11424 EUROCRCK, Europa/Italia al bivio..

20141110 12:42:00 guglielmoz

1 – Catastrofe vicina, Europa al bivio / EUROCRACK . Ultimi dati Ocse: l’austerity ha tragicamente fallito. Bce e Commissione lo ammettono. Ma ora la crisi rischia di essere irreversibile e allo stato non esiste leadership europea che sia capace di invertire la rotta.
2 – Europa – Il “passo in più” di Draghi. 
3 – i conti non tornano L’Italia è divisa. A spaccarla non in due, ma in mille pezzi, non è il sindacato, come vorrebbe farci credere il Presidente del Consiglio
4 – Europa Una manovra restrittiva e senza coperture Legge di stabilità. Mancano idee innovative e una strategia. Se dovessero scattare le clausole di salvaguardia, gli effetti sarebbero letali
5 – Europa – I tagli lineari alla Monti della spending review Austerità. La revisione della spesa pubblica colpisce soprattutto la sanità e i trasporti pubblici locali. La fine del federalismo
6 – Europa / Si scrive Renzi, si legge Tremonti / Pare che, appena dopo la fine della Comune di Parigi, il deputato socialdemocratico tedesco August Bebel — intervenendo al Reichstag e ricevendo un inaspettato applauso dai prussiani revanscisti — scrivesse, assai scosso, a Karl Marx: «Ho parlato al Reichstag e i prussiani e i borghesi mi hanno applaudito. Ma cosa ho detto di sbagliato?»
7 – Europa Politica industriale, la grande assente / Governo. Nessun investimento pubblico per investire nel settore e affrontare le questioni occupazionali. L’unico obiettivo sono le privatizzazioni
8 – Europa / L’unica speranza è svendersi ad arabi e cinesi Scenari. Sofferenze bancarie al 9%, crediti bloccati per famiglie e imprese, economia in panne E Renzi punta agli investimenti esteri
9 – Europa / Sotto gli 80 euro e il taglio dell’Irap, la confusione fiscale
Aumenti dell’Iva per 17 miliardi, incertezza sugli introiti da evasione fiscale, Tfr tassato Un’analisi a tutto campo della Legge di stabilità
10 – I limiti della proprietà La rilettura. Dalla lettera enciclica Populorum progressio di Paolo VI.

1 – CATASTROFE VICINA, EUROPA AL BIVIO
EUROCRACK . Ultimi dati Ocse: l’austerity ha tragicamente fallito. Bce e Commissione lo ammettono. Ma ora la crisi rischia di essere irreversibile e allo stato non esiste leadership europea che sia capace di invertire la rotta ( di Roberto Romano, Paolo Pini, 6.11.2014)
L’EUROPA attraversa una crisi di identità senza precedenti. La Bce è pronta ad adot­tare misure non convenzionali, dando mandato allo staff della stessa di preparare ulteriori misure se necessarie.
LA NOVITÀ È L’UNANIMITÀ DELLA DECISIONE. DECISIONE IMPROVVISA?
Al netto delle discussioni mezzo stampa sul conflitto tra Germania e Mario Draghi, la situazione economica è peggiorata a tal punto che serve qualcosa di più dei bassi tassi e delle agevolazioni per il credito alle imprese. Se non cresce la domanda è difficile immaginare una inversione di tendenza degli investimenti privati.
Nel frattempo sono arrivate anche le previsioni economiche della Commissione Europea. Sono lo specchio fedele del fallimento delle politiche fino a oggi realizzate, e manifestano la difficoltà di intraprendere scelte capaci di portare fuori dalla crisi l’Europa. Se anche Jyrki Katai­nen sostiene che «la situa­zione eco­no­mica e dell’occupazione non sta miglio­rando con sufficiente rapidità. La Commissione europea si impegna ad avvalersi di tutti gli strumenti e le risorse disponibili per aumentare la crescita e l’occupazione in Europa. Proporremo un piano di investimenti di 300miliardi di euro per rilanciare e sostenere la ripresa economica», qualcosa nella Commissione comincia a muoversi.
LO SHOCK CICLICO del Pil intervenuto dal 2008 per quasi tutti i paesi euro ha prodotto danni persistenti nel sistema economico. Non solo le imprese tengono a contrarre gli investimenti mentre l’occupazione perde competenze con effetti cumulativi, ma la persistenza del processo «CICLICO» negativo intacca le capacità produttive del sistema economico nel suo insieme.
In altri termini la crisi ha eroso la crescita futura dell’Europa, mentre il modello di equilibrio utilizzato dalla Commissione Europea avvicina sempre di più la crescita potenziale e quella reale. Nei fatti cresce la disoccupazione strutturale, cioè quella sulla soglia della crescita dell’inflazione, mentre la crescita del Pil potenziale, cioè sostenibile senza spinte inflattive, restando al solo caso dell’Italia, diventa addirittura negativa.
Questo è anche l’esito dell’errato modello utilizzato da Bruxelles e applicato testardamente per disegnare politiche economiche pro cicliche: recessive quando il Pil cala, espansive quando il Pil cresce.
Esattamente il contrario di quello che servirebbe.
L’Europa si trova così davanti a un bivio. Un bivio che può essere rappresentato da un prima della crisi (2001–2007) e un dopo la crisi (2008–2014). Nei 7 anni pre crisi la crescita del Pil ha registrato un valore cumulato prossimo al 14% per i paesi di area euro, che diventa negativo (-0,4%) nei 7 anni successivi.
