3680 II° Rapporto Italiani nel Mondo – 2007: Relazione di Delfina Licata e Franco Pittau

20071006 15:00:00 redazione-IT

Con la collaborazione di Claudia Mancosu e Maria Paola Nanni
Redazione centrale del Rapporto Migrantes Italiani nel Mondo c/o Centro Studi e Ricerche IDOS

Il Rapporto Italiani nel Mondo, con la seconda edizione di ottobre 2007, mantiene la promessa di salvaguardare la cadenza annuale. È stato così assolto l’impegno assunto dalla Fondazione Migrantes e dal Comitato promotore (Acli, Inas-Cisl, Mcl e Missionari Scalabriniani), con l’aiuto di
numerose strutture pubbliche e dell’associazionismo. A curare il Rapporto è stato il Centro Studi e Ricerche Idos, che raccoglie i redattori del Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes, in collegamento con 50 autori delle più diverse estrazioni.

Dopo 150 anni di storia migratoria, in cui
sono state coinvolte tutte le regioni insieme ai numerosi paesi di destinazione, le pagine a stento
sono state sufficienti per curare tutti gli approfondimenti ipotizzati. La trama dei 40 capitoli si
ripartisce in tre filoni:
Ieri – Il ricordo del passato
Oggi – La conoscenza della situazione attuale
Domani – Progettualità per il futuro
Ieri – Il ricordo del passato
L’Italia si presenta oggi come un grande paese di immigrazione, con più di 3,5 milioni di immigrati,
che con la loro ben visibile prossimità, rischiano di far dimenticare l’emigrazione italiana, un
fenomeno che ha assunto nel passato una dimensione di massa e che anche attualmente, continua ad
essere di eccezionale rilevanza. Da una parte, l’esperienza maturata quando eravamo noi immigrati
ci può aiutare a impostare la convivenza con gli immigrati che ora vivono in Italia: le vicende
umane, anche se non si ripetono mai alla stessa maniera, hanno aspetti comuni e tanto resta da
imparare da questa esperienza vissuta, da prendere serenamente in considerazione, senza rimuoverla
o idealizzarla. D’altra parte, la presenza italiana nel mondo non costituisce solo un’esperienza
storica ma si rivela anche un’opportunità per il futuro del nostro paese, sempre più alle prese, e non
senza difficoltà, con il fenomeno della globalizzazione e dell’internazionalizzazione dell’economia.
L’Italia è stato un caso unico tra i grandi paesi industrializzati, con più di 28 milioni di emigrati
dal 1861 ad oggi. Un terzo di queste persone sono rimpatriate, spesso con i loro figli: è elevato in
Italia il numero dei residenti nati all’estero, che include non solo la nuova presenza dei cittadini
stranieri ma anche i protagonisti dell’emigrazione di ritorno, sui quali da parte dell’Istat sarebbe
auspicabile uno studio organico per conoscere l’altra faccia della medaglia. Con il tempo si è
affievolita la memoria di questi flussi che nell’insieme hanno rappresentato uno dei più grandi
fenomeni sociali del paese, che ne ha accompagnato lo sviluppo con un grande effetto benefico.
Si può considerare l’emigrazione una sorta di commento della nostra recente storia, della quale
puntualizziamo gli aspetti più significativi:
– il sottosviluppo che caratterizzava l’incipiente cammino dell’Italia unita, quando si emigrava
anche dalle Regioni settentrionali e nel Meridione era difficile sfuggire all’alternativa
“emigranti o briganti” e sopravvivere alla povertà;
– i consistenti flussi che si attuarono tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento e che si
diressero in maniera particolare verso le Americhe;
– il bisogno di emigrazione dopo la prima guerra mondiale, che venne mortificato dalle
vicende economiche dell’epoca e dalle politiche restrizionistiche, specialmente nei confronti
dei meridionali, e anche dalle limitazioni del periodo fascista, salvo la fuoruscita di politici,
intellettuali, sindacalisti ed ebrei invisi al regime;
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– gli impetuosi flussi del secondo dopoguerra, alimentati da specifici accordi di emigrazione
con vari paesi, ai quali si chiedeva aiuto economico in cambio di braccia da lavoro;
– il miracolo economico italiano degli anni ’60, che ha collocato l’Italia tra i grandi paesi
industrializzati del mondo e man mano ha determinato l’inversione dei flussi, privilegiando i
ritorni e, quindi, l’intervento delle Regioni a sostegno delle collettività all’estero.
Oggi si fa un viaggio in poche ore da un continente all’altro. I nostri emigrati in Europa
prendevano il treno in terza classe e oltreoceano si spostavano in nave, in camerini affollati o sui
ponti, con due gallette al giorni, senza profilassi e tutela sanitaria e potevano impiegare, prima di
arrivare a destinazione, anche quattro o cinque settimane, come era il caso dell’Australia. Nel paese
d’arrivo venivano ammessi solo se di sana e robusta costituzione fisica e non era raro che la loro
avventura finisse proprio quando doveva iniziare. Si era così poveri da dover acquistare il biglietto a
credito oppure, nel secondo dopoguerra, si approfittava dei passaggi pagati previsti dai programmi
di emigrazione assistita, come avvenne ad esempio nell’accordo bilaterale con la Germania o nei
flussi diretti alla città di Bedford in Gran Bretagna, dove, a supporto dell’industria locale del
mattone, gli italiani arrivarono a incidere per il 10% su una popolazione di 80 mila persone.
