3777 SICILIA: L’ARDUA SENTENZA

20071026 14:05:00 redazione-IT

di Agostino Spataro

In Sicilia, da qualche settimana, la politica vive come sospesa fra la terra e il cielo più basso, in attesa della sentenza che sarà emessa a conclusione del cosiddetto processo “alle talpe” nel quale è imputato per favoreggiamento alla mafia l’on. Salvatore Cuffaro, presidente della regione e vice segretario nazionale dell’Udc per il quale i Pm hanno chiesto una condanna a otto anni.

A sua volta, l’illustre imputato ha dichiarato che in caso di condanna anche per il reato più grave si dimetterà da presidente. Per quello meno grave evidentemente no.
La dichiarazione ha soddisfatto un po’ tutti. In primo luogo gli esponenti del centro-destra siciliano e nazionale (da Berlusconi a Casini) i quali hanno elargito attestati di stima e di solidarietà verso l’imputato, proclamandolo martire con largo anticipo. Senza attendere, appunto, la sentenza. Gli esponenti del neo Partito democratico e, in generale, delle forze d’opposizione aspettano, invece, la sentenza. Rispettosamente.
Non per niente, in Sicilia, il “rispetto” è uno dei valori fondanti della convivenza civile.
Certo, ogni buon siciliano si rimette all’iter, purtroppo lungo, della legge, magari sperando che il presidente della sua Regione se è innocente, come si proclama, riesca a dimostrarlo in dibattimento e quindi ad uscire dal processo assolto con formula piena; in caso contrario è giusto che ne paghi il fio.
Ma la politica, gli stessi imputati non possono aspettare le sentenze. Fermo restando il diritto individuale alla difesa, dovrebbe bastare il rinvio a giudizio, per qualsiasi reato connesso alla funzione pubblica, per provocare le dimissioni. Così s’usa fare in altri paesi europei, anche per accuse meno pesanti.
In Italia, invece, per dimettersi forse si aspetta il Giudizio universale!
Questa dovrebbe essere la regola scritta (poiché se “non scritta” nessuno l’osserva) in ogni statuto di partito, associazione o ente che concorre all’amministrazione della cosa pubblica.
Ovviamente, trattandosi di materia molto delicata i magistrati debbono soppesare i fatti con perizia e con scrupolosa oggettività, specie oggi che è in atto un’indegna offensiva mediatica per mettere, indistintamente, alla gogna la politica e il Parlamento, magari per occultare ben più gravi magagne dei detentori del editoriale che- com’è noto- è tutt’uno col potere economico e finanziario.
Non sono ammissibili certe “leggerezze” di certi magistrati che, pur di “cogliere l’attimo” di questa preoccupante campagna, s’accaniscono contro il primo politico che gli passa sotto il naso.
Ma torniamo al processo di Palermo che introduce un fatto nuovo e preoccupante: per la prima volta, il futuro politico della Regione è affidato ad una sentenza di tribunale.
A ben pensarci, questo fatto, che potrebbe diventare un precedente, è più grave dei reati contestati poiché si configura come una variabile inedita di una politica debole che affida alla magistratura la risoluzione di un delicatissimo problema politico.
Una nuova delega ai giudici i quali, loro malgrado, già suppliscono la scarsa o nulla volontà delle forze politiche e di governo nel portare avanti la lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione nella pubblica amministrazione.
In altri momenti si sarebbe parlato di “via giudiziaria”, perfino d’ alterazione dell’equilibrio fra poteri costituzionali autonomi. In questo caso nessuno se ne lagna. Tutto bene? Credo proprio di no.
Poiché molti cominciano a chiedersi: ma se la politica rinuncia ai suoi compiti, delegandoli alla magistratura, cosa ci stanno a fare i partiti, l’Ars, il governo, i deputati?
Una domanda inquietante alla quale bisognerebbe rispondere recuperando le funzioni primarie della politica, nel pieno e trasparente rispetto dei ruoli di maggioranza e d’ opposizione. Seriamente.
E non come ha fatto, l’altro giorno a Palermo, l’on. Casini il quale, con sprezzo del grottesco, si è spinto a rivendicare per l’Udc il “monopolio della lotta alla mafia”.
Se queste sono l’analisi e la via indicata (ai giovani) c’è da star freschi sul futuro di questa regione.
Tali posizioni, infatti, alimentano la sfiducia nei cittadini e la tendenza antipartitica che ancora non ha investito la Sicilia, giacché qui, nonostante tutto, la malapolitica gode di un certo consenso.
Prima o poi l’onda arriverà e potrebbe risultare più devastante che altrove, poiché investirebbe il sistema nel suo punto più debole, ovvero in questa Regione, trasfigurata da sessant’anni di malgoverno, ormai sotto tutela del governo centrale e di grandi corporazioni finanziarie titolari di crediti miliardari.
Infatti, con l’esaurirsi delle risorse finanziarie, sprecate in mille rivoli clientelari, i nodi stanno venendo al pettine e si dovrà rendere conto di promesse non mantenute e di spartizioni inconfessabili e asimmetriche. La situazione sta divenendo ingovernabile, perciò è meglio defilarsi.
Ma c’è un problema: chi dovrà assumersi la responsabilità di fermare le macchine? A poco più di un anno dalle elezioni, non è facile sciogliere l’Ars, il governo, bloccare sul nascere carriere e belle speranze.
Manco a parlarne di tale eventualità. E difatti nessuno ne parla, tranne Cuffaro che la brandisce come una minaccia.
Perciò, tutti concordi nell’affidare ai giudici l’ardua sentenza, magari sperando che arrivi il più tardi possibile. Speranze che cominciano ad avere un qualche fondamento dopo che la presidenza della Corte di cassazione ha dichiarato ammissibile l’istanza di remissione presentata dai difensori di Cuffaro, lasciando aperta la possibilità di un trasferimento del processo in altra sede e con altra corte.
Una probabilità che renderebbe l’attesa più lunga e snervante, tale da paralizzare le già grame attività dell’Ars e del governo della regione e degli enti territoriali.
Tutto ciò, quando sarebbe necessario l’esatto contrario: la mobilitazione di tutte le risorse e potenzialità politiche, culturali, imprenditoriali e morali per far fronte alla crisi evidente che attanaglia l’Isola.
Quasi tutti gli indicatori e le proteste sociali lo confermano. Basterebbe vedere quello che, in questi giorni, succede a Palermo.
Eppure non si muove nulla in una regione dove quasi tutto dipende dall’entità e dai meccanismi della spesa pubblica. Si finge, perfino, di sconoscere l’origine di una buona fetta del Pil.
Questi ed altri fattori rendono la condizione dell’Isola ad altissimo rischio sociale e politico.
Tanto che se si facesse sul serio la lotta alle diverse forme d’illegalità potrebbe scoppiare una sorta di guerra civile. Da questa situazione è difficile uscire, perciò meglio affidarsi alla sentenza di tribunale che, ad occhio e croce, potrebbe arrivare in concomitanza con le eventuali elezioni politiche anticipate o con quelle europee. E, si sa, un posto in lista non si nega a nessuno.

Agostino Spataro
26 ottobre 2007

 

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EmiNews 2007

 

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