3688 Che Guevara: quella targa nella casa di fronte, a Rosario.

20071010 11:07:00 redazione-IT

La notizia della morte d’ Ernesto Che Guevara ci giunse, terribile ed inattesa, nel salone dell’ex Cral di Agrigento dove eravamo riuniti per un’assemblea provinciale degli eletti comunisti, presieduta da Armando Cossutta.
Era un pomeriggio di una tiepida domenica ottobrina. I compagni erano venuti da ogni angolo di questa provincia povera ma combattiva col vestito della festa, come si usava allora.

In giacca e cravatta e con tante idee in testa, abbarbicati alle nostre granitiche certezze, udivamo l’eco lontana del ’68 che già bussava alle porte delle piazzeforti del potere della società occidentale.
Sapevamo del Che Guevara, del combattente intrepido che per noi giovani incarnava, in quel momento, il sentimento più autentico della rivoluzione socialista mondiale.
Taluni lo bollarono come un avventuriero romantico, votato al suicidio.
Qualcosa di vero c’era in quelle critiche, tuttavia a molti parve che quella bella “avventura” potesse scuotere quel corteo pietrificato di mummie che popolavano le dorate stanze del Cremlino.
Quel giorno d’ottobre del 1967, sulle montagne boliviane morì un uomo ma nacque un mito potente e affascinante che continua a segnare gli ideali e gli stili di vita di milioni di giovani. E non solo.
Un fenomeno talmente vigoroso sul quale, non a caso, hanno allungato le grinfie i mercanti di quelle multinazionali che fecero ammazzare il Che, barbaramente.
Oggi, si può disquisire sulla bontà della strategia politica e/o della tattica della guerriglia guevariana, tuttavia nessuno può mettere in dubbio la forza seducente di un mito che nemmeno le più serie riflessioni critiche hanno scalfito.
Certo, anch’egli avrà commesso qualche errore, ma quel volto bello, velatamente intristito, è l’icona più amata di questo quarantennio.
Durante questi anni, altri “miti” si sono affacciati, soprattutto sul palcoscenico di cinema e tv, ma presto sono scomparsi, evidentemente perché effimeri come la moda che li ha generati.
Quello del Che ancora ben resiste e si tramanda di generazione in generazione.
E questo dovrebbe far riflettere poiché vuol dire che quel mito è ancora necessario per placare le nostre inquiete coscienze, per sperare d’uscire dal groviglio di contraddizioni e d’ingiustizie che pesano sul presente e sul futuro dell’umanità.
Ma torniamo ad Agrigento, a quella domenica d’ottobre, quando, improvvisamente, nella sala l’atmosfera si fece pesante, gravida di preoccupazione, come quando s’attende l’emissione di un’edizione speciale straordinaria. Il presidente interruppe l’acceso dibattito sui magri destini dei nostri enti locali e diede la parola alla compagna Vittoria Giunti, partigiana e sindaco di S. Elisabetta.
Avrebbe voluto essere formale, Vittoria, secondo il rituale tipico di queste circostanze, invece dopo le prime parole “Abbiamo ricevuto dalla Direzione la conferma…” proruppe in un pianto irrefrenabile, sincero, che annunciava la morte di un sogno.
“E’ caduto in combattimento, sulle montagne della Bolivia…” aggiunse, quasi a volerci rassicurare che il Che era morto da combattente, com’era vissuto per la gran parte della sua esistenza, e che non aveva tradito il senso morale e politico della sua missione che ora, in forza del suo esempio, s’affidava alle nuove generazioni.
Sono passati 40 anni è ancora c’è tanto da conoscere, da discutere intorno a questa eccezionale figura di rivoluzionario un po’ atipico. Ma devo chiudere e lo faccio con una nota un po’ amara, a margine di questa personale rievocazione di Ernesto Guevara il cui mito- come detto- resiste in tutto il mondo, tranne a Rosario (Argentina) sua città natia. Nemo profeta in patria, dicevano i latini, ma in questo caso il disinteresse della “patria” mi sembra davvero cieco quanto ingiustificato.
Stranamente, non si parla né si scrive di questa incomprensibile ritrosia che, per altro, si verifica in una città di lunga tradizione operaia, tuttora guidata da una giunta progressista.
A parte qualche portachiavi, il mito del suo illustre figlio ancora non è approdato su questa sponda del rio Paranà.
Si è arrivati al punto- come ho constatato nell’ottobre 2005- che sulle pareti della casa natale del Che (in calle Entre Rios) non c’è una targa o un segno qualsiasi che ricordi che in quella palazzina nacque Ernesto Guevara Serna.
Una dimenticanza? Pare proprio di no. La causa- mi è stato detto- sembra dovuta ad un ripetuto rifiuto dei condomini, fra cui una società di assicurazioni, i quali, forse, temono di veder turbata la loro quiete piccolo-borghese.
Per rimediare a tale riprovevole diniego, gli estimatori del Che hanno applicato una targa rievocativa sulla parete della casa di fronte.
A ben pensarci, qualcosa di simile è successo, e succede, anche a Palermo ogni qual volta si è voluto onorare la memoria e il sacrificio delle vittime di mafia. Successe, tempo fa, per l’apposizione di una targa a Giovanni Falcone, succede oggi con le esternazioni (di ieri) del presidente del Parlamento siciliano, on. Miccichè, il quale ha pubblicamente stigmatizzato l’errore di aver denominato l’aeroporto palermitano “Falcone e Borsellino” poiché – secondo lui- tale denominazione scoraggia il turismo.

Agostino Spataro
10 ottobre 2007

 

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EmiNews 2007

 

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