Sono in particolare i paesi che hanno adottato pedissequamente le politiche europee a manifestare la maggiore differenza e sofferenza.
L’ITALIA PASSA DA UNA CRESCITA CUMULATA DEL 9% TRA IL 2001 E IL 2007, AD UNA CRESCITA NEGATIVA DEL 9% TRA IL 2008 E IL 2014.
Proprio ieri l’Ocse ha previsto una crescita dello 0,2% per il 2015, penultima tra i Paesi G20. Valori migliori registra la Francia: rispettivamente +12,7% e +1%, ma la crescita del Pil potenziale si riduce a decimali. Persino la Germania passa da una crescita del 10% a un «modesto» +5,7%.
Inevitabilmente gli investimenti fissi seguono il ciclo economico, anzi contribuiscono a peggiorarlo. Se nel periodo tra il 2001 e il 2007 gli investimenti crescono del 17% per l’area euro, a partire dal 2008 registrano una contrazione del 20,6%. L’Italia è il paese che ha la maggiore divaricazione. Tra il 2001 e il 2007 questi crescono del 15%, ma durante la crisi crollano del 35%. La Francia fa solo un po’ meglio: dal +20% al –15.
La caduta del Pil potenziale e di quello effettivo, soprat­tutto per responsabilità delle politiche di austerità adottate come conseguenza del modello economico di riferimento dell’Ue, ha fatto crescere il rapporto debito/Pil nonostante la contrazione della spesa pubblica, la deregolamentazione del lavoro e la liberalizzazione di beni e servizi. Anzi, meglio sarebbe dire, a causa dell’ottusità di queste politiche.
Se nel periodo pre-crisi la crescita del Pil ha permesso di ridurre il rapporto debito/Pil, con il 2008 questo è cresciuto inesorabilmente e inevitabilmente.
Anche in Germania, benché abbia beneficiato di fattori eccezionali: il valore implicito più basso dell’euromarco (40%) e politiche coerenti con il rafforzamento dell’export. Potremmo anche considerare la quota di debito pubblico «grigio» presso le loro casse deposito e presiti, ma il senso non cambia.
Quindi oggi le politiche economiche europee attraversano una fase persino molto più grave per credibilità di quella che sino a ieri le caratterizzavano. Le previsioni autunnali della Commissione sono, in qualche misura, lo specchio fedele della «incredulità» di quello che accade. Incredulità che diventa patetica se prendiamo le proiezioni di crescita per il 2015. Se dovessimo utilizzare la distanza tra le previsioni iniziali e il consuntivo degli anni passati, per l’Europa possiamo attenderci una crescita negativa tra il –1 ed il –1,5% per il 2015, mentre per l’Italia possiamo stimare una contrazione non inferiore al 2%.
È una ipotesi inaccettabile anche per i custodi dell’ortodossia. Le politiche monetarie non funzionano perché non arrivano là dove sarebbero più utili, nel mentre si riduce la domanda di credito in ragione delle prospettive per il futuro.
Qualcosa accadrà perché l’Europa non può consumare un ennesimo anno come o peggio di quello appena trascorso.
Peccato che abbiamo una direzione politica incapace di riprogettare una Europa che esca dalla depressione e all’altezza della sfida che l’attende.

2 – EUROPA – IL “PASSO IN PIÙ” di Draghi. 
Mario Draghi FA “UN PASSO IN PIÙ” VERSO NUOVE MISURE DELLA BCE PER RIANIMARE L’ECONOMIA, L’OCSE CHIEDE APERTAMENTE ALL’EUROTOWER DI ATTUARE UN QUANTITATIVE EASING MONETARIO, L’FMI FA AUTOCRITICA PER AVER DIFESO LA RIDUZIONE DEI DEFICIT IN MODO “PREMATURO” DAL 2010, SOLO DUE ANNI DOPO IL FALLIMENTO DI LEHMAN BROTHERS, CHE HA DATO IL VIA ALLA GRANDE CRISI, CHE DAL MONDO INDUSTRIALIZZATO HA ORMAI CONTAGIATO ANCHE GLI EMERGENTI. ( di Anna Maria Merlo, PARIGI, 6.11.2014)
Due giorni dopo le nere previsioni d’autunno della Commissione, che ha rivisto al ribasso le prospettive di crescita dei paesi Ue e della zona euro in particolare, il presidente della Bce ha dichiarato ieri che il board è stato “unanime” sulla possibilità di attivare “strumenti non convenzio­nali se permane la bassa inflazione”. Draghi ha forzato la mano alla “fronda” dei fautori dell’ortodossia monetaria, coagulata da Jens Weid­mann della Bundesbank (da 7 a 10 membri del consiglio della Bce su 24)? Il presidente ha sottolineato che “non c’è una linea di demarcazione delimitata tra nord e sud” nella Bce, per smentire le voci sui forti dissensi interni, anche se ha ammesso “divergenze”, una “cosa normale”, come succede alla Fed, in Gran Bretagna o in Giappone. Draghi ha ripetuto l’affermazione che, nella conferenza stampa del 4 settembre scorso, aveva fatto saltare sulla sedia gli “ortodossi”: il bilancio della Bce continuerà ad ampliarsi fino ai livelli dell’inizio del 2012 (quando aveva toc­cato i 3,02 triliardi di euro). Cioè, la Bce – ma solo “se necessario” – immetterà mille miliardi sul mercato, con acquisti di obbligazioni garantite dall’emittente, con le cartolarizzazioni Abs e altra liquidità con i Tltro. I tassi di interesse restano al minimo storico, lo 0,05%. Queste informazioni sono state accolte con sollievo dai mercati e l’euro sul dollaro è al livello più basso dal 2008.