Dire che gli italiani siano stati sempre ben accetti e apprezzati per le loro qualità è
nient’altro che una pietosa bugia. Ad esempio, a Londra, all’inizio del secolo scorso, i connazionali
avevano costituito la Little Italy a Holborne e operavano come piccoli artigiani, venditori ambulanti
di statuette, venditori itineranti di castagne, lavoratori di piastrelle, artisti di strada, suonatori di
organetto, saltimbanchi: insomma, si possono paragonare a quelli che sono i lavavetri e i vu cumprà
di oggi e si possono immaginare le reazioni negative nei loro confronti, che si ricavano dai
documenti dell’epoca e dai libri dedicati all’emigrazione.
Eppure, a dispetto di questi inizi, è stata forte la dinamica di affermazione. Queste
emigrati, umili e senza titolo di studio, ma tenaci e ricchi di speranze, hanno fondato città, da
Capitan Pastene in Cile a Faribanks in Alaska, hanno creato aziende agricole nell’America Latina,
sono diventati capitani d’industria in tutti i paesi del mondo, hanno promosso il turismo come ad
esempio nella Terra del Fuoco in Argentina, hanno promosso squadre di calcio anche famose come
quelle argentine del Boca Juniors o del River Plate, hanno costruito ferrovie, scavato tunnel, aperto
strade.
La storia dell’emigrazione è una galleria impressionante di personaggi. Qualche figura è
unica, come quella di John Martin, alias Giovanni Martini, nato a Sala Consilina in provincia di
Salerno: fu il solo scampato all’eccidio di Little Big Horn nel 1876 come trombettiere del 7°
Cavalleggeri del Generale Custer. Altri furono più famosi all’estero che in Italia, come il musicista
sardo Lao Silesu (nato a Samassi (Cg) nel 1883 e morto a Parigi nel 1953), un vero ragazzo
prodigio che, trasferitosi prima a Milano e poi a Parigi e a Londra, venne definito da re Edoardo VII
“il re della melodia”. E poi vengono i personaggi conosciuti da tutti: negli Usa, ad esempio, senza
parlare di registi, attori, docenti, professionisti e limitandosi solo ai politici di entrambi gli
schieramenti si possono citare: Rudolph Giuliani, già sindaco di New York e possibile candidato dei
repubblicani alla Presidenza USA e tra i democratici, Mario Cuomo, già governatore dello Stato di
New York e Nancy Pelosi, speaker della Camera dei Deputati.
I musei dell’emigrazione sono quelle strutture nate per non far dimenticare la lezione
dell’emigrazione. Il più famoso è quello che si trova in un’isoletta, Ellis Island, nel porto di New
York. È stato realizzato un filmato dal titolo “Ellis Island. Il primo Cpt”, facendo riferimento ai
Centri di permanenza temporanea in cui attualmente vengono trattenuti gli immigrati, tanto in Italia
che in altri paesi. Il video su internet viene così presentato: “Storie di migrazioni”. L’Italia, fino a
pochi decenni fa, era un paese poverissimo. Molti venditori di sogni ingannavano i nostri nonni,
promettendo terre da paradiso. La realtà era molto diversa. Per esempio chi arriva a Ellis Island,
trovava una dura selezione che rispediva indietro malati e poco intelligenti). Questi musei sono stati
creati in quasi tutte le regioni italiane e, attraverso un collegamento con la scuola, sono in grado di
permettere un recupero di memoria.
I fatti da ricordare sono tanti e significativi, come indica una veloce esemplificazione:
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– 1870-1913: inizia un periodo di intensi flussi migratori
– 1913: anno di quasi 900 mila espatri
– La “fantastica pioggia d’oro” delle rimesse
– 1940: più di 446 italiani affondati nell’Arandora Star mentre vengono deportati dalla Gran
Bretagna in Canada
– Dal 1945: drammatica situazione di persone senza tetto e senza lavoro e accordi con il
Belgio, l’Argentina e altri paesi per collocare la manodopera italiana
– 1975: i rimpatri prevalgono sugli espatri
– 1986: la prima legge italiana sull’immigrazione straniera
– 1992: la riforma della legge sulla cittadinanza
– 1998: le rimesse degli emigrati vengono superate da quelle degli immigrati
– 2001: la legge sul diritto di voto degli italiani residenti all’estero
– 2006: l’elezione dei primi parlamentari nelle circoscrizioni estere
– 2006: la Fondazione Migrantes pubblica, dopo venti anni di interruzione, un “Rapporto sugli
italiani nel mondo”.
Oggi, a distanza di tempo, si possono citare con orgoglio le realizzazioni di questo popolo di
emigranti, ma questo non vuol dire che le vicende degli italiani all’estero, anziché configurarsi
come una storia umile, siano state una serie di successi perché ciò sarebbe una mistificazione.
Come già accennato gli italiani, spinti da un prepotente bisogno di sopravvivere, non sono stati
sempre bene accolti dalla popolazione locale. Nella vicina Francia, dove ormai sono tanti i
naturalizzati, a Aigues Le Mort (1893) ci fu una rivolta contro gli italiani e una vera e propria caccia
all’uomo nei loro confronti, che alla base, più che i fatti contingenti, avevano la paura della
concorrenza di questa manodopera affamata. Negli Stati Uniti, a Milwaukee nel 1917, gli italiani
erano così invisi da farli condannare in tribunale senza prove. Sempre in quel paese seguirono leggi
restrittive per quanto riguarda l’accesso dei meridionali. Atteggiamenti discriminatori, e
giuridicamente non fondati, si ebbero contro gli italiani in Canada e Gran Bretagna, complice anche
l’entrata in guerra decisa da Mussolini: varie centinaia di italiani, che venivano deportati come
sospetti in Canada, morirono a seguito dell’affondamento del transantlantico Arandora Star nel
1940, causato da un sottomarino tedesco. Altri, in Germania come lavoratori forzati, morirono sotto
il bombardamento alleato nel 1945 a Duisburg. Senza contare le morti di minatori, con lo stillicidio
della silicosi o nelle disgrazie collettive come quelle di Monongah negli Stati Uniti (1907) o di
Marcinelle in Belgio (1956) e quelle, ancor più numerose, di persone sole e povere.
