481 IL RISCATTO DELLE POPOLAZIONI INDIGENE IN AMERICA LATINA

20051118 13:03:00 rod

Roma – 23 novembre ore 10,00 -13,00 15,00 -18,00
Seminario "Il riscatto delle popolazioni indigene dell’America Latina" – Sala congressi Università La Sapienza – Via Salaria 113

intervengono
Adolfo Pérez Esquivel, Premio Nobel per la Pace argentino
Luis Evelis, presidente ONIC (Organizzazione Nazionalità Indigene Colombia)
Luis Macas, presidente CONAIE (Confederazione Nazionalità Indigene Ecuador)
Blanca Chancoso, leader movimento donne indigene ecuadoriane
Oscar Olivera, rappresentante della Coordinadora del agua y la vida e dei movimenti sociali boliviani
Eugenio Rojas, sindaco di Achacachi, municipio indigeno aymara, Bolivia
Carlos Montemayor, giornalista e scrittore messicano, esperto della questione indigena

Introducono:

Angelo Bonelli, Assessore all’ambiente della Regione Lazio
Giuseppe De Marzo, portavoce dell’associazione A Sud

Moderatore:
Gianni Minà, direttore della rivista Latinoamerica

Uno degli effetti più palesi del vento politico di rinnovamento che ha cominciato a spirare in America latina con l’affermazione di governi progressisti in Brasile, in Venezuela, in Argentina, in Uruguay e in parte in Cile è rappresentato dal riscatto delle popolazioni indigene, vittime del colonizzatore, ma non dome, che stanno cambiando il presente e forse il futuro di nazioni come la Bolivia, l’Ecuador e prossimamente forse il Perù, il Guatemala e la stessa Colombia senza legge.

Tutto è cominciato con la rivolta zapatista del ’94 nel Chiapas messicano, dove gli eredi dei Maya, con l’aiuto di un intellettuale bianco come Marcos, “rieducato” dalla cosmovisione di quelle popolazioni millenarie, ha cambiato non solo l’agenda politica del Messico, ma ha offerto un segnale forte di una umanità decisa a riappropriarsi del proprio destino e decisa a imporre ai governi idee e scelte di solidarietà e di rispetto verso chi fino ad allora non era praticamente esistito. Con questo superando le logiche stesse di far politica dei partiti della sinistra latinoamericana, abbandonati al proprio destino dopo la fine della Guerra fredda e il tentativo degli Stati Uniti di affermare, nel continente, le ricette dell’economia neoliberale più estrema.

Il Brasile, che elegge, tre anni fa, Lula, operaio metallurgico, alla presidenza del paese, è il segno della vittoria di una società civile, fino a pochi anni fa sfiduciata, narcotizzata dal potere, confluita invece ora in un progetto, il PT (partido dos trabalhadores), nato vent’anni prima come movimento sindacale autonomo, proprio dalle macerie dei partiti della sinistra tradizionale.

Non è un caso che quel partito-antipartito, pur con tutte le sue contraddizioni, sia stata la fucina del Forum Social Mundial di Porto Alegre, vero laboratorio politico dell’universo degli esclusi di tutto il mondo, ma in particolare dell’America latina alla ricerca della propria identità e del proprio rinascimento, dove certamente ha preso corpo, fra i tanti aneliti, l’idea dell’ineluttabilità del riscatto delle popolazioni indigene.

Questo riscatto in Bolivia ha visto gli indigeni Aymara contrastare, lottare, pagare un prezzo di vite umane, ma arrivare ad espellere dal paese due presidenti corrotti in due anni (Sanchez de Lozada e Mesa) che volevano privatizzare l’acqua e svendere il gas naturale del quale è ricca quella terra, a vantaggio del solito cartello di multinazionali del petrolio. Lo stesso riscatto ha animato la rivolta degli indigeni Quechua in Ecuador contro il colonnello Gutierrez (eletto anche dagli indigeni, ma che, in pochi mesi aveva tradito e stava svendendo il paese alle multinazionali degli Stati Uniti). Una pagina che ha segnato un momento fondamentale nel futuro di tutto il movimento indigeno del continente, dal Perù allo stesso Brasile, dove le popolazioni amazzoniche da tempo lottano contro la deforestazione e le colture transgeniche, purtroppo recentemente accettate dal governo Lula. Fortissimo si leva ora anche il grido degli indigeni colombiani, specie del popolo U’wa, contro le violenze rappresentate dagli oleodotti e dai gasdotti che stanno disintegrando l’ecosistema di un paese già ferito dal narcotraffico, dalla guerriglia, ma innanzi tutto da un esecutivo, quello di Alvaro Uribe, che governa sotto braccio agli squadroni della morte. E poi il Perù di Toledo, che ha tradito le sue stesse origini e che sta per riconsegnare il paese ai seguaci del dittatore Fujimori. In un certo qual modo anche la democrazia bolivariana di Hugo Chavez in Venezuela è l’affermazione di un movimento che ha saputo dare una coscienza e risvegliare le speranze del popolo dei ranchitos, il popolo indigeno degli esclusi, degli “invisibili” delle case di fango, cinque milioni di persone che non erano iscritte nemmeno all’anagrafe.

Un quadro complesso, che l’Europa, che fino a ieri si guardava l’ombelico soddisfatta, non ha capito, salvo la Spagna, e non riesce a interpretare nemmeno quando questo esercizio viene tentato dalle forze in teoria progressiste.

 

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