La Bce aspetterà per mettere in opera la politica dovish, accomodante, se constaterà che le misure in atto finora non si riveleranno efficaci. Ma tutto dice che rianimare l’economia della zona euro non sarà compito facile. Le previsioni d’autunno della Commissione, con prospettive riviste al ribasso rispetto al maggio scorso anche per la Germania, aveva già gettato il gelo all’inizio della settimana. Per la Commissione l’economia della zona euro resterà in crisi nel 2015, anche se dovrebbe evitare di cadere in deflazione. Quest’anno, il pil a 28 salirà dell’1,3% e solo dello 0,8% per la zona euro. Piccolo fremito nel 2015, con rispettivamente +1,5% per i 28 e +1,1% per i 18 della moneta unica. “La fiducia è inferiore rispetto alla scorsa primavera”, ha spiegato la Commissione, che pero’ attribuisce la colpa agli altri, soprattutto al rallentamento delle economie emergenti. Bruxelles non rimette in causa l’austerità. Anzi. I paesi che pensano di potersi emancipare un po’ dal corsetto dei parametri, sono stati richiamati all’ordine dalla Germania. Parigi e Roma hanno difatti ricevuto indiretta­mente una lettera da Berlino — spedita al nuovo commissario agli affari monetari Pierre Moscovici, a Pier Carlo Padoan per la presidenza semestrale italiana, a Jyrki Katainen e a Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo — che chiede a Bruxelles di rafforzare i controlli sugli stati che non rispettano le regole. La lettera, spedita il 20 ottobre, è firmata da Wolfgang Schäuble, ministro tedesco delle finanze, e anche dal social democratico Sigmar Gabriel, responsabile dell’economia nel governo Merkel.
La Germania rallenta, l’Italia affoga e la Francia è considerata l’ “uomo malato” d’Europa, mentre la nuova Commissione si congratula per i miglioramenti in Grecia e in Spagna, paesi annientati dall’austerità, dove la disoccupazione imperversa. Hollande è arrivato ieri a metà mandato. E’ andato in tv per cercare di spiegare come mai, malgrado i 41 miliardi di sgravi concessi alle imprese, ci sono 500mila disoccupati in più da quando è entrato all’Eliseo (ormai 3,5 milioni, cifra che supera i 5 se si considerano coloro che hanno lavorato qualche ora) e i deficit sforeranno alla grande i parametri (4,5% nel 2015, 4,7% nel 2016). La Francia è in ebollizione, con varie categorie professionali scatenate contro qualsiasi tentativo di riforma. Gli ultimi a manifestare sono stati gli agricoltori, mercoledì. Non vogliono sentir parlare di misure di limitazione nell’uso dei nitrati in zone “vulnerabili” (Bruxelles ha di nuovo punito la Francia per non rispetto della direttiva del 1991), hanno già ottenuto l’abolizione dell’ecotassa (sul trasporto via camion) e il versamento anticipato delle sovvenzioni della Pac. Ma la rabbia non cala: tonnellate di letame riversate di fronte alle Prefetture, assalti violenti ad edifici pubblici e all’arredo urbano, a Nantes persino maltrattamenti contro le nutrie “nocive, come la ministra Ségolène Royal e gli ecologisti”, la giornata di mercoledì è stata di fuoco.

3 – I CONTI NON TORNANO – L’ITALIA È DIVISA. A SPACCARLA NON IN DUE, MA IN MILLE PEZZI, NON È IL SINDACATO, COME VORREBBE FARCI CREDERE IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO. Non sono neanche solo gli effetti della crisi ini­ziata sette anni fa, ma decenni di politiche sbagliate che la proposta di Legge di stabilità 2015 presentata dal governo si guarda bene dal modi­fi­care. ( di Grazia Naletto, 6.11.2014)
Quelle che a Bagnoli nel 2003, undici anni fa e ben prima dell’inizio della crisi, Sbilanciamoci! già contestava sollecitando un’inversione di rotta. A nulla vale che i principali indicatori economici segnalino in modo evidente il fallimento delle risposte neoliberiste offerte alla crisi: il Pil stimato allo –0,2% nel 2014, il debito al 136,4%, la disoccupazione al 12,6% a settem­bre 2015, quella giovanile al 42,9%.
Innanzitutto, manca una visione strategica pubblica del modello economico e industriale italiano. Come allora, la parola d’ordine del governo è quella di intervenire il meno possibile in campo economico, proseguendo nel programma di privatizzazioni, favorendo l’abbassamento del costo e dei diritti sul lavoro e continuando a fare regali fiscali alle imprese.
Uno dei dogmi indiscutibili è (ancora) “Tagliare le tasse”: uno slogan indubbiamente popolare. Ma ci si dimentica di spiegare che esso comporta anche il taglio di servizi fondamentali per i cittadini e che i 4,2 miliardi di trasferimenti in meno agli enti locali provocheranno l’aumento delle tasse locali.
TERZO. Il cambio di verso delle politiche di austerità è vero e falso nello stesso tempo. È vero perché il governo ha scelto di portare le previsioni di deficit per il 2014 al 3% e per il 2015 al 2,6. È falso perché non implica una reale inversione di rotta, prevedendo come propone Sbilanciamoci!, con una campagna appena avviata insieme ad altri, l’abolizione dell’obbligo di pareggio di bilancio previsto in Costituzione. Semplicemente, il governo rinvia il raggiungimento del pareggio di bilancio al 2017 non potendo fare altrimenti.
