4048 Domani edizione speciale di Gente d’Italia per il Centenario di Monongah

20071205 18:39:00 redazione-IT

Domani ricorre il centenario della tragedia mineraria di Monongah dove il 6 dicembre del 1907 una terribile esplosione sventrò la miniera di carbone dove lavoravano più di mille minatori. Secondo le cifre ufficiali dell’epoca morirono in 360, 171 italiani. Il quotidiano delle Americhe Gente d’Italia diretto da Mimmo Porpiglia “riscoprì” la tragedia nel 2003 di cui nessuno aveva mai parlato, e dopo otto mesi di inchieste e di ricerche, grazie anche alla collaborazione di Padre Briggs, il cappellano di Monongah e del professore emerito di sociologia della George Washington Univertity, Joseph Tropea, nipote di uno dei minatori periti nello scoppio, appurò la vera dimensione del tragedia: morirono in 960, dei quali almeno 500 gli italiani.

E domani Gente d’Italia sarà nelle edicole con un numero speciale dedicato a Monongah ed una tiratura doppia con il racconto del direttore Porpiglia “così abbiamo riscoperto Monongah” ed una lunga serie di inchieste e di contributi, a cominciare dal vice ministro degli esteri con delega degli italiani nel mondo senatore Franco Danieli, dal vice presidente del senato Mario Baccini, all’epoca sottosegretario agli esteri con delega per le Americhe, agli scrittori Antonio Ghirelli e Stefania Nardini, al direttore della Misna Pietro Mariano Benni, agli editorialisti Ennio Caretto, Federico Guiglia, Ciro Paglia.
A rappresentare il giornale nel Comitato per il Centenario istituito dalla Farnesina e di cui fa parte il direttore di Gente d’Italia Domenico Porpiglia sarà presente il vicedirettore del giornale, Francesca Porpiglia. In occasione delle celebrazioni in programma domani nella cittadina del West Virginia, migliaia di copie dell’edizione speciale verranno distribuite gratuitamente a Monongah.

DOPO LE INCHIESTE E LE BATTAGLIE MEDIATICHE CONDOTTE DAI GIORNALISTI DI GENTE D’ITALIA

6 dicembre 2007, lo Stato italiano
arriva finalmente a Monongah…

di Mimmo Porpiglia
Ci siamo riusciti. Finalmente. Dopo tre lunghi anni, centinaia di articoli, inchieste e “battaglie” mediatiche di Gente d’Italia, lo Stato italiano arriva finalmente a Monongah. Per commemorare ed onorare quei poveri resti sepolti cento anni fa su quella lunga striscia di terra senza croci, senza lapidi, senza nomi. Il viceministro Danieli ha mantenuto gli impegni. Ci aveva promesso “Sistemeremo il cimitero di Monongah”. Lo ha fatto.
Arriva lo Stato italiano dopo un secolo, cento anni, durante i quali insieme con la grande America si era reso responsabile di omissioni e “insabbiamenti”.
Arriva con il senatore Franco Danieli, viceministro degli esteri con delega per gli italiani nel mondo e con la medaglia d’oro al Merito Civile attribuita proprio ieri alle vittime del disastro dal presidente della repubblica Napolitano.
Ci siamo riusciti. Ed ora Padre Briggs, Susy Leonardis, Janet Salvati e Joseph Troppa, tutti gli abitanti di Monongah, tutti gli italiani d’America che per cento anni si sono sentiti traditi, abbandonati dal potere centrale, e da tutti i governi e governanti che si sono succeduti negli anni, possono mettere la parola fine a questa triste storia che la storia stessa ha tentato di seppellire sotto una colata di carbone nero, di diafana dimenticanza e di una strana, assurda manipolazione.
Ci siamo riusciti. Il nostro compito è terminato. Ora spetta alla politica, al governo, allo Stato tributare i giusti onori a quei poveri disgraziati che il 6 dicembre del 1907 entrarono senza volerlo nella storia. Una storia incredibile cominciata in una fredda sera d’inverno a New York. La storia di Monongah…

