3808 Intervista del Ministro degli Affari Esteri Massimo D’Alema

20071031 18:47:00 redazione-IT

da Diplomatic Magazine (31 Ottobre 2007)

D. Signor ministro, vuole indicare ai lettori di Diplomatic Magazine le priorità della sua azione politica alla guida della Farnesina?
R. Innanzitutto dobbiamo rilevare che la politica estera italiana si trova attualmente ad operare in una dimensione globale. Dobbiamo essere in grado di tutelare gli interessi politici ed economici del Paese cogliendo, nello stesso tempo, le opportunità offerte dalla globalizzazione.
Assistiamo, oggi, all’emergere in Asia e America latina di nuovi grandi protagonisti. Paesi come Cina, India e Brasile stanno guadagnando posizioni di crescente preminenza.

In questi mesi ci siamo adoperati per allargare gli orizzonti della nostra politica estera e consolidare i rapporti con quei Paesi. Io stesso mi sono recato a Pechino, Brasilia, New Delhi. Approfondire il rapporto con questi nuovi attori globali è una priorità che risponde non solo a fondamentali interessi economici, ma anche ad esigenze legate al nuovo assetto della politica internazionale.
Insieme all’ascesa di nuove potenze internazionali siamo confrontati con il fenomeno opposto: il vuoto di potere prodotto dal collasso delle strutture statali in Paesi che, oltre a divenire spesso il luogo di sistematiche violazioni dei piu’ elementari diritti umani, spesso costituiscono la base operativa potenziale delle ramificazioni di una criminalità organizzata senza più frontiere o, peggio, un terreno fertile per il prosperare di un terrorismo che ha anch’esso superato ogni demarcazione territoriale.
Nostra priorità è anche fare i conti con questa doppia realtà: le opportunità del mondo che cresce, i grandi attori emergenti e, accanto ad essi, i rischi di un mondo che viene marginalizzato. Sviluppo e sicurezza dell’Italia dipenderanno dal modo in cui riusciremo a rispondere a questa duplice pressione della globalizzazione. Si tratterebbe tuttavia di un obiettivo irrealistico o velleitario, se fosse perseguito puramente su una scala nazionale, di cui ogni giorno è più evidente l’inadeguatezza. La portata delle sfide che ho appena ricordato impegna innanzitutto la dimensione multilaterale come l’unica realmente adeguata, e ciò per noi significa prima di tutto l’Europa, ma anche le Nazioni Unite. Siamo in Consiglio di Sicurezza per il biennio 2007-2008, e stiamo utilizzando il seggio per il quale siamo stati eletti anche per dare un contributo di idee al un processo di riforma delle Nazioni Unite, per un multilateralismo efficace, democratico, rappresentativo. Ma stiamo anche cercando di gestire il nostro seggio in termini il più possibile "europei", tenendo cioè conto seriamente anche nell’ambito delle Nazioni Unite della nostra appartenenza all’Unione e delle posizioni comuni europee in politica estera.

D. Libano, Afghanistan, le sue numerose missioni in paesi lontani: ci piace constatare che lei è un ministro molto presente sulla scena internazionale….
R. Io credo che un Paese come il nostro, pur non essendo certamente una grande potenza, debba poter offrire un contributo tangibile alla stabilità allo sviluppo ed alla pace nel mondo.
Noi abbiamo sicuramente lavorato per fermare il conflitto in Libano a cominciare dalla conferenza di Roma. Al grande impegno politico-diplomatico, abbiamo fatto seguire con coerenza un’attività importante anche in termini di contributo alla forza di pace e alla ricostruzione del Libano. Impegno che noi abbiamo perseguito, non come un progetto italiano, ma come un’iniziativa su cui coinvolgere l’Europa. Il maggior successo, secondo me, è stato proprio quello di avere incoraggiato l’Unione Europea ad assumersi questa responsabilità, garantendo, da parte nostra, un particolare impegno dell’Italia.
Anche per quel che riguarda l’Afghanistan, la partecipazione italiana alla missione ISAF è considerata indispensabile, sia dalla comunità internazionale che dal Governo afgano. L’obiettivo di rimettere in piedi un Paese prostrato dal regime talebano, con il suo corollario di sistematiche violazioni dei diritti umani e di sostegno al terrorismo internazionale è ancora lontano. Esistono rischi evidenti di disgregazione violenta e avvenimenti che segnano una preoccupante ripresa dell’attività dei gruppi talebani, resiste una criminalità collegata alla produzione di oppio. Bisogna evitare un ritorno al passato. E’ evidente, a tal fine, che alla presenza militare va abbinata una strategia politica, umanitaria, economica più efficace e di sostegno alla transizione democratica, alla ripresa del Paese e che tenga conto dei bisogni immediati della popolazione e della sensibilità degli afgani. Noi stiamo dando il nostro contributo in tal senso.
Vorrei in particolare menzionare il nostro impegno nel settore della giustizia e dello stato diritto in Afghanistan. In questo quadro si colloca la Conferenza sulla “Rule of Law” in Afghanistan organizzato a Roma agli inizi di luglio, con la partecipazione, tra gli altri, del Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon e dello stesso Presidente Karzai.
Sul piano più generale, ritengo che il disagio evidente, le frustrazioni, i risentimenti antioccidentali esistenti nel mondo islamico indicano l’importanza di una strategia politica più efficace nella lotta globale a lungo termine contro il terrorismo fondamentalista. Io credo che gli ultimi anni abbiano cancellato l’illusione che la sola opzione militare fosse l’arma più efficace per sconfiggere il terrorismo. Non sono fra quanti ritengono che si debba escludere in linea di principio l’uso della forza, ma credo che si debba rimettere in primo piano un’azione a tutto campo per isolare il terrorismo e per conquistare la grande maggioranza delle opinioni pubbliche dei Paesi arabi e islamici ed una strategia politica comune. Un’azione a tutto campo implica anzitutto un’iniziativa politica in grado di generare progressi sul fronte israelo-palestinese. L’Italia sta offrendo un contribuito attivo e propositivo, anche in vista della Conferenza convocata dagli Stati Uniti per novembre. Così come intende riportare il Mediterraneo al centro delle sue priorità dopo anni di relativa marginalità.
Io credo, in generale, che la scelta multilateralista dell’Italia debba essere accompagnata da decisioni politiche, dall’assunzione di impegni, per dimostrare nei fatti che si tratta di una via che produce risultati tangibili assai più dell’opzione militare. In questo quadro siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità.

