è nato; questa foto del Che dallo sguardo smarrito regalata da Korda all’editore del «Dottor Zivago», diventa la bandiera che tutti aspettavano. E ancora attraversa le piazze inquiete 40 anni dopo quando i fan hanno perso l’innocenza dell’idealismo per farsi largo nella vita: dirigenti d’azienda, machiavelli nei giornali, capi di personale che non perdonano, mentre il Che è sempre lo stesso: la morte ha pietrificato giovinezza e utopia. Ma non subito e non in ogni posto. Gli anni settanta sono anni complicati per l’America Latina. Il basco di Guevara non riusciva ad attraversare certe frontiere. I camion carichi di merci e campesinos che salivano dal Perù governato da generali progressisti ed entravano nella Bolivia del generale Banzer, prima di arrivare alla dogana sul ponte del Rio Desaguadero, facevano toeletta. Giravano le fiancate di legno sulle quali era stampata l’immagine di Korda per offrire alle polizie un messaggio senza problemi: «Todo va bien con coca cola». La notte argentina si è allungata agli anni ottanta. Regime militare che inceneriva ogni disobbedienza censurando anche i pensieri. «Era sufficiente tornare dall’Europa con un giornale con la foto del Che e si spariva. Ecco perché nessun ragazzo argentino lascia infoltire la barba; nessuna ragazza va in giro con un basco francese. Troppo pericoloso. E la cautela sopravvive alla fine della dittatura. Non si sa mai…»: amarezza di Ernesto Sabato, grande scrittore con un dubbio che vent’anni dopo è stato cancellato. «Chissà se gli argentini sapranno mai chi è stato Guevara». Guardando la sala delle 500 poltrone, Fiera del Libro di Torino, camicie e giacche blu appollaiate fin sotto il palco dove la figlia del Che presentava il libro della madre stretta da una folla che spaventa gli organizzatori; guardando facce di generazioni diverse, mi sono chiesto: ma tutti, proprio tutti, sanno cos’ha fatto Guevara? Eccitazione troppo giovane, entusiasmo delle magliette. E sessantenni sull’orlo della pensione ormai disposti a recuperare l’idealismo chiuso nel cassetto negli anni della carriera. Non si è spenta la curiosità dell’ascoltare come la moglie racconta il marito. Fin dalla seconda pagina del libro ci si dimentica di tutti i libri che da quarant’anni hanno raccontato la sua storia. Il Che lavora giorno e notte: dorme cinque ore, si sveglia e torna in ufficio. Appena sposato il Che ministro parte per Africa e Oriente: deve convincere cinesi, indiani e i presidenti del continente nero che la democrazia cubana può cambiare il mondo. «Un viaggio di tre mesi. Posso lavorare come segretaria, ma voglio stare con te», implora la giovane sposa. Impossibile, risponde il giovane marito. «Sarebbe un privilegio che chi dà l’esempio non si può permettere». E Aleida resta a casa. Quando nasce Aleidita, la pediatra commossa sul palco di Torino, il Che è in missione. Manda un telegramma da Shangai: aveva sognato un figlio maschio da chiamare Camillo come Cienfuegos, compagno sulla Sierra: «Con la solita ironia mi prende in giro: “Allora è una femmina. Chissà perché ti impegni sempre nel farmi arrabbiare”». Arriverà anche Camillo e Aleida «per ordine di Fidel» può raggiungere il marito sotto la tenda della guerriglia africana o a Praga dove l’irritazione di Mosca lo costringe ad un esilio concordato con Castro. Sono gli ultimi giorni che i due sposi trascorrono da sposi sia pure in vacanza coatta. Ufficialmente a Cuba Guevara non torna più. Torna un uomo dai capelli rasati, occhiali di vetro e protesi in bocca per perdere l’accento argentino: si preparava a sparire in Bolivia. È l’ultimo ricordo di Aleidita bambina. La voce si rompe scatenando l’applauso della folla torinese. Se questo è il Che privato, più profondo il ricordo del Che di «Guevariana». Rodolfo Walsh, giornalista e drammaturgo, è fra gli argentini che corrono all’Avana dopo la vittoria della rivoluzione: «Risento il vecchio Hemingway dire queste parole: “Andiamo a vincere, noi cubani andiamo a vincere”» e quando Walsh lo guarda con aria dubbiosa, lo scrittore si scusa battendo le ciglia: «D’accordo, sono yankee, non cubano ma questi ragazzi mi piacciono». Gli piace il Che che piomba all’Avana dove «gli abitanti impiegano un po’ di tempo per abituarsi al suo humor freddo e sottile, così porteño: cade loro addosso come un temporale. Quando capiscono chi è diventa una delle persone più amate». «Traditore», gli dice Eduardo Galeano mostrandogli il ritaglio di un giornale: appariva vestito da pitcher e giocava a baseball. Traditore perché un argentino deve credere solo al gioco del pallone e perché il baseball è una piega dell’imperialismo americano. Traditore? Il Che scoppia a ridere. «La conversazione rimbalzava come una pallina da ping pong da un argomento all’altro, da un ricordo a un rimpianto. “Che cos’ha la mia mano?”, chiede il Che a Galeano: “È maledetta”, risponde lo scrittore. “Maledetta?”. «Ha salutato Frondizi (presidente argentino) e Frondizi è caduto. Ha salutato Janio Quadros (presidente brasiliano) e Janio Quadros è caduto. Per fortuna che non ho nessuna carica dalla quale cadere e ti posso dare la mano. E lui rideva, si accigliava, camminava per la stanza lasciando cadere la cenere del sigaro. Me lo puntava al petto fingendo una minaccia». Il premio Nobel José Saramago non lo ha mai incontrato ma non gli piace che il Che sia stato usato «come incongruente oggetto di arredamento in molte case della piccola e media borghesia… sorta di rischiosa maniera per occupare l’ozio della mente, frivolezze mondane che non hanno mai retto il minimo scontro con la realtà quando è venuto il momento di passare dalle parole ai fatti. Ed è allora che il ritratto del Che, testimone di così tante azioni d’impegno, della paura nascosta, della codardia rinunciataria o addirittura del tradimento, è stato tolto dalle pareti e nascosto o distrutto come se si avesse avuto a che fare con qualcosa di cui vergognarsi».