Ogni paese è un capitolo di storia, che ha qualcosa da ricordarci, specialmente ora che i flussi si
sono invertiti ed è l’Italia ad attirare manodopera. La Romania è uno tra i tanti esempi dell’incrocio
di emigrazione/immigrazione. In quel paese emigrarono dalla fine dell’Ottocento molti italiani dal
Nord Italia, dei quali resta una piccola collettività di discendenti, che si estende dalla Dobrugia alla
Moldavia, dai Carpazi alla Transilvania, e ricorda i flussi che, a fine Ottocento, dal Friuli e dal
Veneto fornirono i lavoratori per le cave di granito, gli artigiani e gli impresari per l’edilizia. Le
loro condizioni di vita fanno risaltare il contrasto con l’attuale emigrazione in Romania, fatta da
migliaia di aziende, specialmente dal Veneto e dalle altre regioni del Nord Est, che, attirate dal
costo più favorevole della manodopera locale, danno lavoro a più mezzo milione di romeni. Oggi i
romeni in Italia sono una collettività che, grazie anche alla libertà di spostamento garantita
nell’ambito dell’Unione europea, superano il mezzo milione e molto spesso, per fatti veri di
criminalità di singoli e talvolta solo presunti, sono inquadrati in maniera negativa, così come una
volta lo erano gli italiani all’estero.
Un altro esempio significativo è l’Argentina, dove è stato ben più rilevante il nostro afflusso: vi
sono sbarcati più di tre milioni di italiani, la maggioranza degli abitanti è di origine italiana e quasi
mezzo milione ha conservato la cittadinanza italiana. A iniziare l’insediamento furono i contadini,
che vi arrivarono dopo viaggi avventurosi e vennero accolti a braccia aperte. Seguirono gli operai
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qualificati e gli artigiani, che contribuirono sostanzialmente al miracolo economico della “Svizzera
latino-americana”. Nell’ultimo dopoguerra, in un’Italia stremata, i flussi si diressero specialmente a
Buenos Aires, bisognosa di lavoratori, che si inserirono in tutti i settori, diffondendo un carattere di
“italianità” a tutti i livelli. Dagli anni Duemila si è affermata una emigrazione in senso inverso,
perché sono gli argentini di origine italiana a venire in Italia, chiedendo previamente la cittadinanza
per non incappare nelle maglie restrittive delle norme sull’immigrazione e, il più delle volte,
trasferendosi ulteriormente in Spagna, paese considerato più soddisfacente dal punto di vista
culturale e occupazionale oltre che per motivazioni linguistiche.
Un altro caso esemplare sono gli Stati Uniti, dove quelli che hanno conservato la cittadinanza sono
200 mila, mentre gli oriundi vengono stimati nell’ordine di 15 milioni. In questo paese le
affermazioni degli italiani, in tutti i settori, sono palesi e però pesa allora negativamente il connubio
italiano-malavita. “Il Padrino” di Mario Puzo, nel 1969, ha ricordato le vicende della mafia negli
Stati Uniti, una storia che può essere scritta anche in altro modo. Alcuni emigrati, con un po’ di
lingua inglese e grande prepotenza, si intrufolavano nelle operazioni di ingaggio della manodopera,
e, ben considerati dai datori di lavoro, taglieggiavano e, con le buone o le cattive maniere, tenevano
tranquilli i corregionali da assumere. Diventati poi troppo potenti, hanno dato fastidio al grande
capitale e sono stati considerati solo prodotto di importazione. Probabilmente la storia,
reinterpretata dal punto di vista di quanti l’hanno dovuta subire, in questo come in altri casi,
porterebbe a ritoccare le descrizioni alle quali siamo abituati.
Oggi – La conoscenza della situazione attuale
L’Italia, che si trova al di fuori d’Italia, è tre volte più grande rispetto ai 55 milioni di residenti
perché conta 3.568.532 italiani che hanno conservato la cittadinanza, pur essendosi stabiliti
all’estero; tra i 60 e i 70 milioni di oriundi, tra figli, nipoti e pronipoti; più di 100 milioni di cittadini
esteri interessati alle cose italiane. Gli italiani all’estero sono destinati ad aumentare, e
notevolmente, a seguito della riacquisizione della cittadinanza da parte di centinaia di migliaia di
persone, che hanno già presentato domanda presso i consolati, e così anche gli oriundi. Non è
escluso che aumentino anche le persone interessate all’Italia, ma non solo per l’apprezzamento della
sua storia e di quanto è riuscita a creare nel passato ma, auspicabilmente, anche per quanto riuscirà
a fare nel mondo di oggi, se si riuscirà a porre fine a una situazione che, sotto diversi aspetti, è di
stallo.
La presenza italiana all’estero è in prevalenza euroamericana (9 su 10), anche se tocca tutti i
continenti. Più della metà in Europa (2.043.998, 57,3%) e più di un terzo in America (1.330.148,
34,3%). Si farebbe un torto alla realtà trascurando gli altri continenti, non solo l’Oceania (119.483),
cittadini concentrati prevalentemente in Australia, rimasta a lungo un importante sbocco dei nostri
flussi, ma anche l’Asia (26.670, a seguito dei nuovi flussi migratori, per lo più a livello altamente
qualificato) e l’Africa (48.223), dove molti paesi (Nord Africa, Corno d’Africa, Sud Africa) sono
stati raggiunti dai connazionali e dove, nonostante gli aspetti problematici di questo continente, si
dirigono flussi temporanei di maestranze a seguito delle proprie aziende. Questi insediamenti, se si
pone attenzione a quanto raccontano e scrivono i diretti interessati, hanno tutti specifici motivi di
interesse, anche se quantitativamente è notevole la differenza tra di loro.