QUARTO. Nella Legge di stabilità non c’è traccia di interventi seri per ridurre la forbice delle diseguaglianze. Gli 80 euro in busta paga escludono pensionati e disoccupati, mentre gli stanziamenti per i fondi sociali sono del tutto inadeguati.
SI PROSEGUE CON LA POLITICA DELLA BENEFICENZA (bonus bebè, carta acquisti ordinaria e sperimentale), rinunciando anche quest’anno all’introduzione di uno strumento universalistico di sostegno al reddito. La copertura delle 150 mila assunzioni annunciate nelle Linee guida de “La buona scuola” è tutt’altro che sicura, mancano risorse per il funzionamento ordinario delle scuole, ma 471,9 milioni di euro sono previsti per finanziare le scuole private.
QUINTO. Per le imprese che investono in ricerca e sviluppo il governo mette a disposizione la cifra di 300 milioni. Per gli interventi contro il dissesto idro­geologico, nonostante gli annunci seguiti al disastro di Genova, sono previsti 190 milioni di euro aggiuntivi sul 2015 (il 9,7% di quei due miliardi l’anno che servirebbero se davvero si volesse affrontare il problema). Si prosegue invece con gli investimenti nelle grandi opere (più di 3,2 miliardi), che hanno costi e tempi incerti e insostenibili dal punto di vista economico-finanziario, sociale e ambientale.
SESTO. Si dimentica che la crisi economico-finanziaria non è stata provocata dalla mala gestione della finanza pubblica, ma dalle cattive speculazioni della finanza privata: nessuna traccia di quell’estensione della tassa sulle transazioni finanziarie ad azioni, obbligazioni e derivati che contribuirebbe a ridurre le speculazioni finanziarie.

4 – EUROPA UNA MANOVRA RESTRITTIVA E SENZA COPERTURE LEGGE DI STABILITÀ. MANCANO IDEE INNOVATIVE E UNA STRATEGIA. SE DOVESSERO SCATTARE LE CLAUSOLE DI SALVAGUARDIA, GLI EFFETTI SAREBBERO LETALI http://ilmanifesto.info/wordpress/wp-content/uploads/2014/11/06/valigia01.jpg
I MESI SCORSI CI HANNO ABITUATI A QUELLA CHE SEMBRA UNA CARATTERISTICA DI QUESTO GOVERNO: UN USO SPREGIUDICATO E SPACCONE DELLA COMUNICAZIONE, ANCHE A COSTO DI ACCENTUARE LA DISTANZA FRA RAPPRESENTAZIONE E REALTÀ, E L’INDIVIDUAZIONE DI CONTROPARTI (IL NEMICO) SU CUI SCARICARE LE COLPE DI RITARDI E INSUCCESSI. ( di Angelo Marano, 6.11.2014)
La manovra di bilancio è in tal senso emblematica: viene rappresentata come espansiva e di rottura, ma è in realtà di portata limitata e formalmente restrittiva. Quanto alle responsabilità, esse vengono scaricate sull’Europa, troppo rigida nell’applicazione delle regole, e sulle regioni, che hanno ventilato aumenti delle imposte locali per compensare i tagli. Dopo il timido rinvio, nel Def presentato lo scorso aprile, del pareggio di bilancio dal 2015 al 2016, l’aggiornamento del Def è apparentemente più aggressivo: prevede il congelamento, di fatto, del fiscal compact, rinvia ulteriormente il pareggio al 2017 e fissa il deficit programmatico al 3% nel 2014 e al 2,9% nel 2015. Addirittura, viene indicato un deficit tendenziale 2015 in forte calo (2,2%), col governo, però, che intenderebbe portarlo al 2,9%, utilizzando la differenza (11,5 miliardi) per rilanciare l’economia. Ma lo sforzo espansivo andrebbe anche oltre. Nella presentazione del Ddl di stabilità la manovra esplode a 36 miliardi: si aggiungono, fra l’altro, 15 miliardi di riduzione di spesa pubblica, 3,8 di lotta all’evasione fiscale, 3,6 di aumento della tassazione sulle rendite. Una massa così ingente di risorse (il 2,2% del Pil) verrebbe impiegata per rendere permanenti gli 80 euro al mese in busta paga per i dipendenti (senza però l’estensione ad altre categorie), per eliminare il costo del lavoro dall’imponibile Irap, per altri sgravi fiscali, fra cui la decontribuzione per i nuovi assunti, per ammortizzatori sociali e un piano straordinario di assunzioni nella scuola. Anche lo sforzo aggiuntivo richiesto dalla Ue, ulteriori 4,5 miliardi di riduzione del deficit, viene stigmatizzato ma presentato come non in grado di alterare la natura espansiva dell’impostazione di bilancio.
LO STUDIO DELLA MANOVRA FA EMERGERE, TUTTAVIA, ALCUNE RILEVANTI PERPLESSITÀ. INNANZITUTTO, LA MANOVRA È DI SEGNO RESTRITTIVO, NON ESPANSIVO, E LE SUE DIMENSIONI SONO BEN PIÙ RIDOTTE DI QUANTO DICHIARATO.
