3863 AMERICA LATINA: Fra democrazie e nuovi imperatori

20071107 21:25:00 redazione-IT

di Bruna Peyrot (da Belo Horizonte)

Non si può fare a meno, leggendo quotidianamente riviste e giornali latinoamericani, di mettere in relazione due momenti politici che non saranno indifferenti per l’affermazione dello stato di diritto in America latina e come sempre non individuati dalla stampa italiana in tutta la loro possibile dirompenza.
Lula e Chávez sono un’altra volta a confronto, non perché fra loro scelgano una comunicazione conflittuale. Sono proprio diversi per la storia che condensano in sé, per lo stile politico e anche nel modo di pensare la forma politica del proprio paese.

Entrambi sono a confronto con il loro futuro di presidenti, ma lo affrontano in modi totalmente opposti.

Le repubbliche latinoamericane sono tutte presidenziali, danno ampio potere a una persona sola e al suo esecutivo. Tuttavia, soprattutto in Brasile, da alcuni anni, anche i partiti – formazioni pur necessari a strutturare la rappresentanza democratica – pretendono di avere meglio definito il proprio ruolo, così come le varie “assemblee”, Camera, Senato, e i poteri “locali” di regioni, stati, municipi e ora anche le “macroregioni” transnazionali. Queste ultime, infatti, precisano di una nuova legislazione, in vista non solo della cooperazione transfrontaliera, ma per i problemi comuni derivati dalla gestione di infrastrutture (strade, ferrovie, dogane ecc.) e di questioni sociali (emigrazione transfrontaliera quotidiana, sicurezza, contrabbando, narcotraffico ecc.).

In Brasile finalmente il TSE (Tribunale Superiore Elettorale) ha deciso che i mandati elettorali appartengono ai partiti e non ai singoli eletti, per cui chi trasmigra dal partito in cui è stato eletto a un altro, perde l’incarico. Questo per evitare lo scombinamento continuo di alleanze fatte spesso su clientele personali più che su comuni visioni politiche. Il sistema “aperto” permetteva, infatti, una scelta elettorale piuttosto personalizzata. Il passo in avanti, dunque, è che ora l’elettore brasiliano deve stare più attento ai programmi delle colazioni elettorali che all’amicizia con il candidato. I voti, in altre parole, non sono – o lo sono di meno – mirati alla conquista di poltrone, quanto piuttosto necessariamente devono legarsi a un dibattito di progettualità sul territorio.

E’ chiaro che questa decisione del TSE non risolve la distanza fra cittadino ed elettore, ma almeno comincia a non avvallare più la pratica, molto praticata!, di favori e scambi. L’altra questione brasiliana che si sta discutendo un po’ ovunque è la possibilità per Lula di accedere a un terzo mandato presidenziale, cosa che ora la Costituzione non permette. Devanir Ribeiro del Pt di S. Paulo è l’estensore della proposta che prevede questa possibilità attraverso un referendum popolare, un plebiscito insomma di approvazione da parte del “povo” brasiliano che si vuol coinvolgere anche in altre occasioni attraverso l’istituto referendario, oggi inesistente, su questioni “grosse”: aborto, pena di morte, riforma agraria e riforma politica.

Sull’uso del referendum in un paese latinoamericano ci sarebbe molto da dire e discutere. Se è vero che permetterebbe l’espressione della cittadinanza in modo diretto, è altrettanto vero che dimensioni del mai sopito caudillismo o populismo potrebbero portare alla ribalta attori strani, facili imbonitori delle masse. La democrazia invece richiede organizzazioni complesse, non voci forti che sanno farsi applaudire.

A questo dilemma ha posto fine con estrema e lucida chiarezza Lula che, convocati i presidente del Pt, Ricardo benzoini e lo stesso promotore del referendum Ribeiro, ha spiegato che non sarebbe stato disponibile a questo e che tale possibilità sarebbe stata una follia per il cammino dello stato di diritto brasiliano, oltre che per la credibilità democratica sua e del governo in carica. Questa dichiarazione ha dimostrato la radicata fiducia nei valori democratici di Lula in un momento in cui anche il suo Pt si sta interrogando a fondo proprio sullo stesso tema, anche se in maniera indiretta. Infatti, il Pt si sta dibattendo al suo interno, fra il “vecchio” e il “nuovo”. Il “vecchio” rappresentato da una gestione di stile ancora stalinista, impersonata da José Dirceu, ispirata al bene supremo del partito in nome del quale valori come trasparenza, democrazia interna e non copertura di atteggiamenti poco etici degli affiliati passano in seconda line a rispetto, appunto, al “bene” del partito deciso da un ristretto gruppo di dirigenti. Il “nuovo”, che fa capo a Tarso Genro, attuale ministro della Giustizia, vede le correnti del partito come luoghi aperti di discussione e nella disponibilità di ampie alleanze nel campo del centrosinistra sulla base di punti programmatrici inderogabili come la riforma politica.

Il Pt pratica le elezioni interne per l’elezione del proprio presidente, che avverrà nel dicembre prossimo, dopo le “primarie”. I risultati finora danno per vincitori i “nuovi”, come José Eduardo Cardozo, sostenuto da Mensagem ao partido di Tarso Genro e anche Marta Suplicy. Certo è che chiunque sarà il nuovo presidente dovrá confrontarsi con un profondo mutamento del profilo del militante.

Intanto, parallelamente, nella vicina Venezuela assistiamo a un processo politico totalmente al contrario di quello brasiliano. In Brasile si dice: Chávez si sta proclamando imperatore. In Venezuela l’Assemblea Nazionale è l’unico potere legislativo con 173 deputati tutti favorevoli all’attuale governo, anche perché l’opposizione non aveva partecipato alle elezioni del 2005. L’Assemblea ha deciso la nuova riforma costituzionale con un referendum (previsto già per il 2 dicembre prossimo) di “approvazione popolare”, previsto dall’art.230, in cui il presidente in carica per un periodo di sette anni può essere rieletto. Chávez, dunque, ha il posto assicurato. La Carta Magna contiene un po’ di tutto nel dare poteri locali e statali ai vari enti venezuelani che, in ultima analisi, sono sempre sotto il potere centralizzato di Chávez. Il “popolo” diventa depositario di ogni legittimazione al potere costituito.
Tuttavia, ma ritorneremo presto sul tema, sarebbe interessante e irrimandabile, aprire un dibattito su cosa oggi si può considerare “popolo” in America latina. Parola abusata da destra e da sinistra, da cooperanti e dirigenti, questa parola a chi scrive appare sempre piú generica e poco rappresentativa, se non di una mistica populistica –appunto – dura a morire in un continente che basa ancora troppo spesso le relazioni sullo schema paternalistico più che su un’equa distribuzione di ruoli e competenze.
Del resto, anche in Europa il problema non è risolto, anche se spesso il valore del “popolo” è passato alla “opinione pubblica” (sigh! L’opinione è sempre pubblica, se si manifesta) e il romanticismo della parola popolo è ancora ammesso nella valutazione delle storie latinoamericane di riscatto, come sembra quella del movimento bolivariano di Chávez che è pur sempre un militare e lo sta dimostrando.

 

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EmiNews 2007

 

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