3836 CATTIVA FEDE DEI MEDIA E CRIMINALIZZAZIONE DELLO STRANIERO

20071105 18:57:00 redazione-IT

di Pietro Vulpiani*

Il colpevole dell’aggressione subita dal giornalista Lamberto Sposini a Roma ha un volto. E’ quello di un nostro connazionale. Ci si congratula con le autorità inquirenti, meno con i nostri giornalisti.
Infatti, aggredito da sconosciuti mascherati, il giornalista non era riuscito a cogliere la nazionalità, straniera o italiana, dei malviventi. Nonostante le sue dichiarazioni, rese note dal comunicato stampa dell’Ansa, il titolo dello stesso comunicato del 20 ottobre “Lamberto Sposini aggredito e rapinato da romeni al Colosseo” contraddiceva le affermazioni della vittima, che non aveva idea dell’identità nazionale degli autori. A cascata, di presunti criminali rumeni parlavano molti media nazionali mentre, sul TG4 della stessa sera, il direttore del telegiornale Emilio Fede, commentando la notizia affermava: “sono i rumeni che stuprano, sono i rumeni che rapinano […] guarda caso c’è sempre un rumeno di mezzo […] c’è da dire che questi rumeni, una parte di questi rumeni, una buona parte di questi rumeni francamente…Ma io ho letto anche di personaggi autorevoli che dicono … e adesso basta! Prendiamoli, involtiamoli e riportiamoli al loro paese … mi pare il minimo… e qualcuno dovrebbe pur farlo”.

L’episodio ha nuovamente messo in luce limiti e carenze di un sistema dell’informazione che troppo spesso si distacca dalla notizia per concedersi divagazioni interpretative prive di fondatezza che alimentano pregiudizi e stereotipi e riproducono paure ed ansie nei confronti degli stranieri. Emergono così dubbi sulla correttezza con cui alcuni cronisti descrivono fatti criminosi in qualche modo collegati o attribuiti a cittadini di origine straniera, e sui rischi di pervenire a superficiali stigmatizzazioni della popolazione immigrata che possono alimentare la diffusione di sentimenti xenofobi. Oltre a fare pubblica ammenda, sarebbe d’obbligo che i media si soffermassero a valutare come la deformazione della notizia contribuisca alla criminalizzazione di intere comunità straniere. Altrimenti dovremmo attendere le scuse in una aula di tribunale, come sta accadendo al tunisino Azouz Marzouk, accusato ingiustamente dai media di aver ucciso moglie, figlio, suocera e vicini di casa per l’eccidio di Erba. E’ del 24 ottobre 2007 la notizia che un giudice di Milano ha accolto l’esposto di Marzouk rinviando a giudizio tre giornalisti del Corriere della Sera e del Corriere di Como per rispondere dell’accusa di diffamazione a mezzo stampa. Infatti, i colpevoli andavano cercati in due irreprensibili coniugi del primo piano: italiani.