Il deficit passerà dal 3% nel 2014 al 2,6% nel 2015, il ché configura una manovra di bilancio, pur moderatamente, restrittiva; non a caso il governo non ne ha ipotizzato un significativo effetto sul Pil. Vero che l’aggiornamento del Def indica un deficit tendenziale 2015 in calo al 2,2%, ma non considera poste di bilancio che sono rifinanziate annualmente e non possono essere azzerate, quantificate dallo stesso Ddl in almeno 6,9 miliardi. Se poi andiamo a spulciare la manovra, la dimensione degli interventi netti si riduce drasticamente: vanno tolti i 6,9 miliardi di cui sopra, i 4,5 destinati a ulteriore riduzione del deficit, i 3 che servono a compensare mancati risparmi, altri 3 già a suo tempo stanziati per il bonus 80 euro e i 2,1 già previsti per la riduzione dell’Irap. Così la manovra si riduce dal lato degli interventi a 6,5 miliardi di maggiore spesa per la conferma degli 80 euro, 4,5 miliardi di spesa aggiuntiva per l’eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile Irap e la decontribuzione sui nuovi assunti, 1,5 miliardi di ammortizzatori sociali (com­preso la cassa in deroga) e poco altro.
La manovra, poi, preoccupa dal punto di vista delle coperture previste, fondamentalmente di due tipi: almeno 12 miliardi di ulteriori tagli alle spese, aggiuntivi rispetto a quelli già previsti dalla normativa, e almeno 4,5 miliardi di recupero aggiuntivo di imposte evase. Si tratta di somme ingenti e tutt’altro che sicure, soprattutto se si pensa che nello stesso Ddl di stabilità si sono dovuti accantonare 3 miliardi per il mancato conseguimento di previsti risparmi. Vengono poi scontate in bilancio privatizzazioni per 11,5 miliardi (0,7% del Pil), altro obiettivo, anche prescindendo da considerazioni di opportunità, di difficile realizzazione, stante che nel 2014 non arriveranno allo 0,3% del Pil. Inoltre, laddove nel 2014 il bilancio aveva potuto godere del bonus derivante dalla riduzione degli interessi sul debito pubblico, gli interessi previsti nel 2015 sono già bassi, mentre lo 0,6% previsto di crescita del Pil è, secondo alcuni, ancora troppo ottimistico. Così, se già il 2014 fotografa una situazione nella quale si è fatto fatica a tenere sotto controllo i conti (col deficit arrivato al 3%), il 2015 potrebbe rivelarsi ancora più problematico: troppo aleatorie le coperture, troppo ristretti i margini sul deficit e sulle singole componenti di spesa. Se poi nel 2016 dovessero scattare le clausole di salvaguardia (13–17 miliardi di aumenti Iva) gli effetti sul paese sarebbero letali.
L’intenzione di perseguire una politica di bilancio meno restrittiva, pur a livello di petizione di principio, sarebbe di per sé elemento positivo. Molti economisti a sinistra hanno evidenziato da tempo l’inconsistenza teorica e la pericolosità dell’approccio strutturalmente restrittivo alla politica fiscale dominante nella Ue. Ben farebbe l’Italia a contestare le regole europee ed operare per una loro radicale riforma. Tuttavia, il governo non si spinge fino a questo punto, preferendo rispettare il vincolo del 3% sul deficit e solo argomentare sulle circostanze eccezionali che, come da trattati, giustificherebbero il mancato rispetto della regola sul debito e del pareggio di bilancio. Anche il tipo di interventi di politica economica ventilati colpisce più per la continuità col passato che per il carattere innovativo: si continua a puntare principalmente su cuneo fiscale e costo del lavoro. Da questo punto di vista mancano nel Ddl di stabilità idee innovative, una politica industriale, la definizione di una strategia organica di rilancio. Stante il fallimento delle politiche passate, il rischio è che, per l’ennesima volta, l’Italia bruci risorse per ritrovarsi, alla fine, con un debito ancora più alto e un pugno di mosche in mano.

5 – EUROPA – I TAGLI LINEARI ALLA MONTI DELLA SPENDING REVIEW AUSTERITÀ. LA REVISIONE DELLA SPESA PUBBLICA COLPISCE SOPRATTUTTO LA SANITÀ E I TRASPORTI PUBBLICI LOCALI. LA FINE DEL FEDERALISMO
http://ilmanifesto.info/wordpress/wp-content/uploads/2014/11/06/valigia09.jpg ( di Leopoldo Nascia, 6.11.2014) Con la spending review i famigerati tagli lineari alla Tremonti, messi in soffitta dal governo Monti, tornano camuffati, scendendo solo nel dettaglio rispetto allo stile tremontiano per rita­gliare linearmente i singoli capitoli di spesa.
Lo stesso impianto della spending review non convince sul piano metodologico né si capisce come vengono stimati i risparmi effettivi, né si comprende quali siano gli strumenti poiché il suo vero fine è individuare i bersagli da mettere sotto il tiro della politica dei tagli alla spesa stabilita da Bruxelles ed eseguita dal governo Renzi con la legge di stabilità.
L’approccio generale non cerca la spesa inefficiente ma quella indesiderabile da un punto di vista politico, colpendo indiscriminatamente tutti gli ambiti del pubblico fino ad ipotizzare 34 miliardi di risparmi nel 2018 al lordo degli effetti sulle entrate. Proprio il termine lordo è quello che manca nel lavoro di revisione della spesa pubblica perchè non specifica spesso cosa accade a seguito di una riduzione di budget per un ente locale, per un ministero o per qualsiasi altro soggetto pubblico.