Così abbiamo
“riscoperto”
Monongah

«A proposito di italiani in America… pare ci sia un paese, qui negli Stati Uniti, dove in una sciagura mineraria sarebbero morti più di 500 italiani… Il posto si chiama Mironga, Manonghi, non ricordo…E’ una storia incredibile…» mi diceva il collega italoamericano, mentre aspettavamo hamburger e patatine in un piccolo ristorante di Manhattan…
Una storia che, all’inizio, poteva sembrare una leggenda ma che, alla fine, si è rivelata nella sua inimmaginabile tragicità: quel paese dal nome strano esiste davvero, è Monongah in West Virginia, ed anche quei minatori morti ci sono stati davvero. Per arrivare a scoprire questa verità, abbiamo lavorato per mesi. Il collega italoamericano infatti non sapeva dirmi nulla di più. Le sue erano informazioni vaghe, a partire dal nome del paese di questa ipotetica tragedia. Una storia che mi lasciava allibito, una tragedia più grande di quella di Marcinelle in Belgio, eppure non se ne è mai saputo niente.
Così, mentre guidavo in direzione “aeroporto Kennedy” la mia mente era occupata da quei “500 morti italiani”. Sentivo di dover verificare quel racconto e così, appena rientrato a Miami ho cominciato a cercare e scavare nel passato, tra mille difficoltà.
Per prima cosa, ho affidato l’incarico di avviare delle ricerche su Internet alle mie due figlie, Margareth e Francesca e a due miei redattori: «Uscirete dalla redazione solo dopo che sarete riusciti a trovare qualcosa…» ricordo di aver detto.
E in effetti, dopo sei ore di “navigazione”, qualcosa, anche se poco, dalla Rete emerge. Poche righe vengono fuori da Internet utilizzando le parole chiave «miniera – americano – disastro». Si riesce a risalire al nome esatto del paese, Monongah, e a sapere che dista 185 miglia da Washington e che oggi ci abitano circa 445 famiglie, per un totale di 1018 persone distribuite su un’area di 1227 chilometri quadrati. Anche della tragedia c’è qualche traccia in Internet: in 19 righe è racchiusa la morte di 361 emigranti, rimasti sepolti nella miniera, la storia di 250 vedove e oltre 1000 orfani. Quanto basta per decidere di andare fino in fondo. Dopo pochi giorni, quattro cronisti di Gente d’Italia con alla testa mia figlia Margareth, partono per Monongah.
Il paese è sperduto tra le montagne: non ci arrivano i treni e neppure altri mezzi pubblici di trasporto. “Papà, fa un freddo cane, ma siamo arrivati… Dieci ore di auto da New York…Uno scenario da tregenda….”
Io sistemo alcune cose, poi li raggiungo.
Un viaggio che apparve subito “infinito”. Chilometri e chilometri di curve, strade difficilmente percorribili, Neve, vento, poi finalmente l’arrivo in una serata in cui comandava solo la nebbia, in un villaggio, a quindici chilometri da Monongah, dove c’era un albergo. L’unico.
Nella sala bar una cameriera serve ai tavoli. . La donna fa un no con la testa.
Consumiamo una cena frugale. Mia figlia e gli altri cronisti, tra cui un operatore TV vanno a risposare. Io resto al bar. E’ l’ora in cui uomini e donne arrivano per bere una birra. Uomini in particolare. Con la fatica scolpita sul volto, le braccia muscolose.
Sono minatori.
Ripropongo la domanda ai clienti del bar. .
dice un ragazzone dai capelli neri e lunghi, lo sguardo diffidente, baffetti alla Arsenio Lupin.
Gli spiego che sono un giornalista italiano che ha saputo per caso della tragedia…. Smettono di bere, gli altri. E si avvicinano al bar. Da quel momento comincia il racconto dei minatori. Ognuno ha in famiglia almeno una persona morta in quella sciagura.
Chiedo loro di poter vedere la miniera. Subito. Non importa se è notte. Non importa se nevica. “Ok, andiamo…” Partiamo in nove, con due auto. Trenta e più interminabili minuti, in un silenzio religioso, poi, ci fermiamo in mezzo ad un prato. Alla mia destra una collinetta, nò, è una grotta, un ingresso….
Il luogo è spettrale. I fari illuminano detriti, rami secchi e quel che resta di un edificio completamente abbandonato, sventrato in più punti. Mucchi di suppellettili arrugginite tra neve e terreno, un pezzo di elica, nò, è una ventola enorme attaccata ad un qualcosa che sembra il motore di un aereo. “Una parte dell’impianto di aerazione…” spiega uno dei minatori.
Vorrei entrare nella miniera. “Impossibile…non si può…”
Raffiche di vento gelido coprono un sordo rumore di acque in movimento. Il cielo è nero e nuvoloso. Penso, immagino i minatori mentre entrano in quella specie di spelonca….i bambini….
Quando si scendeva in miniera, a quel tempo, si era accompagnati quasi sempre da un amico e spesso parente “non censito”, cioè clandestino, in modo da ottenere un maggiore riconoscimento economico per il maggiore lavoro svolto in compagnia. Allora il diritto a un pezzo di pane si misurava sulla quantità dei pezzi di pietra sventrati. Più picconate, più carbone, più cibo. E per questo i padri si trascinavano i figli minorenni laggiù. E per questo è ragionevole calcolare che i morti siano stati, in realtà, tre volte tanti.
Rientro in albergo quasi in stato confusionale. Penso alla tragedia, ma anche allo “scoop”. Mi rendo conto che si tratta di una storia enorme, che verrà certamente ripresa da tutta la stampa, nazionale e internazionale. Dormo poche ore, la mente occupata da menabò e servizi da assegnare, colleghi e scrittori da contattare, storici italiani ed americani da coinvolgere….
Alle sette del mattino siamo già in auto, con Margareth e l’operatore Tv: destinazione Monongah…
Gli altri vanno in comune, a consultare gli archivi, alla redazione del giornale locale. A Monongah non c’è un albergo nè un ristorante, e i treni non passano. Solo vecchie case di legno, ma con il tricolore ai balconi. Le donne con i tratti somatici tipici del nostro Sud… Giriamo senza una meta fissa, cercando un qualcosa che ci faccia arrivare alla miniera abbandonata…E finalmente veniamo “notati” da una pattuglia della Polizia. A destare “sospetto” è la targa che viene da lontano. Spiego agli agenti chi siamo e la natura del nostro viaggio. E loro dopo qualche frase gracchiata alla radio di bordo ci scortano fin davanti al cartello su cui è scritto a caratteri cubitali Monongah.
Un paesaggio da brividi ed un silenzio spettrale. Poche auto, pochissimi negozi, nessun essere umano. Cerchiamo una chiesa, perchè una chiesa dovrà pur esserci nel villaggio.
Eccola, è una vecchia costruzione di legno e mattoni neri, con una grande croce sul tetto, e un prete paffuto e simpatico. Che mi suggerisce di andare subito a parlare con un certo Padre Briggs…
“Lui sa tutto della tragedia….”
Padre Briggs è un uomo piccolo, magrissimo, con gli occhiali. Ci accoglie in una stanzetta di una casa d’accoglienza per anziani da lui realizzata. E a bruciapelo mi dice:
Ritorno alla miniera abbandonata. Macerie, soltanto macerie, il grande buco nero intravisto con i minatori, la sera precedente, pezzoni di ferro arruginito, forse putrelle che servivano a reggere il soffitto dei cunicoli, scaraventati fuori dai corridoi dall’esplosione rimasti nell’erba come in quel giorno lontano. Quel 6 dicembre 1907.
Il tempo si è fermato in quel luogo. E Monongah si è fermata con quella esplosione.
Tornando in albergo la sala è affollata di gente. Sono minatori, con le loro famiglie. Almeno una sessantina di persone.
Un sindacalista prende la parola. .
Quella gente condannata alla rimozione chiede un riconoscimento, e non avendo più giustizia da rivendicare, chiede il riscatto di quelle radici italiane che sono nel sangue della gente di Monongah.
Seguito da quella carovana che chiede solo pietà per quei morti, vado dal sindaco, una donna di origini lucane che ha perso il padre in quello sciagurato 6 dicembre 1907.
“Scrivi, scrivi, fai in modo che questa sciagura tutta italiana torni alla memoria…Coinvolgi i politici, che vangano a sistemate i nostri morti…”
.
Una promessa grossa. Una promessa di un italiano che in quel momento si unisce al dolore della sua gente. Quella gente che era partita senza mai fare ritorno.
Padre Brigs aspetta l’equipe per condurci al cimitero.
“I morti sarebbero stati un migliaio, 960 per la precisione, prevalentemente italiani, e poi polacchi, turchi, irlandesi. ..”- giura –
Ma dove stavano i cadaveri, dove le lapidi?
Il cimitero di Monongah è un pezzo di terra su una piccola collina circondata da vecchie case. Con qualche lapide.
“Sono sepolti qui, tutti qui, è un immenso ossario…Perché oltre ai nomi di quelli conosciuti –spiega Padre Briggs – ci sono chissà quanti cadaveri di ragazzi…”
Ma saranno venuti parenti, amici….
“Sì, ogni tanto viene qualcuno, c’è anche qualche lapide ma qui sotto sono sepolti i cadaveri di tanti uomini e bambini senza nome perché erano intere famiglie che lavoravano in miniera, e venivano pagate in base alla quantità di carbone estratto>.
Un’enorme fossa comune. E qualche rara lapide deposta dalle famiglie. Con un grande albero che veglia.
La valle della morte di Monongah oggi è circondata da case. Vita e morte si mescolano nel silenzio e nell’isolamento di Monongah.
. Padre Briggs mi fa vedere una montagna di carbone.