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L’aggressione a Sposini così come l’eccidio di Erba hanno attivato un temporaneo ed arbitrario processo di criminalizzazione che dal singolo presunto malvivente straniero hanno condotto alla stigmatizzazione di una intera comunità, rumena per il primo, tunisina / maghrebina per il secondo.
Entrando nel merito dei processi di rappresentazione collettiva, questi episodi dovrebbero far riflettere sul ruolo dei media nella costruzione e alimentazione di un immaginario collettivo che canalizza ansie e paure verso capri espiatori che la comunità immigrata di turno o la generica categoria di “straniero” possono ricoprire sul momento. Albert Memmi parlava del razzismo come di un fenomeno a geometria variabile, capace di adattarsi alle diverse congiunture storiche identificando di volta in volta le vittime e gli ambiti in cui esprimersi. Così di volta in volta cambiano le comunità immigrate ritenute colpevoli di crimini efferati (l’altroieri marocchini, ieri albanesi, oggi rumeni, da sempre Rom); ma la loro connotazione negativa trae linfa vitale dalla propaganda istituzionale e mediatica e dalle tensioni economiche, sociali e culturali con il risultato di rendere inquieti i sonni degli italiani.
Certamente gli apparati simbolici che alimentano il razzismo si muovono all’interno di una causazione circolare o meglio reticolare tra media, istituzioni, politica e opinione pubblica; una rete che interconnette idee, immagini, credenze e rapporti sociali. I messaggi discriminanti si autolegittimano attraverso codici linguistici negativi e immagini stereotipe, dotate di forte condivisione sociale, rigidità e alti livelli di generalizzazione tese alla svalutazione e inferiorizzazione dell’Altro. Il successo della loro riproduzione acritica sta nell’ovvietà culturale in cui si colloca la routine comunicativa a carattere razzista.
Nessuno di noi è indenne da questi processi ed i media non possono essere da meno. Infatti una routine comunicativa discriminante è istantaneamente condivisa nelle tavole domenicali, nelle cene tra amici, in treno o in fila dal medico. Raramente suscita riprovazione sociale mentre piuttosto unisce, consolida identità collettive, e rafforza relazioni a partire dalla semplice contrapposizione tra il Noi e l’Altro, lo straniero.
I media fanno la loro parte, come tutti, ma fanno forse più danni per la loro negativa responsabilità nella produzione e riproduzione di pregiudizi e stereotipi. Imprecisioni, deformazioni ed estensioni interpretative infondate delle fonti informative contribuiscono ad una rappresentazione mediale dello straniero che distorce e amplifica a dismisura la percezione e valutazione dei fenomeni, evidenziando criticità che favoriscono l’allarme sociale. Anche quando il primario dovere di cronaca chiama, sembra che in alcune redazioni si attui una enfatizzazione selettiva di notizie sulla base della nazionalità dell’autore del reato, anche quando quest’ultima informazione appare irrilevante alla comprensione dell’evento. Inoltre, mentre la cronaca quotidiana può evidenziare anche insignificanti eventi criminosi in cui sia possibile segnalare l’origine etnica del malvivente, lo stesso reato compiuto da attori italiani viene sottaciuto, trascurato o sottovalutato per lo scarso appeal mediatico.
Nei due episodi citati, come sempre avviene, la tentazione di anticipare mediaticamente presumibili soluzioni a casi oscuri è molto forte, soprattutto quando a monte l’ipotesi pregiudizievole è ventilata informalmente dalle stesse autorità inquirenti, le fonti primarie del giornalista. Nasce così la prima notizia discriminatoria, che come una improvvisa grandinata si moltiplica in una replica acritica e standardizzata di errori su tutti i media. In poche ore ci troviamo così a constatare una pedissequa riproduzione fotostatica di una informazione infondata capace di criminalizzare a priori la comunità straniera di turno. Magari ignaro dell’effetto, il giornalista si trova a rivestire il ruolo di fonte di rappresentazioni xenofobe e di ingenua ancella di messaggi razzisti, e contribuisce indirettamente alla costruzione e al rafforzamento di un immaginario che definisce ed imprigiona lo straniero in categorie culturali proprie dell’alterità, della differenza da noi, in una diversità sinonimo di illegalità, di pericolosità, di devianza, di marginalità. Nei suoi eccessi, la non-umanità dello straniero che emerge dalle affermazioni degli imprenditori politici del razzismo, viene riprodotta acriticamente dai media nei confronti di rappresentanti e simboli dell’Islam, di Rom, Sinti, richiedenti asilo e stranieri illegalmente residenti in Italia, in genere attraverso eufemismi e metafore che ribadiscono i rischi e le minacce di un’ondata migratoria da fermare. I più recenti e preoccupanti effetti di questa influenza politico-mediatica sono evidenziati dalla violenta campagna di attentati contro la comunità islamica e gli insediamenti rom in Lombardia.
Rientrando nell’ambito dell’ovvietà culturale, la connotazione discriminante del messaggio spesso non viene neppure percepita esplicitamente dal fruitore della notizia, o se lo è, viene vissuta con dolente rassegnazione dalle stesse vittime e dalle associazioni di tutela dei diritti dei migranti, dimenticando che si tratta di reati perseguibili per legge e che esiste in Italia una normativa civilistica e penalistica avanzata. Istituzioni come l’UNAR, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali del Dipartimento Diritti e Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, lamentano da tempo le scarse denuncie pervenute in tali ambiti, anche dalle stesse associazioni di advocacy che per legge hanno acquisito la legittimazione ad agire in giudizio in nome e per conto e a supporto delle vittime di discriminazione. E’ chiaro che i meccanismi di produzione e alimentazione dell’informazione razzista sono complessi e le sue espressioni a volte troppo implicite per essere colte puntualmente anche dal lettore / spettatore più attento.
La denuncia di Azouz Marzouk rappresenta un primo passo verso un cambiamento, anche se rimediare a questi errori è possibile soprattutto tramite un sostanziale sforzo interno alla categoria dei giornalisti. Sono molti i redattori che con il loro impegno quotidiano lavorano per modificare questa tendenza all’interno di piccole e grandi redazioni, nello spirito della Carta dei doveri del giornalista. In questi ultimi mesi, su sollecitazione dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, hanno provato a formalizzare questi cambiamenti lo stesso Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, insieme con un tavolo di esperti ed istituzioni come l’UNAR ed il Ministero dell’Interno. Il gruppo di lavoro ha predisposto un protocollo integrativo alla “Carta dei doveri del giornalista” relativo a rifugiati ed immigrati che potrebbe vedere la luce a breve. Devo dire che questo percorso non è risultato scevro di ostacoli ed ha già incassato il netto rifiuto da parte dell’Unione Nazionale Cronisti Italiani. Ritengo però che la strada sia quella giusta e rappresenti un primo timido ma importante passo da favorire con ogni sforzo, per promuovere, nel totale rispetto del diritto di cronaca, la parità di trattamento all’interno della produzione mediatica.
Nel nuovo film di Mazzacurati, il cronista Bentivoglio spiega come raggiungere la Giusta distanza nel giornalismo, mai troppo lontano da risultare cinico, ma nemmeno troppo vicino, perché il coinvolgimento emotivo a volte può abbagliare; aggiungerei, neppure troppo in alto, perché le perturbazioni poste dai pregiudizi opacizzano la realtà e deformano contorni e lineamenti dei suoi attori. Confidiamo di raggiungere presto una giusta distanza nell’informazione, per tutti, italiani e stranieri.

* Antropologo. Esperto presso l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, Dipartimento per i Diritti e le Pari Opportunità, Presidenza del Consiglio dei Ministri. E-mail p.vulpiani@palazzochigi.it

 

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EmiNews 2007

 

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