La spending review diventa lo strumento per colpire proprio i servizi pubblici tradizionalmente utilizzati da lavoratori e pensionati, come il trasporto pubblico locale e la sanità pubblica, si chiedono sforzi alle pensioni, mentre la legge di stabilità insiste nei premi fiscali a imprese come l’Irap. Manca totalmente una quantificazione degli oneri delle politiche dei grandi eventi, da ultima l’Expo di Milano, alle quali acriticamente ogni governo dona ingenti risorse dei contribuenti.
Invece le pensioni, citate spesso nel lavoro di Cottarelli, debbono contribuire ai tagli di spesa con misure di facciata senza mai pensare a norme di carattere generale come il divieto di cumulo con altri redditi da attività lavorativa o d’impresa, almeno per le pensioni più corpose con un maggior beneficio per i giovani che potrebbero disporre di maggiore lavoro. Si pensi al privilegio per alcuni pensionati che riescono a cumulare anche la fiscalità di contribuente minimo Iva, 5 per cento di imposta e rendita fondiaria tassata al 20 per cento.
Quasi a sorpresa il settore difesa, passato pressoché indenne tra i tagli delle ultime finanziarie, questa volta si trova in prima fila per sostenere una riduzione di circa 2 miliardi di budget nel 2016, ma poi sia la legge di stabilità sia la rigorosa spending review dimenticano lo spreco di denaro per gli F35, rilanciano investimenti per la difesa, senza imporre un controllo trasparente e severo, come avviene in altri paesi, al pari del trattamento riservato ad altri settori.
Ad esempio, il trasporto pubblico locale mostra il vero volto della spending review: meno contributi per i servizi pubblici compensati da un aumento delle tariffe. Il cambiamento consiste nell’erogare servizi pubblici a un prezzo calmierato bensì a prezzi pieni: pendolari e studenti dovranno pagare treni e gli autobus con biglietti più cari perché la fiscalità generale non deve contribuire più al diritto alla mobilità. Chi dispone di maggior reddito viene premiato, o lo dovrebbe essere, con minori imposte, mentre chi è meno abbiente, forse in cambio di un piccolo sconto sull’Irpef, disporrà di un minore accesso ai servizi pubblici. I servizi pubblici locali sono forse le vere ‘vittime’, non tanto per i sacrifici delle amministrazioni locali, spesso accusate di cattiva amministrazione ma per quelli richiesti velatamente ai cittadini che si trovano a sostenere il carico dei tagli.
Alla crisi delle acciaierie di Terni, che pesano per il 20 percento del Pil dell’Umbria, la risposta del governo diventa una cura a base di tagli (4,2 miliardi annui per le regioni a statuto ordinario e 548 milioni per quelle a statuto speciale) e manganelli e non un certo un contributo al rilancio dell’economia locale, con la speranza che i tanti disperati dalla chiusura degli stabilimenti diventino capitani d’industria.
Il commissariamento delle regioni, preannunciato nella spending review e inserito nella legge di stabilità, dovrebbe far riflettere invece sulla retorica federalista in cui la politica ha navigato da oltre vent’anni, rivedendo le competenze locali e il ruolo dello stato nazionale. Invece di ipotizzare costi standard, spesso fantasiosi, potrebbe costare assai meno e potrebbe essere molto più proficuo dal punto di vista dell’equità ripensare alcuni servizi pubblici locali in chiave nazionale, lasciando meno deleghe alle autonomie locali man con maggiore autonomia effettiva.
Infine, mancano tante analisi ancora nella spending review: politiche dei grandi eventi, costi effettivi delle grandi opere e una valutazione dei vantaggi presunti delle esternalizzazioni che stanno svuotando il settore pubblico della capacità di agire, a vantaggio di un approccio ideologico che vede nel privato la medicina, adeguata solo nei manuali di economia, ma non ancora provata in termini contabili.

6 – EUROPA / SI SCRIVE RENZI, SI LEGGE TREMONTI / PARE CHE, APPENA DOPO LA FINE DELLA COMUNE DI PARIGI, IL DEPUTATO SOCIALDEMOCRATICO TEDESCO AUGUST BEBEL — INTERVENENDO AL REICHSTAG E RICEVENDO UN INASPETTATO APPLAUSO DAI PRUSSIANI REVANSCISTI — SCRIVESSE, ASSAI SCOSSO, A KARL MARX: «HO PARLATO AL REICHSTAG E I PRUSSIANI E I BORGHESI MI HANNO APPLAUDITO. MA COSA HO DETTO DI SBAGLIATO?» ( di Giulio Marcon, 6.11.2014)
Nessun dubbio invece deve avere colto Matteo Renzi, quando — all’indomani della pubblicazione della legge di stabilità — ha ricevuto il plauso di Berlusconi con la rivendicazione: «Il premier copia le nostre ricette». Non sembra che Renzi ne sia stato scosso; o magari ne ha scritto a Davide Serra, ma per farsi complimentare.
E INFATTI L’ASSUNTO DI RENZI, «PER LA PRIMA VOLTA UNA LEGGE DI STABILITÀ CHE TAGLIA LE TASSE», SEMBRA REALIZZARE IL SOGNO DI TREMONTI DI DIECI ANNI FA E DEGLI ANNI ’90 ALL’INSEGNA DELLO SLOGAN «MENO TASSE PER TUTTI». Ma quella di Renzi è — insieme al Def — una legge di stabilità tremontiana, anche perché contiene tutti gli altri pilastri del pensiero liberista: taglia la spesa pubblica (40 miliardi di euro nei prossimi tre anni) e si fa accompagnare da un Def che prevede la precarizzazione del mercato del lavoro, la riduzione degli investimenti pubblici e una dose massiccia di privatizzazioni (80 miliardi in cinque anni) con la svendita del patrimonio pubblico.