.
La solitudine, la desolazione delle donne di Monongah sono il simbolo di quella sciagura, fatta di esseri umani che nulla avevano da perdere, e che in terra straniera avevano perduto l’unico motivo di vita: gli affetti.
Intanto la gente del villaggio, come in un pellegrinaggio, continua a raggiungere l’albergo. Consegnandomi in prestito cio’ che possiedono di quella storia, di quel dolore collettivo, che si continua a respirare in quel lembo di West Virginia, dove la nebbia, il freddo, la desolazione, erano nel volto di quella donna, Caterina Davia, che spalando carbone non aveva più lacrime. Perché a Monongah è stato negato anche il diritto di piangere.
Intanto comincia una ricerca frenetica. I cronisti e gli inviati di Gente d’Italia consultano archivi, giornali dell’epoca, e le indagini si spingono fino a Washington e Philadelphia. Si mettono insieme i pezzi del puzzle e la storia tragica di Monongah inizia a mostrare contorni più chiari. La mattina del 6 dicembre 1907, giorno di San Nicola, 478 minatori e 100 uomini addetti ad attività accessorie entrano nei pozzi 6 e 8 della miniera di carbone. Dopo l’esplosione, si parla di 361 morti e nessun superstite ma le ipotesi sul reale numero delle vittime, in assenza di riscontri certi, sono legate allo studio dei cimiteri locali: il numero dei deceduti arriverebbe così a 500, anche se un addetto alle sepolture, negli anni 50 si diceva convinto che i morti fossero 620. Ma non è ancora il bilancio finale: secondo una corrispondenza da Washington, datata 9 marzo 1908, i morti sarebbero stati 956. Si tratta della «più grande sciagura della storia mineraria statunitense». I morti italiani ufficialmente sono 171, ma in realtà sarebbero molti di più, La maggior parte era originaria della Campania, del Molise e della Calabria. Man mano che i fatti emergevano diventava sempre più appassionante il tentativo di risalire ai nomi e alle origini dei minatori italiani.
Secondo il Monongah Mines Relief Committee, di nazionalità americana, con le 362 vittime ufficiali, tra le quali molte di colore, polacche, turche, slave o russe, ungheresi, irlandesi, lituane, scozzesi, si rinvengono 171 italiani provenienti dal Molise, Puglia, Calabria, Abruzzo, Basilicata, Campania, Veneto. E un piemontese, originario di San Rocco di Premia: Vittore d’Andrea. Una parte dei corpi recuperati riposano sulla collinetta del cimitero di Monongah . Dimenticati per quasi un secolo, a Muh-nahn-guh, che nella lingua degli indiani Seneca significa «fiume dalle acque ondulate». Degli attimi che seguirono quella tragedia restano moltissime fotografie, in bianconero o in un tenero seppia, scattate da fotografi che, immediatamente, le trasformarono in cartoline molto richieste che invasero l’America del disinganno.
Della tragedia è rimasto anche qualche lontano ricordo, se non nella memoria delle persone nei detti popolari. A S. Giovanni in Fiore ad esempio, da dove provenivano numerosi minatori, per dire che non si ha intenzione di far perdere le proprie tracce, il detto è, non a caso, “non vado mica a Milonga”, con un chiaro riferimento al paese della tragedia statunitense- Oltre 90 anni per riportare a galla una tragedia di immane proporzioni. Un disastro causato dai proprietari della miniera, La Fairmont Coal Company, che non avevano attivato l’impianto di aerazione, c’era dunque tutto l’interesse ad insabbiare l’accaduto . Il tempo dell’oblio per le vittime di Monongah sta però per scadere. Il 14 novembre del 2003, i sindaci dei comuni italiani dai quali partirono i minatori e un inviato del Vaticano sono venuti con noi nella cittadina, per piantare una croce nel cimitero in memoria di quei morti senza nome. Un viaggio organizzato da Gente d’Italia “per non dimenticare”…
E qui mi corre l’obbligo di ringraziare le tre persone che hanno avuto un peso determinante nel far conoscere al mondo la tragedia di Monongah: il senatore Mario Baccini, sottosegretario agli esteri del governo di allora, l’ambasciatore Sergio Vento capo della nostra diplomazia negli Usa ed il collega Paolo Peluffo direttore del Dipartimento per l’informazione e l’editoria, a quel tempo portavoce del presidente della repubblica Ciampi e capo dell’ufficio stampa del Quirinale.
Fu grazie ai loro buoni uffici che riuscimmo ad organizzare l’incontro verità su Monongah, che stava “saltando” perché poche ore prima, a Nassiriya, 12 carabinieri, 4 soldati e numerosi civili persero la vita per un attacco kamikaze contro la nostra postazione.
Ciampi rimase profondamente colpito dalla sciagura. “La strage di Monongah non resterà più un capitolo dimenticato – disse – . Anzi, essa è da ora entrata a pieno titolo nella storia grazie al lavoro e all’abnegazione dei giornalisti di Gente d’Italia. E’ commuovente sapere che il 14 novembre, a Monongah, con le vostre manifestazioni avete commemorato quei nostri concittadini… » ”
Da quel 14 novembre del 2003 è cominciata un’altra e più difficile ricerca nella quale abbiamo coinvolto Pietro Mariano Benni, Arianna di Giorgio, Mimmo Carratelli, Federico Guiglia, Bruno Tucci, Giorgio Torchia, Massimiliano Massimi, Giancarlo Gambalonga, Caterina Pasqualigo, Graziella Cava, Margaret e Francesca Porpiglia, Federica Manzitti, Stefania Nardini, Ciro Paglia, e una lunga serie di collaboratori in loco. Sono andati in giro per l’Italia, nei paesi dai quali partirono i minatori di Monongah.
Ed hanno scritto pagine, pagine, e pagine. Storie amare di contadini sradicati dalla terra, poveri, in gran parte uomini e adulti, spinti dalle più rosee speranze e sollecitati dal racconto, tante volte ascoltato, della fortuna che si erano costruiti in America tanti altri stranieri sbarcati nella più squallida miseria. Storie di lunghe traversate – dal 1880 era tramontata l’era della navigazione a vela ed era cominciata l’epoca dei grandi bastimenti a vapore- così come venivano raccontate nelle rare lettere spedite dal sacerdote di turno. Viaggi che duravano in media quattordici giorni. L’imbarco, i passeggeri che venivano lavati con un bagno disinfettante, i loro bagagli disinfestati che dovevano passare una prima visita medica. Per molti italiani il viaggio verso le Americhe era anche il loro primo contatto con il mare. E le tempeste ed il mal di mare aggravavano per molti le condizioni del viaggio.
Storie alle quali tutti noi stiamo ancora lavorando, affinchè le inchieste e le ricostruzioni promosse dai giornalisti di Gente d’Italia rimettano anche i numeri, oltre che i nomi, al loro posto tenero e agghiacciante. Stiamo lavorando con Susy Leonardis, instancabile, tenace napoletana del New Jersey, la vera ispiratrice della riscoperta di Monongah. Fu lei a parlarne al collega italo-americano che non aveva capito l’entità della tragedia. Fu lei a condurci dal professor Salvati, figlio di uno dei minatori periti nello scoppio.
Stiamo lavorando con Joseph Tropea, il professore emerito della George Washington University, che continua la sua ricerca dei parenti delle vittime, cominciata trent’anni fa in Italia e negli Usa. E’ soprattutto merito suo se siamo riusciti a contattare in Italia, figli e nipoti di quei poveri disgraziati. Ed è merito di tutti gli abitanti di Monongah che ci sono stati vicino fin dal primo giorno e che ci hanno aiutato mettendoci a disposizione documenti, foto, libri, se questa triste storia è ritornata alla luce. Merito di quel grande sacerdote che è stato Padre Briggs, di Janet Salvati, la professoressa e del cugino medico, di tanti e tanti altri di cui non ricordo il nome ma i cui volti sono stampati nella mia mente….
Ringrazio il governatore Jo Mancin per avere concesso la cittadinanza onoraria dello Stato al sottoscritto e a tutti i giornalisti di Gente d’Italia che hanno lavorato e stanno ancora lavorando per la riscoperta di questa immane tragedia. Ringrazio il Consiglio Comunale di Canistro per avermi concesso la cittadinanza onoraria e ringrazio il vice ministro degli esteri, con delega per gli italiani nel mondo Franco Danieli, per aver promesso e poi attuato, senza esitazione, di onorare in nome dello Stato Italiano quei poveri resti di Monongah, diventata ora un simbolo. Finalmente. Ma ringrazio soprattutto i miei colleghi che hanno creduto fin dal primo momento in questa “battaglia” per far ritornare alla luce questo tombale olocausto.
Adesso, cento anni dopo, il ricordo del 6 dicembre si tinge soprattutto di futuro: che fare per preparare il secolo di memoria, come lasciare scolpito il senso di quell’esilio di cui s’era persa ogni traccia in che modo raccontare ai ragazzi di domani che tanti ragazzi di ieri hanno pagato con la vita il prezzo della loro debolezza: senza patria e senza lingua, né italiana né inglese, ché solo il dialetto parlavano. Privi di protezione legale e sindacale, esposti al freddo, all’umiliazione, alla disperazione. Non è stato bello, emigrare. Non è stato generoso, coi giusti, il carbone rosso di Monongah. Rosso di sangue, la sola cosa che ha finito per accomunarli tutti, e che il tempo -saggio- non è capace di dimenticare…”