L’ipotesi di Saramago fa balenare il ricordo di Regis Debray: intellettuale rivoluzionario, lo aveva raggiunto sulle pietraie della Bolivia per raccogliere le sue ipotesi sul futuro dell’America Latina. Ma appena lo catturano i ranger boliviani che danno la caccia ad una banda di straccioni armati, Debray si difende con poche parole di delazione: «Sono un giornalista e un saggista francese. Ho solo intervistato Che Guevara». Il Che, qui? Fino al momento nessuno ne sospettava la presenza. E comincia la grande caccia: cattura e morte. I primi saggi di Debray raccolgono l’ammirazione per il guerrigliero maestro. Ma ad ogni decennale della scomparsa l’entusiasmo si affievolisce, cominciano i dubbi che diventano accuse terribili dopo la scomparsa del presidente Mitterand del quale era consigliere. Il Che autoritario, sadico, psicopatico. Gli ultimi insulti risalgono al ‘97. Chissà cosa sta preparando per il quarantesimo anniversario. I giornalisti grigi che hanno invece seguito gli ultimi passi del Che in Bolivia, sono passati dal silenzio timoroso della gente di La Higuera (paese dei fichi dove è stato ucciso), alle ammissioni di averlo conosciuto, alle vanterie di avergli portato le ultime sigarette nella scuola dove aspettava la morte: il tempo passava, la paura spariva. A poco a poco il Che è diventato l’orgoglio dei contadini che lo avevano venduto. Nel ‘97 Walter Romero, scrivano e memoria storica di La Higuera, sospira con malinconia nello studiolo di pochi libri. «Guevara può diventare l’attrazione turistica di questo posto, polvere, rocce e niente. Mancano perfino le strade». Allunga una cartolina: l’immagine del Che sfumata nel fondo è attraversata da una linea rossa, l’ultimo viaggio. Accampamenti e soste, casa per casa, testimone per testimone: «L’abbiamo fatta stampare a Santa Cruz de la Sierra chiedendo al governo di La Paz di organizzare qualcosa. Nessuno si è fatto vivo». Adesso si è fatto vivo il governo di Evo Morales. È nata la «strada del Che»: 18 chilometri di una via Crucis con stazioni dolorose. Qui ha sofferto un attacco d’asma, qui non ha sparato a un povero graduato della polizia che non sapeva d’essere sotto tiro, qui è scappato nella notte mentre arrivavano i rangers. Le agenzie turistiche diffondono la lista dei «Che Hotels»: a Santa Cruz il Discount Hotel offre il 70 per cento di sconto alle carovane degli stranieri che si ripercorrono i passi di Guevara. Le chincaglierie dei ricordi affollano le bancarelle. Magliette «originali» con il basco di Korda vendute a prezzo d’affezione: 8,9 dollari. Il pericolo è che il ricordo diventi una celebrazione pasticciata dalle caricature di ogni Disneyland. Nel bene e nel male Guevaraland può far piacere solo a chi mette un piatto in tavola in un posto dove le tavole sono ancora vuote. Perché la memoria è un segreto del cuore che non batte più forte fra i cotillon. La sua rivoluzione boicottata da Mosca è finita al cimitero ma quarant’anni dopo a La Higuera arriva almeno il pane.

mchierici2@libero.it

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