Tra l’altro il taglio delle tasse di Renzi non è «per tutti» e sicuramente non lo è per chi sta più in difficoltà. L’Istat ha ricordato che il bonus Irpef degli 80 euro (per almeno i 2/3) va ad individui che appartengono a famiglie dai redditi medio-alti ed è noto che precari, incapienti e pensionati al minimo non ricevono nulla. Mentre ricevono molto le imprese con i 6 miliardi di sgravi per l’Irap. Inoltre — altro che tagli — molti pagheranno più tasse: sicuramente i cittadini che si vedranno aumentare le tariffe dei servizi pubblici dalle regioni costrette ai rincari fiscali dai tagli del governo. E chi è stato costretto o invitato a farsi la pensione integrativa vedrà raddoppiare l’imposizione fiscale. Idem per chi vorrebbe prendersi il Tfr in busta paga.
Ma quello che è più grave è la completa sudditanza del centro sinistra — in questa legge di stabilità — alle ricette del pensiero neoliberista: più sgravi fiscali e meno investimenti pubblici; più tagli alla spesa pubblica e meno politiche per il sostegno alla domanda. Renzi realizza il sogno di Tremonti e di Berlusconi. Gli sgravi alle imprese (come i contratti di lavoro precario) non hanno mai creato più posti di lavoro, ma solo vantaggi e maggiori margini di profitto subito incamerati da chi pensa solo alla rendita e alla speculazione. E i modesti tagli fiscali (da un impatto redistributivo così inesistente) non alleviano la povertà (e ancora l’Istat ci dice che il bonus Irpef ha beneficiato solo il 4% dei poveri italiani) e non hanno alcun effetto sulla domanda interna. È la stessa nota di variazione del Def ad ammetterlo: il decreto sugli 80 euro, se tutto va bene, avrà nel 2015 un impatto dello 0,1% sulla cre­scita. Non migliore impatto sul Pil sembrano avere gli altri provvedimenti cosiddetti «strutturali», dal Jobs Act alle rifome istituzionali. PRATICAMENTE, ZERO.
La legge di stabilità ha dunque un’impostazione liberista e recessiva, non fa ripartire la domanda, è pesantemente sbilanciata sugli interessi (e non sul rilancio) delle imprese (e Confindustria anch’essa applaude), riduce gli stanziamenti per gli ammortizzatori sociali, non si occupa di lavoro se non per precarizzarlo ed umiliarlo e rilancia il welfare compassionevole: siamo ancora (come ai tempi di Berlusconi) ai bonus bebè e alla social card. Per parafrasare Von Clausewitz verrebbe da dire che la legge di stabilità di Renzi è la continuazione della legge finanziaria di Berlusconi con altri mezzi. Quelli di un populismo falsamente nuovista e postmoderno, che propina –in salsa 2.0– le antichissime ricette della destra.

7 – EUROPA POLITICA INDUSTRIALE, LA GRANDE ASSENTE / GOVERNO. NESSUN INVESTIMENTO PUBBLICO PER INVESTIRE NEL SETTORE E AFFRONTARE LE QUESTIONI OCCUPAZIONALI. L’UNICO OBIETTIVO SONO LE PRIVATIZZAZIONI http://ilmanifesto.info/wordpress/wp-content/uploads/2014/11/06/valigia12.jpg ( di Claudio Gnesutta, 6.11.2014)
Al di là della valutazione di quanto espansiva risulterà, la Legge di stabilità 2015 in approvazione al Parlamento ha un buco evidente. In essa non vi è alcun segnale di un utilizzo degli investimenti pubblici che segnali l’esistenza di una visione strategia del governo Renzi sulla direzione da dare al nostro assetto produttivo in grave crisi.
È un segnale che indica come, neanche come il solito annuncio – siamo ormai lontani dalle prime versioni del Jobs Act con l’indicazione dei settori strategici da attivare con specifici piani industriali, – il governo Renzi si senta di precisare le linee di una politica industriale e dell’innovazione capace nel concreto, anche se in una prospettiva non breve, di contrastare le drammatiche condizioni e tendenze strutturali della produzione e dell’occupazione. Il governo è solo in grado di chiedere la fiducia su una legge finanziaria che mira di districarsi, in un’operazione che si rivelerà di piccolo cabotaggio, tra la soggezione ai vincoli europei e la necessità di catturare il consenso dell’elettorato e in particolare degli imprenditori. Se la memoria non farà difetto come al solito, si vedrà fra non molto come l’alleggerimento del costo del lavoro per le imprese non creerà quei maggior posti di lavoro che, con il medesimo sforzo finanziario, avrebbero potuto essere direttamente attivati con il finanziamento di un piano del lavoro finalizzato al rafforzamento del capitale pubblico e sociale, magari favorendo la rinegoziazione dei mutui Cdp per gli enti locali disposti ad avviare rapidi interventi sul territorio e la cui urgenza ci è continuamente ricordata dai disastri idrogeologici e dalla fatiscente edilizia scolastica. Non solo, ma impegni locali in questa direzione non saranno certamente favoriti dal taglio dei fondi richiesti per il concorso degli enti territoriali alla finanza pubblica.