D. Secondo Lei Signor ministro, quale ruolo trainante l’Italia è in grado di fornire per far ripartire la riflessione sulla costruzione europea?
R. A cinquant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, l’integrazione europea continua a rappresentare una delle stelle polari della politica estera dell’Italia. Ed è una storia di successi. E’ grazie all’Europa che il nostro Paese ha operato grandi cambiamenti al suo interno. Ha imboccato il cammino della disciplina di bilancio, del progresso civile, delle riforme, vincendo pigrizie e resistenze radicate nella nostra società.
Si è trattato di un processo di graduale condivisione di sovranità unico nel suo genere, che ha portato pace, stabilità, crescita economica e democratica ad un numero sempre maggiore di Paesi, dai sei fondatori ai ventisette attuali. Le ragioni di soddisfazione sono pertanto numerose e legittime: il nostro continente è in gran parte riunificato, ha creato un mercato comune per 488 milioni di persone (con una moneta, l’Euro, consolidata a livello internazionale), dispone di uno spazio giuridico comune e gode di grande prestigio nel mondo.
Ciò non può peraltro nascondere il fatto che, da un lato, il processo non si è ancora concluso e che, dall’altro, sono emerse difficoltà di percezione da parte delle opinioni pubbliche nazionali – basti pensare al risultato negativo dei referendum in Francia e in Olanda sulla costituzione europea – che discendono anche dai nuovi problemi globali, con i quali i nostri Paesi sono oggi chiamati a confrontarsi. Mi riferisco all’energia, all’immigrazione, ai cambiamenti climatici, alla necessità di rilanciare la competitività e l’occupazione – la cosiddetta “agenda di Lisbona” – e di fare passi avanti nella liberalizzazione dei servizi, promuovendo al contempo un equilibrato sviluppo regionale e sociale. Una difficile “quadratura del cerchio”, ma, lavorando insieme, possiamo riuscirci.
Possiamo dirci complessivamente soddisfatti delle decisioni del Consiglio Europeo del giugno scorso, che ha raggiunto un difficile compromesso sui contenuti essenziali di un nuovo Trattato. Ora speriamo che il testo possa entrare in vigore prime delle elezioni del Parlamento Europeo nel 2009. Certo, l’Italia avrebbe voluto di più. Tuttavia, tutte le innovazioni sostanziali contenute nel Trattato Costituzionale, frutto di un delicato equilibrio concordato dopo lunghi negoziati, sono state mantenute. Abbiamo salvaguardato gli strumenti che permetteranno all’Unione allargata di funzionare in maniera più efficace e di produrre quei risultati concreti che i cittadini si attendono, sia all’interno dei confini Europei – penso in particolare all’occupazione ed alla sicurezza – sia sul piano internazionale e nelle aree di crisi. Vorrei citare, ad esempio, l’istituzione della figura del Ministro degli Esteri dell’Unione, la Presidenza stabile del Consiglio Europeo, la razionalizzazione della composizione della Commissione.
Credo che sia importante far arrivare un messaggio forte e chiaro non solo alle istituzioni, al mondo politico, ma soprattutto ai cittadini. Il messaggio che un’Europa più forte, un’Europa più democratica, un’Europa con istituzioni che consentano di decidere è garanzia di futuro. Non si tratta di un’astrazione, ma degli strumenti per rispondere concretamente ai problemi delle nostre società. Si tratta, in fondo, della democrazia «europea». Nel continente ove la democrazia è nata, sappiamo che istituzioni forti e democratiche sono una garanzia sicura per i diritti, per le domande e per le attese delle persone.