Ma non ci fu solo Monongah. Il dicembre 1907 fu il mese delle stragi minerarie per gli Stati Uniti, un mese che si concluse con un bilancio terribile: 3000 minatori morti. Si ignora quante furono le vittime italiane. Non è neppure possibile conoscere il loro numero nelle tragedie degli anni successivi, come quella del 13 dicembre 1909 nella miniera Cherry in Illinois, in cui, tra gli altri, "Frank Samerania, Quartaroli Antenore, Fred Lauzi, Salvatore Piggatti, John Piggatti, e Bonfiglio Ruggeri si salvarono dopo essere rimasti intrappolati con altri per otto giorni nella miniera arroventata da scoppi e incendi". Alle tragedie si aggiunsero spesso discriminazioni. Un esempio: a seguito di un’esplosione in una miniera di Black Diamond, in California, vi furono molte vittime americane e straniere, tra cui quattro italiani. Alle famiglie degli americani furono assegnati 1.200 dollari di risarcimento; agli italiani solo 150.

Mimmo Porpiglia

Monongah, ieri e oggi
di Franco Danieli*
Il 6 dicembre ci ritroveremo presso il piccolo cimitero di Monongah per ricordare le centinaia di minatori provenienti da diversi paesi europei scomparsi in una delle più gravi tragedie minerarie della storia mondiale del lavoro e per tributare, a nome di tutti gli italiani, l’omaggio che è loro dovuto. Quel giorno rivolgeremo il nostro pensiero e le nostre emozioni prima di tutto ai giovani le cui vite furono spezzate in un modo tanto improvviso e crudele: ai loro sacrifici, alla caduta delle loro speranze, al dolore dei loro parenti. Ricorderemo i loro nomi uno per uno, per significare che la vita di ogni uomo, anche se – come quella dei migranti – è esposta al rischio del viaggio e della permanenza in realtà diverse e talvolta ostili, viene prima di ogni cosa, ha un valore preminente. Lo faremo anche con la convinzione che, in questo modo, manifesteremo attenzione e impegno verso tutti coloro che, ieri e oggi, hanno dovuto lasciare i luoghi d’origine, le loro relazioni umane e affettive, la loro cultura per realizzare altrove la loro esistenza.
Il 6 dicembre, a Monongah, compiremo anche un atto di riaffermazione del valore non solo umano, ma storico e culturale, dell’emigrazione italiana. Gli omaggi, spesso di maniera, a questa grande vicenda collettiva si susseguono, soprattutto quando non costano niente, vale a dire quando restano sul piano retorico e non comportano impegni e soluzioni di difficili questioni. Proprio l’evento di Monongah, rimosso dalla memoria collettiva e ignorato dall’impegno degli storici, nonostante che in quella località del West Virginia siano periti ufficialmente 171 emigrati italiani (di fatto molti di più), il maggior numero di connazionali mai coinvolto in un incidente sul lavoro all’estero, dimostra quanto ci sia ancora da scavare e da riflettere. E questo per almeno tre ordini di ragioni: conoscere la storia vera della nostra emigrazione, non solo nelle sue espressioni più tipiche e negli aspetti di affermazione e successo, ma anche nelle sue contraddizioni e nei suoi risvolti più nascosti, che sono di norma quelli più ordinari e numerosi; contribuire a delineare e a consolidare il profilo identitario delle nostre comunità all’estero, nel nostro caso di quella italoamericana, che rappresenta una delle più consistenti e importanti presenti nel mondo; recuperare elementi di conoscenza e suggestioni che possano essere trasmessi alle nuove generazioni non solo lungo un percorso di apprendimento della storia della società italiana, ma di formazione civile e di attenzione per le migrazioni, uno dei fenomeni centrali della nostra contemporaneità.
Per questo abbiamo cercato di fare le cose per bene, come la memoria degli scomparsi richiede e il costante richiamo alla vicenda dell’emigrazione suggerisce. Il Ministero degli Esteri, infatti, sta lavorando ad una serie di iniziative che ho proposto nei mesi scorsi per celebrare in modo adeguato l’avvenimento del centenario.
Costituiremo un Comitato per la celebrazione del centenario di Monongah, composto da autorevoli rappresentanti istituzionali, dai Presidenti delle Regioni italiane dalle quali sono partiti i lavoratori scomparsi nella miniera, dagli eletti al Parlamento nella ripartizione dell’America del Nord della Circoscrizione Estero, da rappresentanti del CGIE, da importanti personalità americane di origine italiana. Il Comitato non risponde ad un intento puramente commemorativo, ma serve a manifestare l’attenzione e il rispetto delle maggiori istituzioni italiane verso tutti gli emigranti caduti nel corso della loro vita di lavoro.
Nello stesso tempo, ho richiamato l’attenzione del Ministro degli Interni sull’opportunità di concedere ai caduti di Monongah, come è stato giustamente fatto con le vittime di Marcinelle, un riconoscimento al valore civile, giustificato dal fatto di avere contribuito,
prima ancora che con il sacrificio della vita, con il loro lavoro prestato in condizioni di grave pericolo, al miglioramento delle loro famiglie e, indirettamente, allo sviluppo del nostro Paese, che proprio nelle rimesse degli emigrati trovò, agli inizi del Novecento, un impulso alla sua modernizzazione. La circostanza che nella miniera di Monongah scomparvero anche minatori, donne e ragazzi non registrati, la cui identità è restata purtroppo sepolta con i loro corpi, non può costituire una remora per l’attribuzione del riconoscimento, ne accresce semmai il valore simbolico.
Abbiamo voluto, inoltre, che il programma generale delle iniziative previste per il centenario contenesse anche diverse manifestazioni promosse dalle Regioni interessate e dagli enti locali nel cui territorio videro la vita gli emigrati italiani che finirono a Monongah. Non si tratta solo di una buona pratica di collaborazione tra enti pubblici, ma di un principio più profondo, che porta a riconoscere e a valorizzare la radice locale dell’emigrazione italiana. Si parte sempre da un luogo, per ragioni che sono profondamente legate al rapporto che ogni uomo stabilisce con il suo ambiente di vita, ed è giusto che come gli emigrati abbiano conservato attraverso le generazioni la traccia delle loro radici, così i paesi d’origine preservino e onorino quel legame che ha loro consentito di vivere nel tempo e di irradiarsi oltre i loro ristretti confini.
In queste iniziative non mancheranno momenti di ricostruzione storica, antropologica e culturale della situazione in cui versavano i nostri emigrati negli USA a cavallo del Novecento, ma un’attenzione particolare sarà rivolta alla drammatica emergenza degli incidenti sul lavoro, che ancora oggi resta acutissima e che colpisce in particolare i migranti, i meno protetti e i più sfruttati. Ieri come oggi.
Per ridare spessore storico alla presenza dei nostri primi migranti negli USA e per colmare, almeno in parte, il vuoto di questi cent’anni di silenzio sulla tragedia di Monongah, ci siamo rivolti a seri studiosi che operano sulle due sponde dell’oceano per ricomporre il disegno e la complessità di quello che è stato uno dei momenti più intensi dell’emigrazione italiana. Abbiamo ritenuto che questo era dovuto ai giovani lavoratori periti a Monongah e a tutti gli altri, vittime di incidenti sul lavoro nelle miniere del West Virginia, della Pennsylvania, del New Mexico, del Colorado e nei tanti luoghi dove si è consumato il sacrificio del lavoro italiano. Non dobbiamo avere paura di conoscere il passato, anche quando esso si presenti con risvolti duri e talvolta drammatici.
Contribuire a fare conoscere il retroterra della nostra emigrazione serve, tuttavia, anche a consolidare e a proiettare verso il futuro i rapporti che l’Italia può conservare e sviluppare con le sue grandi comunità di origine. Quella degli italoamericani è una delle più importanti, delle più integrate, delle più prestigiose. Sulla base delle nuove sensibilità interculturali che la mondializzazione ha sospinto, si rafforzano le tendenze a ricercare nel proprio passato le ragioni forti della propria identità. Credo che sia importante che la storia e la cultura degli italiani siano considerati non solo il risultato di quanto si sia riuscito ad elaborare nell’ambito – per così dire – metropolitano, ma l’espressione di tutto quello che gli italiani hanno saputo affrontare e fare in qualunque parte del mondo. Aiutare le nostre comunità all’estero a ricostruire la loro storia e la loro identità, dunque, è importante non solo per loro, ma anche per noi, per avere una percezione meno chiusa e limitata della realtà e delle possibilità del nostro Paese. Della comunità italoamericana la dimensione del lavoro e dell’inserimento sociale è un profilo fondamentale. Parlare oggi di Monongah significa così non solo rievocare, ma anche riconoscere il proprio passato e ritrovare le ragioni non effimere dell’integrazione in quel grande Paese, il senso di un dignitoso protagonismo collettivo, di cui negli USA tanti emigranti e loro discendenti hanno saputo dare prova a livello individuale.
Ed è anche per fare della storia dell’emigrazione un fermento di crescita culturale e di consolidamento identitario che considero la creazione di un Museo nazionale dell’emigrazione italiana uno degli obiettivi primari del mio impegno di governo. Non un luogo chiuso e separato, di fredda esposizione di cimeli e memorie, ma una rete che colleghi e valorizzi sia i musei locali dell’emigrazione italiana che le strutture e i centri di ricerca che agiscono nelle nostre comunità, con l’intento di ricostruirne il profilo storico e i tratti più vivi del loro percorso di integrazione.
In questa prospettiva, può essere prezioso qualsiasi serio contributo, sia che provenga da centri organizzati che da iniziative private. Un buon esempio è proprio quello che riguarda l’editore Mimmo Porpiglia e il suo giornale Gente d’Italia. La coltre di silenzio e di abbandono che da circa un secolo era calata sulla vicenda di Monongah è stata sollevata nel 2003 proprio da questo giornale, che alla tragedia mineraria ha dedicato molte pagine e, soprattutto, ha avviato la ricerca sui fatti e sulle persone in esse coinvolte, una ricerca preziosa per la memoria dell’evento e per un primo coinvolgimento delle istituzioni italiane. Per questo, dando atto a Mimmo Porpiglia del suo intuito giornalistico e della passione civile che mette nel suo lavoro, lo ringrazio pubblicamente per quanto ha fatto per i minatori di Monongah e per tutti noi.
Vorrei chiudere queste note, tuttavia, lasciando un giusto spazio alla pietà per gli scomparsi, giovani partiti quasi tutti dal Mezzogiorno d’Italia per guadagnarsi altrove una vita diversa. Il cimitero di Monongah dove i loro resti riposano presenta, purtroppo, tutti i segni devastanti del tempo. Per questo stiamo operando per riportare quel luogo di memoria e di pietà ad una condizione consona alla sua funzione. Lo faremo con l’intento di ricordare tutti gli scomparsi, i migranti che da ogni parte d’Europa avevano accettato di lavorare in condizioni così precarie e pericolose per la stessa ragione di miglioramento e di promozione personale e sociale. In questo modo ci sembra di rispondere ad un nostro primario dovere di solidarietà umana, senza distinzioni e confini, e, nello stesso tempo, di dare un segnale chiaro che i migranti, quelli che da un secolo hanno sofferto incidenti di lavoro nelle miniere del mondo e quelli che le cronache attuali ci descrivono in disperata e spesso vana navigazione verso le nostre coste, hanno per noi uno stesso valore. Pensiamo che si debba a tutti lo stesso rispetto e lo stesso impegno di operosa solidarietà.
Sen.Franco Danieli
Vice Ministro
degli Esteri con delega
per gli Italiani nel mondo 
 