Vi è un trio di grandi paesi con mezzo milione e più di italiani: Germania, Argentina e Svizzera,
seguiti dalla Francia con 350.000 italiani, e molti di più tenendo conto anche dei naturalizzati,
riflessione che vale anche per gli altri contesti. Vi sono poi paesi che si collocano a livello di 200
mila (Belgio, Brasile, Stati Uniti) o 100 mila unità (Regno Unito, Canada, Australia). Seppure con
numeri ridotti, sono tanti i paesi da considerare capitoli importanti della nostra storia emigratoria: in
Europa (per l’insediamento permanente: Austria, Lussemburgo, Paesi Bassi e per i frontalieri
Monaco e San Marino), in America Latina (Venezuela, Uruguay, Cile, Perù, Ecuador, Colombia,
Messico). Vi sono piccoli insediamenti di italiani, come quelli nella Croazia e nella Slovenia, che
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ricordano gli eventi della seconda guerra mondiale e del successivo trattato di pace, con uno
strascico di problemi in parte irrisolti.
L’emigrazione, per quanto non sempre intesa come tale, è una questione nazionale, perché
coinvolge tanto le ricche regioni settentrionali che la povera Sardegna. Anche il Nord e il Centro
sono implicati nelle presenze all’estero. Tra il 1876 e il 1900 tre regioni italiane fornirono, da sole,
all’incirca la metà del contingente migratorio: il Veneto 17,9%, il Friuli Venezia Giulia (16,1%) e il
Piemonte (12,5%). Nei due decenni successivi, invece, a prevalere sono le regioni meridionali con
la Sicilia in testa (12,8% e 1.126.513 emigrati), seguita dalla Campania (10,9% e 955.189
emigranti). All’inizio era implicata anche la Lombardia e altre regioni del Nord. La Provincia di
Bergamo, che una volta versava in regime di sopravvivenza e ora si trova all’avanguardia per il suo
diffuso benessere, nel mese di maggio 2007 ha organizzato il terzo raduno internazionale dei suoi
emigrati sparsi nel mondo. Sono numerosi i comuni protagonisti, in tutte le parti d’Italia, che dalla
fine dell’Ottocento hanno trapiantato gli italiani nelle diverse parti del mondo e che, grazie alla
mediazione dei propri emigrati, hanno intessuto relazioni a livello internazionale.
Oggi i cittadini italiani residenti all’estero hanno questa origine regionale: mezzo milione dal
Centro (14,5%), 1 milione dal Nord (29,8%) e 2 milioni dal Sud (55,7%). Quattro sono le regioni
principali: la Sicilia con 600 mila, la Campania, con quasi 400 mila e con 300 mila la Calabria, la
Puglia e il Lazio mentre la Lombardia e il Veneto hanno una quota di 250 mila. Anche le altre
regioni sono state coinvolte nel fenomeno: quelle con gli insediamenti più ridotti sono l’Umbria
(27.000) e la Valle d’Aosta (4.000). Ogni Regione ha la sua particolarità. Ad esempio, la Liguria ha
alimentato nel passato consistenti flussi di emigrati in America Latina e attualmente ospita una
consiste collettività di latino-americani. In Piemonte è stato realizzato il Museo storico
dell’emigrazione piemontese per ricordare quanto l’emigrazione nei due secoli passati abbia
segnato profondamente la vita e l’identità sul territorio regionale. Il Lazio ha pianto recentemente
(marzo 2007) la scomparsa di Lord Charles Forte, il ciociaro emigrato in Gran Bretagna e diventato,
nonostante la sua semplicità, leader mondiale nel settore alberghiero. Per i numerosi emigrati
campani (e non solo per loro) sarà fonte di grande soddisfazione la creazione dell’Archivio sonoro
della canzone napoletana, che ha già raccolto più di 30 mila titoli. Per quanto riguarda la Sicilia, la
prima regione per numero di emigrati sta raccogliendo ampie adesioni la proposta di legge di
iniziativa popolare “Lingua, cultura e media siciliani”, suscitando un orgoglio che aiuta ad abbattere
gli stereotipi nei confronti dell’Isola. Nel piccolo comune sardo di Asuni (400 abitanti), da cui è
emigrato un terzo della popolazione, da alcuni anni sono stati costituiti un museo e un centro di
documentazione sulla diaspora dei sardi.
Non bisogna prendere in considerazione solo la consistenza delle collettività regionali all’estero ma
anche la loro incidenza sulla popolazione rimasta in patria. Non sono poche le regioni segnate da
un’incidenza elevata: con il 10% troviamo il Friuli Venezia Giulia, l’Abruzzo e la Sicilia, con il
15% la Calabria e la Basilicata e con il 22% il Molise. La media italiana, tutt’altro che bassa, è del
6,6%, al di sotto della quale si trovano solo l’Emilia Romagna, la Lombardia, la Toscana, l’Umbria,
la Valle d’Aosta e il Piemonte. Riassumendo, constatiamo che ogni 15 italiani rimasti in patria ve
n’è in media uno che vive all’estero, con queste accentuazioni: 1 ogni 10 in Friuli Venezia Giulia,
Abruzzo e Sicilia; 1 ogni 7 in Calabria e Basilicata e 1 ogni 5 in Molise.
