3754 Gli Usa sapevano dov’era Moro

20071023 13:27:00 redazione-IT

Nicola Tranfaglia (da l’Unità)

Gli Stati Uniti sapevano dove le Brigate Rosse tenevano Aldo Moro. È la rivelazione di Giovanni Galloni, uno dei collaboratori più stretti dell’allora segretario Dc Benigno Zaccagnini ed ex vicepresidente del Csm. Una notizia shock emersa ieri nella biblioteca del Senato durante il dibattito sull’ottimo saggio di uno storico come Giuseppe de Lutiis che ha appena pubblicato «Il golpe di via Fani» per le edizioni Sperling e Kupfer. Al dibattito partecipavano persone che di quel caso si sono a lungo occupate: dal giudice Rosario Priore all’ex presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino, dall’ex presidente del Csm Giovanni Galloni all’ex presidente del Copaco Massimo Brutti.

Che cosa emerge da una discussione fitta e intensa che ha richiamato in quella biblioteca una folla di giovani e di esperti che hanno lavorato nei vari organismi che ho citato? Una serie di problemi della nostra storia, di cui giornali e televisioni parlano assai poco, ripetendo al contrario verità ufficiali ormai logorate dalla loro improbabilità.

Innanzitutto la rivelazione di un viaggio segreto a Washington del capo dei servizi italiani, Miceli, passato dopo i guai giudiziari all’elezione in Parlamento come deputato del Movimento Sociale Italiano. Miceli voleva probabilmente salvare Moro ma non ci riuscì, ed ebbe colloqui riservati con la Cia e personaggi politici americani e probabilmente con Henry Kessinger che anni prima aveva pubblicamente condannato l’on. Moro per la sua politica di apertura al Pci. «Miceli capì che gli americani sapevano molto – ricorda Galloni – sapevano perfettamente dove era la prigione, dove era Moro».

Un altro aspetto emerso ieri è la conoscenza di una dichiarazione riservata del capo dei servizi della Germania comunista a proposito di un intervento del Mossad israeliano per la liberazione e la salvezza dello statista democristiano.

Terzo punto, i rapporti che furono assai stretti tra la Raf, la principale organizzazione terroristica della Germania occidentale, e le Brigate Rosse. Non a caso è stato notato che il sequestro di Hans Martin Schleier, leader degli industriali tedeschi, avvenuto nel settembre 1977 ad opera della Raf si svolse con modalità simile a quella percorsa sei mesi più tardi dalle Br per rapire e alla fine uccidere Aldo Moro (come era avvenuto in Germania per Schleier.)

Le contraddizioni e i misteri sul caso dopo un trentennio appaiono ancora numerosi e importanti, per non dire decisivi. Quello che ancora non regge nella ricostruzione ufficiale del mistero di via Fani riguarda più di un particolare.

Il senatore Pellegrino ricorda il fatto che, anzitutto, il corpo di Moro depositato il 9 maggio all’incrocio tra via Caetani e via Botteghe Oscure parla una lingua assai chiara. È impossibile che l’uomo politico democristiano sia stato custodito come hanno sempre detto i brigatisti in uno spazio ristretto ricavato da una stanza: le condizioni fisiche e igieniche di Moro non sarebbero potute essere come quelle del corpo che fu sottoposto ai magistrati e all’esame autoptico nelle ore successive al ritrovamento e fanno pensare che la prigione consentiva al presidente della Dc di muoversi e di lavarsi in maniera normale.

Così non si sa ancora quanti e chi fossero i brigatisti che parteciparono all’assalto di via Fani: di certo non i sette o i nove di cui hanno parlato sempre i terroristi. Basti pensare che, per un sequestro come quello assai più facile del giudice Mario Sossi nel 1974, è stato accertato che vi parteciparono diciannove brigatisti. C’è da supporre che in via Fani siano stati almeno venti o trenta e ancora non si conosce la loro identità, salvo rendersi conto – dopo le perizie balistiche – che l’eliminazione della scorta di Moro è stata compiuta da due soltanto, capaci per la loro abilità militare, di sparare una gragnuola di colpi in modo da uccidere i cinque uomini della scorta con matematica precisione senza torcere un capello al presidente che era a pochi centimetri da loro.

Due altri elementi che sono emersi dal dibattito riguardano la loggia P2 di Licio Gelli. Il primo è che, durante le indagini per il rapimento di Moro nella primavera del 1978, i tre capi dei servizi di sicurezza italiani fossero tutti uomini di Gelli legati alla P2 e che la loggia non fosse, come alcuni per molti anni hanno ripetuto, un’accolita di spregiudicati affaristi ma, al contrario, uno straordinario centro di potere che annoverava più di duemila tra politici, imprenditori militari, magistrati e giornalisti penetrati profondamente nelle istituzioni e negli apparati dello Stato (e non novecento, come sembrava dall’elenco sequestrato da Turone e Colombo nella villa gelliana di Castiglion Fibocchi). E si trattò di un centro di potere, forse il massimo, dell’oltranzismo atlantico e anticomunista nel nostro Paese.

Si potrebbe continuare con altre contraddizioni che restano intatte dopo otto processi che si sono svolti (l’ultimo è ancora in corso) per il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, ma quello che risulta con grande chiarezza, e che è confermato dal libro di Giuseppe De Lutiis, è il quadro internazionale entro cui si svolse il grave episodio.

Si trattò di un vero e proprio “golpe” politico ed ebbe un grande successo perché riuscì a raggiungere il proprio maggior obbiettivo: sconfiggere il compromesso storico e stabilizzare al centro la situazione politica che aveva inclinato pericolosamente a sinistra in piena guerra fredda.

www.unita.it

 

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EmiNews 2007

 

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