Baccini: “Grazie….” 

Di mario baccini
Caro direttore,
Grazie. In un misto di commozione e rabbia è questa la prima parola che sento il dovere di dire a lei, a “Gente d’Italia” e ai suoi giornalisti. Grazie perché avete contribuito in maniera determinante a portare alla conoscenza di tutti la tragedia di Monongah, una tragedia che era stata, fino ad oggi, nascosta nella memoria dei nostri connazionali emigrati nel secolo scorso ma che mai era stata amplificata dagli organi di informazione.
Da questo deriva la mia rabbia, dal fatto che la morte di tante persone non abbia mai avuto il giusto risalto, non sia mai stata giustamente ricordata. L’Italia piange i suoi figli, i figli che ha perso fuori dal proprio suolo, mentre lavoravano onestamente cercando altrove quella fortuna che, un secolo fa, era difficile trovare in Italia.
E proprio grazie a lei, caro direttore, scopriamo che ancora oggi è impossibile sapere quante persone siano veramente morte in quella miniera: all’inizio si parlò di 171 connazionali, poi di molti di più e andando avanti negli anni quel numero è sempre aumentato. Questo perché, come è stato sottolineato e come è facile immaginare, per ogni minatore regolarmente registrato ce n’erano molti che lavoravano in maniera non ufficiale, in nero, come si direbbe oggi.
Ricordare quella tragedia oggi è il minimo che possiamo e dobbiamo fare: lo dobbiamo per tutti quelli che hanno perso la vita a causa di quell’esplosione, lo dobbiamo alle loro famiglie, lo dobbiamo ai nostri connazionali di oggi e a tutti i lavoratori, perché in futuro non si debba più piangere per una tragedia come quella che ricorda tanto quella di Marcinelle. In Belgio siamo andati tante volte. Lì abbiamo ricordato i nostri morti, abbiamo cercato di dare a loro il giusto spazio nella memoria collettiva. Ma siccome nessuna vittima vale più di un’altra è giusto che, dopo la scoperta del suo giornale, anche le vittime di Monongah abbiano la loro “degna sepoltura”. Per questo, con l’articolo ancora davanti agli occhi mi sono adoperato per attivare i contatti con il sindaco della città e con i rappresentanti delle associazioni locali di italiani.
Rivolgo il mio ultimo pensiero a chi non c’è più e un ulteriore complimento a lei e al suo giornale, per il lavoro svolto che ha contribuito in maniera determinante a portare all’attenzione di tutti una tragedia che rischiava di essere dimenticata per sempre.
*Mario Baccini
Vice Presidente del Senato 

Le responsabilità delle classi dirigenti
di Antonio Ghirelli 

Nella vicenda di Monongah ci sono tutti gli elementi di una immane tragedia che chiama in causa, però, non la fatalità di un destino avverso ma le precise, atroci responsabilità delle classi dirigenti. Bisogna insistere su questo punto, anche per evitare che questa straordinaria inchiesta del direttore e dei giornalisti di Gente d’Italia possa essere interpretata come un semplice omaggio alle centinaia di vittime o, peggio, come una retorica cerimonia allestita con immenso ritardo per salvarsi a posteriori l’anima.
A rappresentare, con struggente simbolismo, la parte sostanziale che va fatta, per la vicenda di Monongah, al dolore umano basta la testimonianza di quella vedova che per vent’anni ha accumulato una montagna di carbone dietro la sua casa, portando ogni giorno un cestino dalla miniera, nella desolata speranza di ritrovarvi almeno una parte dei resti del compagno perduto.
La responsabilità, dicevo, delle classi dirigenti. In primo luogo, ovviamente, quella italiana che tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo scorso hanno creduto cinicamente di risolvere i problemi del Mezzogiorno con l’emigrazione di milioni tra i più poveri contadini, anzicchè distribuire, razionalmente ed equamente, le risorse nazionali che hanno destinato, invece, quasi per intero alla protezione della nascente grande industria della pianura padana o al finanziamento di sciagurate avventure coloniali come quelle in Eritrea e in Libia.
Responsabilità dei governi, dei partiti, dei poteri forti rese ancora più gravi ed imperdonabili dal totale abbandono economico, morale, culturale, sanitario in cui lasciarono per decenni i milioni di poveri emigrati, costretti a vendersi fino all’ultima mucca e ad abbandonare per sempre la terra, la lingua, la famiglia nativa pur di inseguire il miraggio di una sistemazione in capo all’infernale avventura di lunghissime traversate oceaniche a bordo di spregevoli carrette del mare simili a quelle dei più infami trafficanti di schiavi.
Ma insieme con le responsabilità dei ceti dominanti italiani la tragedia di Monongah ci aiuta a cogliere anche quelle delle autorità americane, da Washington al West Virginia, che non solo all’inizio del Novecento ma per tutto l’ultimo secolo hanno prodotto il massimo, spregevole sforzo per minimizzare le dimensioni di quel tombale olocausto, se non addirittura per farlo dimenticare.
La moda culturale del momento che stiamo vivendo attualmente in Europa suggerirebbe di lanciare il solito anatema contro la civiltà e la cultura degli Stati Uniti, che, indubbiamente, in questa come in altre circostanze di allora e di oggi non possono essere assolte; ma basta pensare all’odiosa pratica della Lega padana, alle drammatiche rivolte della “banlieu” francese o anche ai caotici Centri di accoglienza allestiti sulle isole e sulle coste del nostro Sud per rendersi conto di una amara verità, quella che noi napoletani condensiamo nell’amara sentenza:”’o sazio nun crede ‘a’o diuno”.
Il paradosso fu, per quanto riguarda i milioni di nostri emigranti in America, a cavallo degli ultimi due secoli, che l’unico aiuto organizzato venne loro dalla mafia, quella che allora si chiamava Mano Nera e che, naturalmente, si faceva pagare carissima la sua presunta carità.
Per fortuna, e sia detto tranquillamente da un laico convinto come il sottoscritto, ci furono – e non solo a Monongah – sacerdoti, suore, intellettuali italiani ed americani che restituirono ai nostri sfortunati fratelli ( solo in minima parte ma con immensa generosità ) la solidarietà umana perduta.
Antonio Ghirelli 
 
 