In alcuni casi la popolazione emigrata supera quella rimasta in patria. Ne sono esempio in
Sicilia il Comune di Villarosa (En) e nel Molise Filignano (Is) e in Abruzzo Roccamorice (Pe),
quest’ultimo con 1.574 paesani all’estero e solo 1.012 nel Comune. Il Rapporto Italiani nel Mondo
2007 ha indicato anche per le altre regioni i comuni con la maggiore incidenza degli emigrati sugli
attuali residenti: ad esempio, San Fele (Pz) in Basilicata (incidenza degli emigrati del 73%),
Mammola (Rc) in Calabria (83%), Colle Sannita (Bn) in Campania (92%), Morfasso (Pc) in Emilia
Romagna (84%), Caneva (Pn) e Sedegliano (Ud) in Friuli Venezia Giulia (27%), Vallerotonda (Fr)
nel Lazio (61%), Zoagli in Liguria (40%), Campione d’Italia in Lombardia (69%), Acquasanta
Terme nelle Marche (56%), Filignano nel Molise (112%), Cannobio nel Piemonte (17%), Taurisano
in Puglia (25%), Sindia in Sardegna (49%), Villarosa in Siclia (101%), Bagni di Lucca in Toscana
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(34%), Tubre in Trentino Alto Adige (40%), Scheggia in Umbria (20%), Saint Rhemy en Bosse in
Valle d’Aosta (14%), Lamon in Veneto (55%)
Domani – La progettualità per il futuro
Il 18% degli italiani all’estero è costituito da minori, che sono stati registrati come cittadini a
seguito di discendenza. Si tratta di 562 mila persone (delle quali, 385.000 in Europa e 151.000 in
America: nella sola Germania ve ne sono 130.000), nella stragrande maggioranza dei casi nati
all’estero. Queste sono le nuove generazioni che, non essendo emigrate fisicamente, non
considerano l’Italia il paese che hanno lasciato e hanno una nuova forma identitaria, per il fatto di
essere collocate tra due paesi e le rispettive realtà storico-culturali-societarie-giuridiche, che
subiscono un’ulteriore accentuazione per il riferimento alla regione di provenienza dei loro genitori
o antenati. La loro identità è multiforme, complessa, frammentata, in continua trasformazione, con
una differenza notevole rispetto ai loro genitori e ai loro avi. L’utilizzo del concetto di “diaspora”
indica il transnazionalismo loro proprio, sia di quelli rimasti cittadini italiani sia di quelli che non lo
sono più. Poiché ciascun paese estero ha conosciuto una peculiare forma di immigrazione italiana,
la riflessione assume specifiche peculiarità e diventa, nel complesso, ancora più suggestiva.
Senza restare ancorati al passato remoto dell’emigrazione, si richiede uno sforzo innovativo per
elaborare strategie di intervento in grado di rispondere a queste nuove esigenze; si richiede un vero
e proprio rinnovamento teorico-concettuale. Il Consiglio Generale degli Italiani all’Estero ha
dedicato ai giovani in emigrazione una sessione plenaria e deciso di ascoltarne le proposte nelle
riunioni delle Commissioni continentali, per recepirne le novità e favorirne il coinvolgimento. Non
sempre risultano in sintonia le decisioni concrete, come sembra risultare da un’indagine condotta
sulle strategie delle Regioni, che non sempre e non tutte considerano i giovani emigrati una priorità.
L’emigrazione, inquadrata sotto l’angolatura delle nuove generazioni, diventa così un incentivo ad
una riflessione più pertinente sul concetto di italianità oggi, quando si esce dai confini nazionali e ci
si colloca in un contesto globalizzato.
Passando dai più giovani agli anziani si constata che un altro 18% degli italiani all’estero è
costituito da ultrasessantacinquenni, anch’essi più di mezzo milione. Lo ricordano anche le 410
mila pensioni, pagate attualmente all’estero, per un impegno annuale di 1.184 milioni di euro, una
spesa che si è stabilizzata nell’ultimo periodo, mentre nel passato il ritmo di aumento aveva destato
preoccupazioni. Se invece si prendono in considerazione anche gli emigrati rientrati il binomio
emigrazione-pensionamento coinvolge 815.000 persone. I primi paesi per numero di pensionati
sono il Canada, la Francia e l’Australia, ciascuno con più di 50.000 prestazioni. I pensionati sono un
indicatore dell’invecchiamento dell’emigrazione e anche dei suoi bisogni. Gli importi erogati
solitamente non sono alti e le integrazioni percepite localmente (quando se ne ha diritto) non
sempre consentono di condurre un’esistenza dignitosa. Se poi si aggiungono i problemi di salute, le
situazioni possono diventare drammatiche. In casi di malattie gravi o di interventi chirurgici, la cura
della salute ha comportato la vendita della casa e dei terreni acquistati, frutto di anni di lavoro
spesso svolto nell’arco di più generazioni. Per l’assistenza degli anziani indigenti il Ministero degli
affari esteri ha promosso da ultimo, a partire da diversi paesi dell’America Latina, polizze
cumulative che risultano più affidabili per quanto riguarda la qualità delle prestazioni. Naturalmente
i problemi di natura finanziaria si intrecciano con quelli socioculturali. Questi italiani, anche quando
non hanno più la cittadinanza e a maggior ragione se l’hanno conservata, hanno bisogno di essere
aiutati a mantenere contatti profondi e stimolanti con l’Italia. I soggiorni, organizzati dalle Regioni
per i meno abbienti, sono graditi e per molti si tratta dell’unica possibilità per affrontare un viaggio
altrimenti al di sopra delle proprie possibilità. Serve un arco più mirato di interventi culturali, con
un sostegno più dinamico all’associazionismo, con progetti più concreti di partenariato economico,
tenuto anche conto che sono molte le persone di una certa età a svolgere compiti importanti a livello
culturale, economico e politico. L’analisi condotta sulle leggi regionali sull’emigrazione e sui
relativi interventi porta a concludere che le risorse disponibili non sono state utilizzate nella maniera
più accorta.