D. Nel contesto di draconiane misure di contenimento della spesa pubblica, Lei si è adoperato per salvaguardare il bilancio della Farnesina. Ci vuole indicare quelli che considera i maggiori successi da Lei raggiunti?
R. Anzitutto ci tengo a sottolineare che il bilancio del Ministero degli Esteri è aumentato per i fondi destinati all’aiuto pubblico a favore dei Paesi in via di sviluppo e gli impegni internazionali. 500 milioni di euro saranno nel decreto di ripartizione dell’extra-gettito nel 2007, 730 milioni in totale sono nella Finanziaria 2008. Dopo vari anni vi è un incremento sostanziale delle risorse destinate alla cooperazione internazionale, e ci stiamo progressivamente adeguando agli impegni presi in sede multilaterale.
Inoltre, la legge finanziaria (già quella del 2007) ha fornito l’occasione per un ripensamento della rete delle Ambasciate e dei Consolati. Si tratta di un fondamentale network globale, che va però razionalizzato e riorganizzato proprio perché sia sempre di più un investimento per il Paese. Gli uffici all’estero sono sempre più spesso erogatori di servizi nei confronti di un’utenza attenta ed esigente: cittadini stranieri, connazionali, operatori economici. L’Ambasciata, il Consolato, punto intorno al quale si deve coagulare il “Sistema Paese”, deve quindi trasformarsi in un’avanguardia dell’Italia, delle sue capacità imprenditoriali, della sua cultura, della profonda umanità del suo popolo, ma anche di quei valori di libertà, uguaglianza, solidarietà, che stanno alla base della nostra costituzione, offrendo un servizio moderno, efficace, trasparente. Abbiamo cominciato ad operare sulla rete consolare. Non chiusure, ma ove possibile accorpamenti con le Ambasciate, con risparmi nel medio periodo, ed evitando disservizi per gli italiani. Questo anche grazie a massicce iniezioni di informatica. A regime, saranno oltre venti gli uffici interessati, in tre fasi successive. Ma si tratta anche di verificare dove rafforzare. Ad esempio a Mosca abbiamo aperto un nuovo Consolato autonomo. E stiamo facendo una riflessione anche su alcune sedi dell’Europa centro-orientale. E questo lo stiamo facendo con risorse ridotte. Il bilancio del Ministero degli Esteri è lo 0,23% del Bilancio dello Stato. Per il francesi è l’ 1,01%, per la Germania lo 0,93% e persino la rigorosa Inghilterra spende quasi il doppio dell’Italia, lo 0,40%.
Inoltre stiamo lavorando ad una revisione della struttura centrale della Farnesina. Dobbiamo fare in modo che il Ministero degli Esteri e la sua rete globale siano valorizzati sempre più come un “asset”, come una risorsa per l’Italia. Ci vuole però più capacità d’iniziativa e più efficacia. Abbiamo previsto ad esempio la nomina di un Vice Segretario Generale con funzioni di Direttore Politico. Si insedierà anche un Gruppo di riflessione strategica, aperto a contributi di specialisti esterni alla Farnesina. Abbiamo ottenuto l’autonomia finanziaria delle sedi all’estero, che potranno gestire il proprio bilancio con maggiore flessibilità, ma che dovranno anche darsi da fare per trovare sponsorizzazioni di privati per le iniziative più importanti. Abbiamo infine avviato una ricognizione del patrimonio immobiliare all’estero, anche nella prospettiva di ricavare risorse aggiuntive da reinvestire proprio nella rete.

D. Qual è il messaggio che si sente di inviare alle giovani leve che entrano in servizio alla Farnesina, all’inizio di un secolo cominciato in modo assai turbolento, in cui l’Italia deve correre per mantenere il passo dei propri partners?
R. Come ho avuto modo di dire precedentemente, la globalizzazione dei mercati e dell’informazione hanno profondamente modificato le basi su cui poggiano le relazioni fra Stati e fra popoli. Essere diplomatico, si diceva una volta, è come avere una poltrona in prima fila nel teatro della storia. Dopo la caduta del muro di Berlino e dopo l’11 settembre non è più così. Non solo non ci sono più poltrone, ma la stessa rappresentazione scorre vorticosamente, e spesso cambia in corso d’opera. In tale contesto anche il diplomatico deve ripensare profondamente il proprio ruolo, essere in grado di leggere il mondo che lo circonda, in continua, rapida evoluzione, e coglierne il senso. E tutto ciò senza rinunciare alla riflessione, all’osservazione attenta e consapevole, all’interpretazione della realtà. Ancor più nell’epoca di Internet, in cui la quantità di informazioni scambiate quotidianamente è impressionante, diventa infatti essenziale il ruolo di analisti di politica estera in grado di evidenziare ciò che davvero conta, di cogliere i segni dei tempi, di prevedere possibili scenari. Da questo punto di vista, la professione del diplomatico rimane ancora oggi, in modo certamente assai diverso rispetto al passato, estremamente affascinante.

 

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EmiNews 2007

 

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