Ma le miniere continuano ad uccidere
Di ennio caretto
Le miniere continuano a uccidere in tutto il mondo, America inclusa, accadde tre anni fa in Pennsylvania, l’anno scorso in Virginia e quest’anno nello Utah. Ma le tragedie sono sempre meno frequenti, le vittime sempre meno numerose, e tra di loro figurano sempre meno italiani. In un secolo, l’America e l’Italia sono molto cambiate, in America c’è maggiore sicurezza sul lavoro, più rispetto per l’ambiente, e l’Italia non le esporta solo più braccia ma anche e anzi soprattutto cervelli. C’è ancora parecchia strada da fare per entrambe le nazioni, ma la comunità italo americana, che talvolta ha pagato un prezzo atroce per un duro tirocinio, il prezzo del sangue, svolge oggi un ruolo guida negli Stati Uniti.
Secondo l’Organizzazione mondiale del lavoro, nell’epoca della globalizzazione, oltre 6 milioni di persone muoiono ogni giorno di incidenti o di malattie nell’esecuzione delle loro funzioni, di norma le più difficili e rischiose, compresi i trasporti. Ma dal censimento del 2005, in America ne muoiono in media meno di 6 mila all’anno, quattro ogni centomila operai o impiegati, una cifra in cui figurano anche circa 550 omicidi e 170 suicidi in fabbrica o in ufficio per motivi che non sempre hanno a che vedere con l’impiego. Il venti per cento delle vittime lavora nell’industria manifatturiera, il 16 per cento nei servizi, il 15 per cento nel commercio. Negli Usa, gli incidenti minori e le malattie lievi tuttavia non si contano, e spesso l’assistenza medica e sanitaria è carente.
In America, un secolo, un secolo e mezzo fa il lavoro in miniera poteva equivalere a una condanna a morte. A cavallo del 1900, le tragedie si susseguivano mensilmente, con centinaia di vittime alla volta. Le miniere erano centinaia, di carbone, d’argento, d’oro, di altri minerali, e la manodopera, non di rado minorile, era sfruttata spietatamente. Sovente scoppiavano rivolte, represse con la violenza dalla polizia o dai “contractors”, gli sceriffi privati, come vengono chiamati adesso: negli Anni venti, persino i Rockefeller, una delle massime dinastie industriali e finanziarie americane, ebbero sulla coscienza una strage di uomini, donne e bambini nella West Virginia. I minatori erano carne da cannone, immigrati senza altri sbocchi, per lo più italiani o europei dell’est.
L’eredità di quei tempi della sofferenza sono le “ghost towns”, le città fantasma che costellano parecchie aree degli Stati uniti, città minerarie decadute perché non più redditizie, o perché rese obsolete dalle nuove tecnologie, o perché chiuse per aver distrutto l’ambiente circostante. Ma i terribili sacrifici dei minatori italiani, e degli altri nostri immigrati negli slums metropolitani, hanno dato frutti. I loro figli studiarono e si fecero strada, e i loro nipoti siedono oggi alla Corte costituzionale, come i giudici Sam Alito e Antonin Scalia, o al Congresso, come Nancy Pelosi, la prima donna presidente della Camera. E per la prima volta, tra i candidati alla Casa bianca c’è un italo americano, l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani. Un elenco che continua all’infinito.
Nei confronti della più grande generazione dei nostri immigrati, che riuscì a tenere unita e migliorare la condizione famigliare, quella attuale di medici, scienziati, docenti italiani in America, e così via, ha contratto un grosso debito. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, quando l’intellighenzia ebraica dovette lasciare l’Italia, l’America scoprì di avere nel nostro paese un serbatoio di cervelli, e da allora vi ha attinto liberamente. Ma grazie al popolo delle braccia suo predecessore, il popolo dei cervelli si trovò la strada spianata. Nel mondo, il contributo italiano alle scienze è in genere sottovalutato. Eppure, l’Italia contribuì ad alcune delle massime scoperte scientifiche della storia, elettricità, telefono, radio, atomo, creando addirittura folclore: Frankstein fu ispirato dagli esperimenti di Luigi Galvani sui cadaveri.
Tra le due emigrazioni c’è però una importante differenza. La prima, la più umile, fu inevitabile, l’Italia non era in grado di sfamare tante bocche. Ma la seconda, tuttora in corso, non dovrebbe essere permanente, l’Italia ha bisogno dei suoi cervelli per vincere la sfida della globalizzazione. Essi devono potere ritornare un giorno dall’America, e per attirarli lo stato italiano ha l’obbligo di finanziarne le ricerche e di dare loro il riconoscimento e il trattamento che meritano. La politica della scienza è una sola, non dipende dai partiti, è eccellere negli uomini e nei mezzi. L’Italia non potrebbe rendere omaggio maggiore alla memoria di quanti furono costretti a staccarsene, portandola sempre nel cuore, e morirono nel ventre della terra che li aveva accolti.
Ennio Caretto 
 
 

Un ululato per Monongah 

Di pietro mariano benni
Io sono stato in quella miniera assassina, nelle viscere sconvolte di quella terra dimenticata non da Dio ma di certo dagli uomini. Io sono entrato cento anni fa con gli abusivi non segnati sui registri all’ingresso della grande, spaventosa miniera, con i minori che non dovevano entrare e che nessuno ha mai contato, inghiottiti per sempre dal lavoro nero e dal nulla. Ho respirato il gas velenoso e poi le esalazioni dei corpi decomposti di vittime che, nonostante la buona volontà e la piétas di alcuni, resteranno per sempre senza nome. Ho scritto centinaia, forse migliaia di righe per “La Gente d’Italia” su Monongah, un luogo che ancora oggi, se non è esattamente un “American nightmare”, un incubo nascosto in una piega della West Virginia, è comunque l’esatto opposto dell’”American dream”. Tra le nove storie emblematiche di homeless, senzatetto americani, che Sharon Cohen ha scritto per l’agenzia di stampa statunitense Associated Press il 26 febbraio 2005, una sola è ambientata in provincia e dice:
“3:15 P.M.: WEST VIRGINIA. A light snow falls in the mining town of Monongah, W.Va., as nurse’s aide Harleigh Marsh heads home from his job at St. Barbara’s Memorial Nursing Home. Marsh lives at Scott Place, a shelter in nearby Fairmont. A former sailor, Marsh lives in a dimly lit 14-by-14 room. After leaving the military in 1979, Marsh tried college, but soon began traveling again, working as a drywall hanger and painter, renting rooms by the week, living from a suitcase. In Milwaukee, he met a woman and fell in love. They had a son. But she found someone else, leaving him heartbroken. Almost overnight, he was homeless. He ended up in Scott Place last year; the Veterans Administration provided help for his depression. Marsh loves his job but after $300 monthly child support payments, he’s left with just $140 a week not enough to visit his 13-year-old boy, William Ray. "It tears both of us apart," he says.
La lascio in inglese proprio per rispetarne l’asciutta durezza, a rischio di non farla capire pienamente a tutti, la storia di questo ex-marinaio, questo reduce che sopravvive nel ricovero di Scott Place in disperazione, come l’ultimo degli extra-comunitari in Italia, senza poter neppure vedere il figlio di 13 anni. Ma che cosa è e che cosa ha Monongah? Perché mai ci si moriva in malo modo e ci si sopravvive ancora oggi in malo modo? Ricordo che visitandola nel 2003 e tentando di fare il mestiere di cronista, parlai con più di un cittadino. Disoccupazione, depressione economica, mancato sviluppo, isolamento furono gli unici argomenti di quelle conversazioni di persone gentili e rassegnate. Sembra che quel nome, Monongah, abbia origini indigene, un nome che per gli “indiani” della non lontana catena montuosa degli Appalaci, avesse a che fare con i lupi. Io sono nato, guarda caso, in un minuscolo villaggio campano, anzi sannita, che si chiama San Lupo. Forse anche per questo, mentre rispondo alla richiesta di scrivere ancora 30 righe , mi viene più da ululare che da scrivere. Affidare a un ululato tutta la disperazione di e per quei morti in miniera, di tutti i morti in qualsiasi miniera in ogni tempo e in ogni guerra ovunque, di tutte le vittime della violenza: da quella dei campi di sterminio organizzati a quella dei sopravvissuti ai campi di sterminio; da quella del terrorismo all’altra della cosiddetta guerra al terrorismo; da quella sui bambini e le donne all’altra che devasta di continuo senza scopi né obiettivi precisi la vita di persone semplici e inermi. La violenza dei mezzi d’informazione, quella dei “crociati” per lo scontro di civiltà e l’altra delle morti bianche nei luoghi di lavoro. Un ululato di indignazione per un mondo che, nonostante le molte e diverse Monongah di ogni tipo, sembra non aver imparato a vivere difendendo la vita e la dignità della persona. Nemmeno nel paese che più di ogni altro ha tentato di porsi, almeno in alcuni momenti passati della sua storia, come faro di benessere, libertà e giustizia. Mentre nascondeva le sue Monongah. Un ululato per ricordare a tutti che continuando a produrre e nascondere Monongah su Monongah si finisce solo col produrre un mondo sempre più invivibile. Trasformando in “ultimi” anche quelli che fino a qualche anno fa non lo erano. Un ululato, in realtà, per la speranza di un mondo migliore. Senza miniera assassine di nessun genere.
*Pietro Mariano Benni
Direttore Misna 