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Le donne italiane in emigrazione sono state le grandi protagoniste dimenticate, per lo più
considerate un’appendice delle decisioni maschili. Esse sono 1.679.000, in prevalenza meridionali,
il 47% del totale, con una quasi parità con il sesso maschile nelle Americhe e una leggera
preminenza in Argentina e in altri paesi dell’America Latina. Per lo più alla donna, almeno nella
prima fase del percorso migratorio, è stata demandata la gestione della famiglia rimasta in patria
dopo la partenza del capo famiglia; solo in tempi più recenti si è andata affermando anche la figura
della donna emigrante per lavoro, con un suo progetto autonomo fin dalla partenza, sebbene il tasso
di attività delle emigrate, anche in considerazione del loro ruolo di madri, è stato sempre inferiore a
quello dei maschi. Una volta trasferitasi nel paese estero, la donna è stata quella che ha pagato di
più per favorire l’inserimento, per lo più sacrificando le aspirazioni professionali per sostenere gli
obiettivi del nucleo familiare. Indubbiamente, l’emigrazione ha pesato anche sugli uomini, ma in
modo particolare sulle donne che, pur nei casi di lavoro fuori famiglia, hanno svolto il ruolo di
madri e mogli e di mediatrici culturali e sociali nel paese di accoglienza per inserire fruttuosamente
i figli. Per questi motivi è intervenuta dagli anni ’80 una rivalutazione del loro ruolo e ciò ha
permesso di considerare anche loro come protagoniste culturalmente, socialmente ed
economicamente attive. Il quadro delle donne italiane residenti all’estero è estremamente variegato,
a seconda dei paesi di destinazione e dell’anzianità migratoria. Quelle di una certa età non sempre
hanno conservato la cittadinanza italiana, ma nonostante ciò sentono forte il richiamo per la loro
terra di origine. A complicare situazioni, già di per sé difficili, è intervenuto il deterioramento delle
realtà in diversi paesi che ha, talvolta, reso funzionale il riacquisto della cittadinanza e anche il
rimpatrio, mentre molte altre sono rimaste sul posto, pur versando in gravi situazioni finanziarie e a
rischio di isolamento, tanto più se malate.
Non sussistono difficoltà solo nell’inquadrare i problemi dei tradizionali flussi migratori ma,
comprensibilmente, sono ancora più accentuati quelli riguardanti i nuovi flussi migratori, per lo
più molto diversi rispetto al passato, sia per il livello di qualificazione dei protagonisti che per gli
sbocchi che essi perseguono. Urgono strategie di collegamento più efficaci tra i numerosi
protagonisti dei flussi tradizionali e la nuova categoria, ristretta ma significativa, degli emigrati
qualificati. I giovani interessati a una esperienza all’estero sono tanti, così come tanti sono i
cosiddetti “cervelli in fuga”, negli Stati Uniti, nella City di Londra, nell’Estremo Oriente. Più del
10% dei post-graduati in Gran Bretagna è costituito da italiani. La fuga dei cervelli si riscontra
anche in Belgio e, secondo una stima consolare, a Bruxelles vi sono circa 6.000 professionisti
operanti presso le istituzioni e le grandi aziende italiane, senza contare i numerosi studenti
interessati a perfezionare gli studi, seguire master o, più semplicemente, imparare il francese. E così
si potrebbe continuare in riferimento ad altre nazioni, segnatamente gli Stati Uniti, sbocco dei
cervelli più prestigiosi. Per capire questa fuga è funzionale una riflessione sugli studi universitari, il
cui mercato internazionale è andato assumendo una crescente importanza. Secondo dati OCSE, nel
2004 erano iscritti in atenei di paesi diversi da quello del quale hanno la cittadinanza 2.651.144
studenti universitari, concentrati nei paesi dove l’inserimento professionale è più soddisfacente
(Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, Australia e Canada). Risulta distanziato il Giappone
(4% del totale) e ancor di più l’Italia (1,5%). La competizione attraverso una manodopera altamente
qualificata induce i paesi maggiormente sviluppati ad attrarre il maggior numero di studenti
stranieri nelle proprie università. Le percentuali più elevate di emigrati per ragioni di studio
universitario provengono dalla Cina (381.330), in prevalenza negli Stati Uniti, in Giappone e in
Inghilterra. Tra i paesi appartenenti all’OCSE, l’Italia è una delle nazioni che ha il più alto numero
di studenti che frequentano l’università in altri paesi, essendo superata solo dalla Germania (61.845)
dalla Francia (57.231), dalla Turchia (54.381) e dagli USA (46.547). Gli studenti universitari
italiani iscritti a università estere sono 44.892 (rispetto a 2 milioni iscritti in Italia), un numero quasi
uguale a quello degli studenti stranieri che studiano in Italia (40.641 nello stesso anno). Tra di essi il
18,1% studia in Germania, il 13,9% in Austria, l’11,6% in Gran Bretagna, il 10,4% in Francia ed il
10,0% in Svizzera. Al contrario, relativamente pochi (7,4%) sono coloro che frequentano atenei
statunitensi e quasi nessuno quelli canadesi (0,8%) ed australiani (0,4%). Studia invece in Belgio il
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6,1% degli studenti italiani iscritti in atenei stranieri, mentre il 4,1% è iscritto ad università
spagnole, entrambe nazioni che non contano numeri molto alti di studenti stranieri. Cosa dice tutto
questo rispetto alle politiche italiane in materia di istruzione, di ricerca e di sostegno al diritto allo
studio a livello internazionale? Il confronto con gli altri paesi mostra che siamo in basso alle
classifica.
