3575 Ferrero: «Non vogliamo la crisi, ma rispettateci»

20070823 11:11:00 redazione-IT

Felicia Masocco (da l’Unità)

Il rischio di crisi «esiste nella misura in cui il programma dell’Unione diventa carta straccia». Per il ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero «il Partito democratico ha in mano il pallino, deve decidere se accettare i diktat di Bonino e di Dini che nulla hanno a che vedere con il programma, o se stare nel solco che quel programma ha tracciato». Il protocollo sul welfare è un compromesso interno al Pd, afferma, «la sinistra non è stata coinvolta». «L’ultima cosa che voglio è rompere la coalizione», «lo riterrei una sconfitta». «Ma una coalizione non è una caserma, riconosce la pari dignità e media».

Tira aria di crisi economica, mentre il protocollo sul welfare divide la coalizione. Damiano dice di fare attenzione a non tirare troppo la corda. Si spezzerà secondo lei?
«Penso di no. Il protocollo che pure ha elementi positivi, su due punti non è coerente con il programma: non tira via le norme che permettono che la flessibilità diventi precarietà, mentre lo scalone si è trasformato in scalini molto ravvicinati. Su questi punti chiediamo di cambiare. Credo peraltro che sugli elementi di crisi, sia Padoa-Schioppa che Prodi diano risposte sbagliate».

Il rigore non va bene?
«L’austerità non risolverebbe i problemi. Seppure applicassimo in modo thatcheriano la via del rientro dal debito per evitare spese più alte per gli interessi, si avrebbe, poniamo, una riduzione di 10 miliardi di euro a fronte di 1600 miliardi di debito complessivo, lo 0,6%, è inessenziale».

Lei quale strada indica?
«Occorre rafforzare l’economia reale sul terreno della ricerca, del potenziamento dell’apparato industriale, seguendo la via alta allo sviluppo, e questo nel protocollo non c’è. Occorre rendere più stabile e sicuro il lavoro e redistribuire reddito, cosa che nei ragionamenti di Padoa-Schioppa mi pare scomparsa. Penso che chiedere di migliorare il protocollo in sede di discussione parlamentare e dare risposte effettive ai problemi posti dalla finanziarizzazione dell’economia, vadano nella stessa direzione. È una ricetta coerente con il programma dell’Unione che tiene assieme politiche sociali ed economiche».

È un punto di vista a fianco di altri all’interno della coalizione. Farlo valere può portare alla crisi di governo. Se la sente di assumere questo rischio?
«Il rischio esiste nella misura in cui il programma dell’Unione diventa carta straccia. Secondo me il Partito democratico, che ha in mano il pallino, deve decidere se accettare i diktat della Bonino e di Dini che nulla hanno a che vedere con il programma dell’Unione, o se stare nel solco che ci siamo dati con il programma. Noi vogliamo andare nella direzione su cui abbiamo chiesto i voti per dare una risposta al berlusconismo. Non è stata una campagna elettorale moderata. E tentiamo di evitare che il tutto si trasformi in un braccio di ferro tra partiti. Anche la manifestazione risponde alla necessità di non sequestrare la discussione nelle sedi partito, ma farne un confronto di società».

La manifestazione sulla precarietà del novembre scorso si trasformò in un corteo contro il governo, Cioè contro voi stessi. Ha torto chi dice che è un paradosso?
«Intanto non ho sentito mai argomenti di questo tipo quando Mastella, Fioroni e pressoché tutti i sottosegretari della Margherita sono andati al Family Day che mi risulta fosse una manifestazione contro un disegno di legge approvato dal governo. Questo avere due pesi e due misure per cui se lo fa l’asse centrista della coalizione è un contributo al dibattito, se lo fa la sinistra ci sono i barbari alle porte, è inaccettabile. Ci vuole almeno pari dignità politica».

Non c’è stata nel caso del protocollo?
«Quel compromesso è sostanzialmente interno all’orizzonte politico del Partito democratico. La parte sinistra dell’Unione, un terzo dei parlamentari, a spanne un terzo dei voti dell’Unione, non è stata coinvolta nella gestione del protocollo. Non si può fare prima l’accordo senza tener conto di una parte consistente della coalizione e poi, in nome della patria, dire che non si tocca nulla. Esiste una coalizione. Ripeto, il pallino ce l’ha in mano il Pd. Deve decidere se guida una coalizione di carattere riformatore e quindi fare i conti con le posizioni della sinistra, non dico di accettarle, ma di mediare con queste posizioni e quelle del movimento operaio, visto che mi risulta che anche la Cgil abbia qualche sofferenza».

Le sorti del governo sarebbero in mano al Pd?
«Deve scegliere se dialoga di qua oppure se dialoga con i poteri forti e spacca il movimento operaio. L’ultima cosa che voglio è rompere la coalizione, ma è una coalizione, appunto, non una caserma in cui qualcuno sottoscrive un accordo e qualcun altro che non è stato tenuto in conto deve semplicemente votarlo. Una coalizione chiede una mediazione. Il programma era una mediazione, non era il programma di Rifondazione. Sul lavoro a tempo determinato ci abbiamo passato le giornate a limarlo, come mai adesso è carta straccia? Mi dispiace, la coalizione riconosce la pari dignità, sia pure con pesi diversi».

Damiano afferma che il programma si sta applicando…
«Le propongo di fare uno specchietto di cinque righe mettendo a confronto quello che dice il programma sui contratti a termine e quello che dice il protocollo così gli elettori si fanno un’idea se ho ragione io o Damiano».

Non è che alla fine ha ragione chi afferma che la manifestazione di ottobre sia più un messaggio per il Pd che altro?
«No, parla al governo, solo che l’azionista di maggioranza è il Pd, non si prescinde. E per quanto mi riguarda l’obiettivo non è nei termini “o la va o la spacca”, ma produrre coerenza del governo rispetto programma. Per far coesistere le diverse anime della coalizione bisogna avere un’idea di società: nel programma c’era e c’è. Io sulle liberalizzazioni la penso diversamente da Bersani, ma abbiamo fatto un compromesso e non chiedo di nazionalizzare Alitalia. Chiedo il rispetto di quel compromesso. Invece si media sul programma come se fosse la mia posizione, spingendo i risultati sempre più a destra».

Ministro, lei non sembra molto turbato, eppure…
«Sono tranquillo perché se noi non dicessimo nulla sulle cose che non vanno, succederebbe che le persone che hanno votato l’Unione la prossima volta non andrebbero a votare. E si rafforzerebbe la presa della destra populista sui ceti più deboli. Si porrebbero le condizioni per perdere le prossime elezioni a mani basse».

È la stessa conclusione a cui arriva Damiano, lui però parte dal rischio di una replica del ‘98. Rifondazione uscirà dalla coalizione?
«Nel ‘98 un programma non c’era per cui valeva solo la dialettica tra forze politiche. Oggi ci attacchiamo come pazzi al programma perché è quella la strada per evitare il rischio. Io lavoro per scongiurarlo, lo riterrei una grave sconfitta».

www.unita.it

 

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EmiNews 2007

 

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