A Joseph Tropea il premio Monongah 2007
Di Gerardo Picardo
“Oggi quegli ‘eroi di carbone’, i minatori italiani morti a Monongah, trovano pace”. Lo ha detto il professor Joseph L. Tropea, docente emerito di sociologia della George Washington University, vincitore del ‘Premio Monongah 2007’, consistente in un assegno di 5mila dollari, messo a disposizione dalla Fondazione Italia nelle Americhe, ente no profit, e da ‘Gente d’Italia’, per continuare una ricerca ormai quarantennale su quella tragedia del 6 dicembre 1907, la piu’ grave tragedia mineraria nella storia degli Stati Uniti.
”E’ un momento straordinario -spiega Tropea- per quei lavoratori italiani fino a poco tempo fa dimenticati dal governo italiano e americano. Per me -rimarca lo studioso- e’ una doppia soddisfazione perche’ vedo finalmente arrivare il tempo della giustizia. Sono un italiano anch’io e in questo momento penso soprattutto a mio nonno che era un minatore”.
”Questo premio non e’ importante solo per me, ma perche’ e’ il coronamento di quasi 40 anni di lavoro spesi per indagare e far conoscere il sacrificio di tanti nostri connazionali morti nella miniera di Monongah il 6 dicembre 1907”. ‘In questi anni di duro silenzio -aggiunge lo studioso di origini calabresi- su quella maledetta miniera del West Virginia, che fu teatro della piu’ grande tragedia della storia mineraria italiana e americana che provoco’ la morte di 956 minatori, tra i quali almeno 400 italiani, di cui 171 accertati, questo muro di gomma e’ stato bucato solo dall’interessamento del quotidiano ‘Gente d’Italia’ nel 2003, che ha mantenuta viva l’attenzione su quei fatti perche’ un giorno arrivasse finalmente la verita”’.
”Quando, negli anni scorsi -ricorda ancora Tropea- ho visto le bandiere americane sul cimitero di Monongah, una domanda ha continuato a farmi male per tutto questo tempo: perche’ su quelle lapidi dimenticate non ci sono anche bandiere italiane a onorare quei caduti sul lavoro? Oggi -dice commosso il docente emerito di sociologia alla George W. University- posso dire che questo sogno si e’ avverato. Dal 2003 sono passati 4 anni ma la promessa fatta allora da Mimmo Porpiglia, direttore di ‘Gente d’Italia’, rispettare questa catena di silenzio, e’ giunta”.
”Il governo italiano, prima con il libro della Farnesina curato dal Professor Norberto Lombardi, poi con la visita ufficiale del 6 dicembre prossimo a Monongah -dice il docente- ha voluto finalmente raccontare questa terribile storia”.”Quanto a me -rimarca Tropea- ho continuato la mia ricerca senza fondi, con caparbieta’ e pazienza, mettendomi sulle tracce delle famiglie dei minatori morti. Oggi -non trattiene le lacrime Tropea- sento che i minatori di Monongah mi parlano, come hanno fatto in tutti questi anni di silenzio, e sono felice perche’ questa tragedia ha una precisa collocazione nella storia del lavoro e della emigrazione italiana”.
”Recentemente -rimarca Tropea- ho appurato che non e’ vero che alla tragedia e’ sopravvissuto un polacco, ma sono invece certo che sono 4 gli italiani scampati a quell’inferno del carbone di Monongah, diventato rosso con il sangue dei nostri lavoratori. Quando sentivo parlare di Marcinelle -fa ancora osservare lo studioso- mi chiedevo: ma perche’ la tragedia di Monongah, sui monti Appalachi, una cittadina sperduta in West Virginia (Usa), che in dialetto indiano significa ‘lupo’, non interessa a nessuno?. Oggi -conclude Tropea- quei minatori possono riposare in pace, soprattutto i bambini, ribattezzati ‘raccoglitori d’Ardesia’ o anche ‘ragazzi dell’interruttore’. In un libro scritto anni dopo la tragedia, a uno di questi bambini veniva chiesto: conosci Dio? ”Non lo conosco”, replicava il piccolo minatore. Forse lavorera’ in qualche altra miniera”.
”Ora -conclude Tropea- questa tragedia fa parte della storia nazionale e su quei morti, in una striscia di terra di nessuno, qualcuno ha piantato delle croci sulle quali e’ scritto: qui giace un eroe. Non sappiamo il suo nome, ma sappiamo che e’ un eroe”.
g.p 

“Premio Monongah 2007”
Presieduta dal presidente della Fondazione Italia nelle americhe e direttore di Gente d’Italia, Domenico Porpiglia è composta dal vice ministro degli esteri Franco Danieli, Paolo Peluffo, Direttore del Dipartimento stampa e comunicazione della Presidenza del Consiglio; Giampiero Gramaglia, Direttore dell’Ansa; Andrea Pucci, Condirettore dell’Adnkronos; Mauro Mazza, direttore del TG2; Alfonso Roberto Rosseti, direttore Uno Mattina e vice direttore del TG1; Maurizio Bertucci, vice direttore Rai International; Alfonso Ruffo, direttore Il Denaro; Mariano Benni, direttore Misna; Bruno Tucci, Presidente ordine dei giornalisti Lazio; Antonio Ghirelli, editorialista, scrittore; Ennio Caretto, editorialista, scrittore; Federico Guiglia, editorialista, scrittore; Giorgio Torchia, editorialista, scrittore; Claudio Angelini, direttore dell’Istituto italiano di cultura New York; Stefania Nardini scrittrice; Nino Petrone, editorialista, scrittore; Angelo Scelso, editorialista, sottosegretario del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali del Vaticano; Settembrino Nebbioso, magistrato; Astolfo Di Amato, titolare della cattedra di Diritto ed economia dei mezzi di comunicazione all’Università degli studi di Napoli “Federico II. La giuria ha deciso all’unanimità di assegnare il premio al professor Joseph Tropea. 