Più di 500 sacerdoti curano la pastorale in lingua italiana, aiutati da suore e laici: nella sola
diocesi di Brooklyn sono 40 le parrocchie con una messa in lingua italiana. Fin dall’inizio, la chiesa
cattolica è stata vicina ai migranti con figure prestigiose e indimenticabili, quali mons. Scalabrini,
mons. Bonomelli, Suor Cabrini e altri operatori pastorali meno conosciuti al gran pubblico ma non
negli ambienti dove hanno operato con grande efficacia. Rispetto a una collettività, che conta
milioni di cittadini e molti più numerosi oriundi, le strutture pastorali di riferimento sono poche e,
ciò nonostante, le chiese locali tendono a ridurle. Questo orientamento ha una motivazione
finanziaria, in quanto le strutture e gli operatori pastorali hanno un costo economico, e una di natura
culturale. È molto vivace, specialmente, in Europa il dibattito sull’integrazione, e gli orientamenti
vanno accentuando a tal fine l’adesione dei nuovi venuti alle impostazioni linguistiche e socioculturali-
pastorali locali. Questo è una fase di confronto dialettico tra i missionari italiani e le chiese
locali ed è indispensabile unire la prudenza e la serenità di giudizio per non ostacolare la meta
finale, che è il completo inserimento nella chiesa locale, a partire dalla lunga fase di preparazione
che esige una maggiore attenzione alla lingua e alla cultura di provenienza. Connessa con questa
riflessione è anche quella sulla religiosità popolare, che si sostanzia di riti molto vicini alla gente
che garantiscono la continuità nel loro percorso religioso. Anche a questo riguardo si richiede
apertura e prudenza, portando i fedeli ad interrogarsi sul senso più profondo che sta all’origine di
questi riti, per arrivare, così, ad una fede più pura.
L’emigrazione ha una storia antica, come ricordano le prime testate in lingua italiana
costituite in ambito ecclesiale e presso gli ambienti degli esuli politici, e poi continuata a livello
sociale e in ambito associativo. Tra le prime testate vanno citate La Croce del Sud, fondata dai
Cappuccini a Rio de Janeiro nel 1765 e l’Italiano nato a Buenos Aires nel 1863. Sono poi seguiti
numerosissimi bollettini di comunità con un linguaggio semplice ma aderente allo stile dei
destinatari, e comunque efficace per salvaguardare la lingua e la cultura e mantenere il
collegamento con l’Italia. L’intensità delle iniziative editoriali è dipesa anche dalla consistenza dei
flussi nelle diverse fasi migratorie, e oggi ci si trova più in una fase di assestamento che di
espansione. Oggi appaiono all’estero, in lingua italiana, 472 giornali, 263 programmi radiofonici,
45 programmi televisivi. È quanto emerge dal repertorio L’Italia dell’informazione nel mondo,
curato dal Ministero degli affari esteri. 86 testate operano in Italia: 78 giornali, 4 radio e 2 emittenti
televisive. Il quotidiano più antico in attività è La Voce d’Italia, fondato a Caracas nel 1949. Un
altro quotidiano che ha superato il mezzo secolo di vita è il Corriere canadese, l’unico esistente in
quel paese, nato per servire, tra cittadini italiani e oriundi, due milioni su una popolazione
complessiva di 30 milioni. Negli Stati Uniti, dove i potenziali destinatari sono 16 milioni, dal 1998
opera il quotidiano America Oggi, staccatosi dalla testata storica Progresso Italo-americano; un
terzo giornale è Gente d’Italia, fondato nel 2000.
L’emigrazione è strettamente connessa con la politica culturale, anch’essa funzionale
all’affermazione dell’immagine del nostro paese. L’italiano è la quarta lingua più studiata nel
mondo, che coinvolge 600 mila persone l’anno. A farsi carico della sua diffusione sono le scuole
italiane, le sezioni bilingue presso scuole estere, gli istituti italiani di cultura, le associazioni e i
comitati “Dante Alighieri”. Tra gli aspetti problematici va segnalato l’orientamento restrittivo, che
si riscontra in qualche Land tedesco per il sostegno alla lingua e alla cultura degli italiani: la
Germania, da quando si è ufficialmente riconosciuta come paese di immigrazione, è più
preoccupata di diffondere l’utilizzo della lingua e della cultura tedesca, ritenuta una tappa
fondamentale per integrare chi si trova sul posto da diverse generazioni. Anche in Canada, paese
profondamente improntato al multiculturalismo, di fatto si riscontra un utilizzo sempre più rarefatto
dell’italiano nelle stesse famiglie italiane, per cui nella collettività sono sorte fondate
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preoccupazioni in merito al suo futuro. Per rimediare a questa deriva, il ricorso a maggiori
investimenti a sostegno dei corsi di italiano, per quanto auspicabile, non sembra sia la soluzione
definitiva. Si richiede una politica culturale più convincente, che mostri l’italiano come una lingua
che ha l’eccellenza sul piano culturale. La dove questo riesce, i risultati non mancano e ne sono un
esempio gli Stati Uniti. Da quando l’italiano non viene più equiparato al linguaggio della bassa
manovalanza e non viene più unicamente collegato all’utilizzo che ne fanno i discendenti degli
italiani emigrati, le sue azioni sono in crescita e si sta rafforzando la sua posizione di quarta lingua
più studiata (61.000 studenti), dopo lo spagnolo, il francese e il tedesco (rispettivamente 746, 200 e
91 mila). Però, perché continui questa operazione di recupero, non basta l’ancoraggio al passato ma
si richiede anche un forte collegamento con il presente e una strategia ben mirata degli Istituti
italiani di cultura e di ogni altra azione di promozione socio-economica che viene attuata all’estero:
anche sotto questo aspetto sussistono riserve per quanto fin ora è stato fatto.
