3516 Silvana Mangione (CGIE USA) sulla riforma della Legge 153

20070730 15:26:00 redazione-IT

Che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa. L’araba fenice di cui parliamo è la modifica alla legge 153/71 in materia di promozione, diffusione e insegnamento della lingua italiana all’estero. Si sono scritti e spesi fiumi di parole, si sono ripetutamente fatte proposte, controproposte, allineamenti, commistioni, compromessi di proposte, un calcio al cerchio e uno alla botte, per cercare di arrivare ad un consenso generale. Morale? Sono passati trentasei anni dall’approvazione della 153/71, già bisognosa di svecchiamento e miglioramenti il giorno dopo la sua entrata in vigore e non è successo niente. Perché? Perché ci si scontra contro le necessità di questo o quell’ente, contro gli interessi costituiti di questa o quella categoria, contro questa o quella legislazione nazionale, entro la quale la rete diplomatico–consolare e gli enti che gestiscono i corsi devono agire.

La quadratura del cerchio non è facile, poiché essa sarà possibile soltanto se questa nostra Italia bellissima, artisticissima, creativissima, ma – ahinoi! – infinitamente provinciale e chiusa, riuscirà a capire quale importanza abbia la diffusione della nostra lingua all’estero, urbi et orbi, e non soltanto ai «figli degli emigrati», come – appunto – impone la 153/71 o meglio imporrebbe se legioni di intelligenti direttori didattici non avessero, nel tempo, trovato modo di far insegnare il linguaggio del «bel paese dove il sì suona» a chiunque abbia voglia di impararlo. Le cifre parlano da sé: «il sistema è costituito da migliaia di corsi, inseriti per oltre la metà nei curricoli locali e frequentati da 550.000 studenti; da 278 scuole all’estero, di cui 8 statali e 170 italiane legalmente riconosciute; 109 sezioni bilingui; 277 lettorati di ruolo e 142 assunti da università locali; 90 istituti di cultura, operanti in 108 paesi» (Fonte dei dati: documento finale dei lavori della sessione straordinaria della Commissione Scuola e Cultura del CGIE del 6 – 7 luglio 2007). Non solo. Non basta continuare ad allargare la platea dei potenziali fruitori, bisogna anche finanziare in maniera congrua questa invasione pacifica delle menti e delle laringi italofile all’estero, perché la spesa deve essere considerata un investimento e non – come chi non comprende nulla di mondializzazione e delle esigenze che essa presenta – come costosa «assistenza agli emigrati», sempre all’interno del famoso debito da ripagare. I debiti, veri, nei confronti dell’emigrazione vanno pagati in denaro sonante, non in politiche polverose e dannose sia per gli emigrati, i loro discendenti, gli italiani all’estero e i cervelli in fuga, sia per l’Italia. Bisogna cominciare a parlare fuori dai denti in questo crescente inciucio, che in alcuni ambienti di rappresentanza degli italiani all’estero sembra aver sostituito l’antico asse bianco–rosso con quello rosso–nero, e non sto parlando del Milan. Nel mondo sempre più piccolo in cui viviamo, due sole sono le strade che si aprono a chi vuole arginare e sanare il conflitto sanguinoso degli integralismi: il pluriculturalismo ed il pluriliguismo. In quest’ottica, una legge che consente l’insegnamento della lingua nazionale esclusivamente a chi ha almeno una goccia di sangue del nostro paese – al fine del mantenimento di un’ipotetica identità abbarbicata a tradizioni e ad immagini dell’Italia che non esistono – è non soltanto cieca, è un insulto al senso comune di chiunque non abbia una visione a tunnel, da una parte delle capacità di integrazione e autodeterminazione degli italiani all’estero, e dall’altra della posizione che l’Italia deve ricostruire nell’ambito della comunità internazionale ed in ogni singola nazione con la quale voglia interagire. In questo senso, mi sembra un ottimo punto di partenza il desiderio del neo–istituito Comitato per le questioni degli italiani all’estero del Senato della Repubblica italiana di occuparsi con urgenza del problema e di seguire l’iter del disegno di legge di modifica della 153/71. Nell’elenco delle audizioni previste dalla bozza di programma di lavoro presentata ai colleghi dal Presidente, Sen. Claudio Micheloni, hanno rilievo preminente i temi della promozione della lingua e della cultura italiana con l’affermazione: «La riforma delle legge 153 è un’assoluta necessità. Dalla costruzione del “piano paese” ad una visione della formazione degli insegnanti, delle scelte di indirizzo e delle forme di controllo, per una proposta complessa, che risponda al bisogno di modernità di questo settore». C’è anche l’altra faccia della medaglia. Gli italiani all’estero non hanno soltanto prodotto lingue ibride, che stanno diventando oggetto di studio di linguisti e semiologi, al pari dei dialetti italiani, da proteggere perché rappresentano una ricchezza espressiva legata alla storia delle singole aree del nostro paese e del mondo. Gli italiani all’estero hanno anche prodotto, e continuano a produrre, cultura, in tutte le sue forme, artistica, letteraria e concreta. Personalmente parlo da anni di «cultura di ritorno» che, come l’informazione di ritorno, è un’altra araba fenice non ancora sorta dalle ceneri di stereotipi altrui. È vano ogni tentativo di convincere i soloni italiani, sordi alla comprensione che l’evocazione di cervelli a foggia di valigie di cartone è esercitata utilitaristicamente soltanto da chi desidera perpetuare il concetto di cittadini di serie B. E le storie di successo? E gli imperi industriali e finanziari nati dal lavoro dei singoli? E i premi Nobel italiani all’estero come ce li facciamo rientrare? Come eccezionale estensione del genio italiano che non può realizzarsi in patria? Lasciamo perdere. Il discorso ci porterebbe troppo lontano. Torniamo alla cultura di ritorno, e citiamo – ad esempio – la elaborazione di memoires che prendono forme diverse, dalla cinematografica alla letteraria, dalla scultorea alla teatrale, in ogni paese, da parte di un crescente numero di artisti italo–esteri. Essa sola, singolarmente presa potrebbe spalancare panorami di lettura dei percorsi della diaspora, dell’integrazione, della costruzione di inediti ubi consistam, rispettosi della discendenza e orgogliosi di un’idea di patria che non è nazionalistica, ma volontariamente affettuosa e radicata. E vi pare poco? A favore di questa Italia che ha sempre meno amore per se stessa?

Silvana Mangione
(da Gente d’Italia)

 

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EmiNews 2007

 

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