Cari minatori di Monongah,

cari italiani di un secolo fa…
Di Federico guiglia
Cari minatori di Monongah, cari italiani di un secolo fa, quel secolo che uno storico ha definito “breve”, ma che per voi è stato brevissimo,il 6 dicembre ricorreranno cent’anniesatti dall’esplosione che nel 1907 vi ha inghiott iti per sempre nella Virginia Occidentale, Stati Uniti d’America. Come ogni giorno, anche quel giorno eravate discesi nelle viscere della terra per scavare racco gliere il carbone nero che nel giro di pochi minuti sarebbe diventato rosso del vostro sangue. Tutti i trecentocinquantotto lavoratori ufficialmente presenti, quella mattina, nelle due miniere della Fairmont Coal Company teatro dello scoppio, sono morti. Fra questi, che erano cittadini americani, austriaci, ungheresi, russi e turchi, c’erano ben 171 italiani. Eravate voi. E con voi c’erano altri sconosciuti, e certamente bambini, i quali non venivano registrati al momento dell’ingresso nelle miniere contrassegnate coi numeri 6 e 8. Vi accompagnavano per tirar prima giù e poi su ancor più carbone, cioè per aiutare a sfamarvi. E per sfamarsi. Ma l’ipocrisia padronale del tempo imponeva l’anonimato dello sfruttamento. E perciò costoro “non risultano” da nessuna parte. Risultano solo alle povere famiglie che li persero, e che a loro volta sono nel frattempo scomparse, travolte dal tempo e dal lutto. Ma sappiate, voi che non ci siete più, italiani e stranieri a cui hanno strappato anche il diritto del nome sulla lapide, che noi vi ricordiamo senza sapere chi siete. Perché sappiamo con certezza dove siete, dopo aver conosciuto l’inferno. Se Dio esiste, gli eroi del lavoro riposano in paradiso. Ecco, il prossimo 6 dicembre Monongah si tingerà di colori non meno divini, per chi, come voi, li ha amati in silenzio e da lontano.
Monongah si tingerà di verde, di bianco e di rosso, e per la prima volta in cent’anni. Perché per la prima volta questo nostro distratto eppur meraviglioso Paese collocherà un cippo commemorativo nel cimitero a campo e cielo aperti in cui i vostri resti giacciono, da quel giorno che non sarebbe dovuto arrivare. Possiamo dirvi d’essere un po’ commossi anche noi, al pensiero che l’oblio che pareva durare per sempre, sia finito per sempre? Possiamo dirvi d’essere un po’ fieri anche noi, nell’aver contribuito a raccontare la vostra storia dimenticata con pagine e pagine di questo giornale, dopo che il suo direttore ha creduto, fortemente creduto nel dovere giornalistico di riproporre, di “bombardare di informazioni” -come ha detto, azzeccando, un vice-ministro- a proposito della tragedia troppo a lungo sepolta? Sì, missione compiuta: e non capita spesso nel mestiere del giornalismo, che è per sua natura fuggente e poco propenso a “restare sulla notizia”. Possiamo, inoltre, dirvi che avete avuto dalla vostra parte uno studioso italo-americano che, a sue spese, ha tenuto viva la fiammella del ricordo per decenni prima che si spegnesse, e che per questo è stato da poco premiato in Italia? No, niente nomi. Né del direttore, né dello studioso, né del vice-ministro che si accinge a portarvi, ponendo fine al secolare ritardo istituzionale, il calore della vostra Italia. Tanto, li conoscete già questi nomi. Perché, ciascuno nel proprio ambito, sono quelli che si sono impegnati per imporre il misterioso nome di Monongah all’attenzione dei tanti.E poi, stavolta è giusto che si parli soltanto di voi, soltanto della lista dei 171 caduti italiani, lista che s’apre col nome di Carlo Abbate e finisce con quello di Sebastiano Zeoli Barone; in rigoroso e doloroso ordine alfabetico.
Cari minatori, scusate, se vi riesce, il ritardo della vostra Nazione. Ma cent’anni di solitudine sono terminati. Il vostro dramma è ormai nei nostri cuori. E mai più accadrà quel che non doveva accadere, mai più accadrà che un lavoratore italiano morto in una qualunque parte del
mondo, dovrà attendere quasi quarantamila giorni (provate a contarli!)prima d’avere il simbolico conforto, la concreta gratitudine e, seoccorresse, la reazione civile della sua patria. Mai più accadrà chedei poveri giusti aspetteranno un secolo prima che la Repubblica italiana “certifichi” che fossero dei giusti. E che fossero dei poveri.Il vostro sacrificio è entrato nelle vene dell’Italia. Siamo tutti più forti, oggi, vigilia del 6 dicembre 2007. Monongah non ha più misteri da svelare o lacrime da consolare, ora che è diventato, finalmente,memoria.
f.guiglia@tiscali.it
Sulle tracce degli emigrati italiani
morti nella « miniera maledetta »
E’ l’Italia dei piccoli comuni a sacrificare i suoi figli a Monongah all’inizio del ‘900. Centinaia di nostri connazionali, partiti qualche anno prima da paesi di appena mille abitanti, trovano la morte in un continente tanto lontano dalla madrepatria, ma in un ambiente naturalistico non completamente diverso da quelle regioni italiane che avevano dato loro i natali. Ancora oggi, a distanza di un secolo, quei paesi sono abitati. Centri che hanno conservato le loro tradizioni, i loro dialetti, ma solo un lieve ricordo di quegli emigrati. Contrade caratteristiche e di assoluto splendore sopravvissute a calamità naturali e alle grandi guerre. Tra i vicoli di questi piccoli centri d’Italia, però, dei minatori deceduti a Monongah è rimasta solo qualche traccia, almeno in qualche ingiallito documento d’anagrafe. I loro nomi sono sui registri di ogni singolo comune. E’ in questa Italia che siamo voluti tornare, alla scoperta dei paesi d’origine dei minatori, seguirne le orme lasciate all’inizio del secolo scorso per ritrovare qualche segno del loro passaggio sulla terra, restituendo a tutti quella dignità strappata da un evento violento e tragico come fu lo scoppio della miniera statunitense del West Virginia. Sono sei le regioni italiane di provenienza dei minatori morti il 6 dicembre 1907. Sono l’Abruzzo, la Calabria, la Campania, il Lazio, il Molise e la Puglia a perdere i propri cari nel nuovo continente. Se si leggono i nomi dei comuni in cui sono nati quei minatori alcuni suonano strani. Fossalto, Pescocostanzo, Falerna, Caccuri, Carfizzi sembrano paesi misteriosi, quasi appartenenti a un’altra nazione. Nomi di città tanto bizzarri quanto sconosciuti. Paesi sperduti in angoli ignoti della nostra nazione. Sperduti perché la maggior parte di essi è fuori dalle più importanti vie di comunicazione. Ieri come oggi. Grappoli di case arroccate sulle montagne d’Abruzzo o di Molise, di Calabria o dell’entroterra campano, ancora oggi tenuti in poca considerazione. Eppure anch’essi fanno parte di quegli 8.100 comuni italiani che hanno reso grande il Belpaese. E’ qui che siamo tornati, è questa la realtà che vogliamo ancora analizzare alla ricerca delle radici di quei lavoratori di miniere che nel secolo scorso hanno sacrificato la loro vita all’interno delle gallerie per l’estrazione del carbone. Se oggi il nome di questi paesi può assurgere a emblema di un eroismo di altri tempi lo si deve proprio a chi, cento anni fa, non ha esitato a risparmiare la propria vita in nome di valori autentici ben radicati nella terra d’Italia. Sono 28 i paesi italiani coinvolti nella tragedia di Monongah. E la la nostra spedizione a ritroso compiuta nel 2003 una spedizione della memoria e nella memoria collettiva per onorare chi, oltreoceano, con il suo spirito di sacrificio e con il desiderio umano di costruire un futuro migliore, ha portato alto il nome dell’Italia. Di quella Italia dei primi trenta anni del novecento che ha a che fare con il problema delle comunicazioni, con l’arretratezza del settore meccanico nell’industria, con l’inadeguatezza del sistema bancario e le condizioni precarie della manodopera contadina. E’ l’Italia dell’emigrazione. Per questo siamo tornati lì dove gli emigrati, con moglie, figli e qualche bagaglio, a malincuore ma costretti dalle circostanze ad affrontare mesi di navigazione diretti negli Stati Uniti d’America, hanno lasciato il suolo patrio per cercare fortuna in America.
La Valle Roveto, verde angolo d’Abruzzo solcato dal fiume Liri, abbraccia oggi otto piccoli comuni: Capistrello, Canistro, Civitella Roveto, Morino, Civita d’Antino, San Vincenzo Valle Roveto e Balsorano, tutti ricadenti nel territorio della provincia dell’Aquila. Tre di questi minuscoli paesi sono entrati di diritto nella storia di Monongah e della sua miniera per avere sacrificato nella lontana contea del Canion tanti propri compaesani. I nomi di Canistro, Civitella Roveto e Civita d’Antino appaiono sui registri della miniera statunitense quali paesi d’origini di molti minatori deceduti nello scoppio del 6 dicembre 1907. In Abruzzo siamo andati alla ricerca delle loro famiglie, dei loro discendenti per conoscere qualcosa di più di loro e delle loro usanze, per apprendere qualcosa di più profondo perché il loro non rimanesse un semplice nome annotato su un registro di morte, ma rievocasse per tutti gli italiani un eroe del lavoro. La Valle Roveto si raggiunge mediante la superstrada del Liri, un’arteria a scorrimento veloce che collega in scarse tre ore l’Abruzzo alla Campania. Ci vuole poco per raggiungere CANISTRO, piccolo comune di mille abitanti diviso in due zone, la parte superiore, quella più nuova situata alla destra del fiume Liri, e l’antico borgo. Due volti di un paese ricco di attrazioni naturali che del vecchio abitato di primo novecento conserva solo una monumentale fotografia nella sala consiliare del Municipio. Il centro storico offre scorci molto scenografici. Non manca una splendida fontana di fine ottocento nel cuore del centro storico. Lungo queste strade, alcune delle quali hanno conservato la vecchia struttura, sono animate da bambini e adolescenti, che giocano ignari della vicenda della miniera statunitense. Della sua storia antica si sa solo che era, in epoca romana, un piccolo villaggio, ubicato nei pressi dell’attuale capoluogo, viene nomi

www.genteditalia.com

 

4048-domani-edizione-speciale-di-gente-ditalia-per-il-centenario-di-monongah

4804

EmiNews 2007

 

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