L’estero, dove esportiamo merci per 327 milioni di euro, è fondamentale per l’economia
italiana, attuando anche un significativo riposizionamento sulle fasce alte del mercato. Si è
riscontrato anche il fenomeno inverso ovvero l’aumento delle importazioni in settori che sono di
tradizionale appannaggio del made in Italy, come il tessile o l’abbigliamento. Ciò è contraddittorio
solo in apparenza e dipende dal fatto che molte imprese italiane, per risparmiare sui costi del
personale, tendono a delocalizzare all’estero parte della loro linea produttiva (anche dei segmenti di
fascia alta), lasciando in Italia la progettazione e la commercializzazione. Le imprese estere
partecipate da imprese italiane sono 17.200, con 1.120.000 dipendenti e un fatturato di 322 milioni
di euro. La necessità di inserirsi in un contesto commerciale globalizzato sta suscitando un
maggiore dinamismo nel sistema italiano, che però continua a scontare grandi ritardi rispetto ai
paesi concorrenti, che ad esempio si fanno carico in misura ben più ampia degli investimenti diretti
all’estero: a tale riguardo l’Italia ha maturato una posizione preminente solo nell’area dell’Est
Europa. E così la quota italiana del commercio mondiale è in lenta, ma continua diminuzione da
molti anni, mentre i nostri concorrenti europei, come la Germania, riescono a migliorare le loro
posizioni nonostante il protagonismo di nuovi paesi come la Cina e l’India. È l’intero “Sistema
Italia” a essere in affanno, che si struttura in produzioni tecnologicamente non molto avanzate, che
incidono maggiormente sulla possibilità di affermarsi.
La riflessione sulla presenza italiana nel mondo equivale, così, ad una presa di coscienza
della carente presenza del “Sistema Italia” nell’economia globale, anche se non mancano leleve
per intraprendere un cammino più promettente. L’Italia conta all’estero 278 sedi diplomatiche e
consolari, 155 uffici commerciali, 100 uffici dell’Istituto per il Commercio Estero, 70 Camere di
Commercio. È stata approvata una legge sull’internazionalizzazione (56/2005), ma il passo in avanti
è stato più che altro formale, perché non è seguita la semplificazione delle leggi esistenti e delle
prassi amministrative. Anche per quanto riguarda il collegamento con la business community
italiana all’estero i programmi, lanciati con abbondante aggettivazione, sono finora risultati avari di
risultati (Programma di parnenariato territoriale con gli Italiani all’estero-PPTIE e International
training and employement network Itenets). Miglioramento dei sistemi occupazionali e formativi,
valorizzazione degli italiani all’estero come soggetti facilitatori, creazione di una rete di servizi di
informazione, animazione e progettazione: non si può non essere d’accordo con questi obiettivi, ma
a condizione che portino a risultati concreti. Come si legge nel Rapporto Italiani nel Mondo 2007,
si parla spesso , specialmente a livello ufficiale, di quanto la presenza italiana all’estero costituisca
una risorsa straordinaria per l’Italia e il suo sviluppo competitivo, ma viene a mancare la coerente
applicazione di questo assunto in sede di decisioni politiche e di operatività.
L’emigrazione ha anche una forte valenza politica. Questo fenomeno pone richieste di
tutela, di promozione sociale, di partecipazione, che trovano difficoltà ad essere soddisfatte, non
solo a causa delle implicazioni finanziarie conness, ma anche per l’esigenza di una nuova attenzione
alla diaspora italiana. I patronati e le associazioni sono le antenne sensibili di questa richiesta, per
cui ne va potenziata la funzione collettiva e promozionale, al fine di evitare una dispersione
individualistica di queste presenze: in particolare, il ruolo delle associazioni può essere potenziato
in sede di riforma della legge sull’associazionismo (283/2000). Peraltro, una canalizzazione
unificante delle esigenze di base è già avvenuta ufficialmente con la costituzione, a livello
territoriale, dei Comitati (Comites) e, a livello generale, del Consiglio generale degli italiani
all’estero (Cgie). Si tratta di organismi che conservano la loro validità, ma che non possono essere
considerati perfetti. Mentre ci si adopera per il loro potenziamento, bisogna anche sollecitarne non
solo l’adeguamento normativo ma anche il rinnovamento intrinseco, evitando nel futuro
atteggiamenti conflittuali o aprioristici che, come ricorda la Fondazione Migrantes nel presentare il
Rapporto 2007, impediscono di individuare i temi sostanziali e di proporli con uno stile sobrio e
efficace, l’unico in grado di recuperare l’attenzione della società italiana e di superare la
presunzione che l’emigrazione sia una realtà del passato. Un’altra doverosa avvertenza consiste nel
raccomandare alle forze sociali e alle strutture che le rappresentano, che la funzione politica svolta
in precedenza con un compito di supplenza, ormai spetta ai parlamentari eletti all’estero nel 2006,
con i quali bisogna collegarsi per presentare le istanze della base sociale. L’emigrazione è, nel suo
complesso, come un meccanismo con tanti ingranaggi e ciò può essere un arricchimento, a
condizione che vi sia una sincronizzazione.
In sintesi, il messaggio del Rapporto Italiani nel Mondo2007 è il seguente: La rete degli emigrati
può essere una grande opportunità, ma va inquadrata e valorizzata come tale. Per questo occorrono
nuove sintesi e nuove sinergie.

 

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EmiNews 2007

 

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