Per quanto superfluo, va osservato che un segnale di un diverso approccio di politica industriale volta a sostenere lo sviluppo delle energie rinnovabili (oltre la riconferma dell’eco bonus), della valorizzazione dei beni culturali e del patrimonio artistico, dell’innovazione non può essere attribuito alla riproposizione di un credito di imposta per gli investimenti in ricerca e sviluppo concesso «a tutte le imprese indipendentemente dalla forma giuridica, dal settore economico in cui operano, nonché dal regime contabile adottato» (art. 7); una forma tanto generica da non modificare i deludenti risultati del passato e talmente burocratica da non esporsi a prevedere nemmeno un sostegno per l’assunzione di giovani ricercatori da parte delle imprese.
Il fatto che non vi sia un accenno concreto a un possibile impianto di politica industriale forse è meno sorprendente di quanto possa sembrare. La mancata considerazione di un intervento in questa direzione basato su un orientamento preciso degli investimenti pubblici sembra esprimere una sfiducia nella capacità dell’apparato statale a gestire questo obiettivo; se fosse così programmi di politica industriale sarebbero di fatto rinviati all’attuazione della riforma della burocrazia, cosa annunciata ma dai tempi presumibilmente molto lunghi.
Ma non mi sembra questa la risposta. Il sospetto è che il vero indirizzo di politica industriale sia rintracciabile in due assi della politica economica del governo Renzi; da un lato, la scelta di procedere nel processo di privatizzazioni e, dall’altro lato, nell’obiettivo di liberalizzare pienamente il mercato del lavoro. La decisione di cedere sul mercato quote significative di Eni ed Enel, tanto da portare la partecipazione pubblica al di sotto del capitale di controllo, non può essere giustificata dalla risibile esigenze di ridurre il debito pubblico (i 4,5 miliardi di introiti previsti sono una frazione di un centesimo del debito), ma è indicativa — come del resto viene ampiamente ripetuto dal nostro pre­mier – della sua convinzione che il nostro futuro produttivo dipende dall’arrivo di capitale straniero, o che comunque si è reso straniero. È allora trasparente – ed anche esplicitato – che un incentivo decisivo a tale processo di deterritorializzazione del nostro apparato produttivo è costituito dagli effetti attesi di un Job Act che, completando il processo da lungo avviato, rende il lavoro, passato e quello futuro, del tutto subordinato alle esigenze delle imprese.
Una strategia che non ha bisogno di uno Stato investitore e, anzi, lo riduce a semplice gestore delle relazioni politiche e sociali in modo da rendere attenibili agli investimenti esteri. Come strategia miope e regressiva non è nuova; si colloca nella continuità di una classe politica, burocratica e imprenditoriale che non vuole e non è in grado di assumersi la responsabilità dello sviluppo della società.

8 – EUROPA / L’UNICA SPERANZA È SVENDERSI AD ARABI E CINESI SCENARI. SOFFERENZE BANCARIE AL 9%, CREDITI BLOCCATI PER FAMIGLIE E IMPRESE, ECONOMIA IN PANNE E RENZI PUNTA AGLI INVESTIMENTI ESTERI http://ilmanifesto.info/wordpress/wp-content/uploads/2014/11/06/valigia06.jpg ( di Andrea Baranes, 6.11.2014)
Le sofferenze bancarie in Italia viaggiano intorno al 9 per cento. Questo significa che su 100 euro prestati dalle banche a famiglie e imprese, ben 9 non vengono rimborsati da chi ha chiesto un prestito. Se sommiamo anche le partite incagliate, ovvero i prestiti non ancora in sofferenza ma su cui ci sono comunque gravi problemi di rientro, la situazione peggiora, e non di poco.
Di fronte all’aumento delle sofferenze e alle difficoltà dell’economia, la reazione delle banche è quella di prestare sempre di meno. Se in tutta Europa assistiamo a una contrazione del credito, credit crunch nell’espressione inglese, il fenomeno è particolarmente pesante in Italia. La mancanza di credito peggiora la situazione delle imprese, che investono come i problemi per cittadini e famiglie portano a una riduzione dei consumi. Fattori che acuiscono difficoltà e recessione, il che spinge le banche a chiudere ulteriormente i rubinetti del credito. Recessione, credit crunch, problemi delle imprese, sofferenze bancarie formano una spirale che si autoalimenta.
A fronte del calo dei prestiti erogati, salgono però i depositi bancari, con un aumento del 2,4% su base annua. Come dire che, stante il perdurare di crisi, recessione e sfiducia, gli italiani risparmiano sempre di più e non consumano né investono.
Nello stesso momento, la fuga di capitali dall’Italia ha ripreso ad accelerare, e viaggia ormai oltre i 30 miliardi di euro al mese. Tra agosto e settembre 2014 sarebbero stati 67 i miliardi di euro che hanno lasciato l’Italia.
Una situazione di per sé preoccupante e ancora peggiore se leghiamo questi dati alla Legge di stabilità. Le misure principali, al di là della conferma degli 80 euro in busta paga che non sembra però avere avuto alcun effetto sui consumi o sulla crescita, è nella riduzione dell’Irap, finanziata essenzialmente tramite tagli alla spesa pubblica, anche se sarà necessario capire quali modifiche subiranno i diversi provvedimenti prima dell’approvazione definitiva.
Al momento si può affermare che una manovra fondata su tagli delle tasse mediante tagli alla spesa rischia di avere effetti recessivi. A dirlo è in particolare il Fmi, che ha analizzato i moltiplicatori, ovvero per semplificare l’effetto sul Pil dei diversi interventi. Secondo tale studio, un taglio delle tasse avrebbe un moltiplicatore intorno a 0,17, mentre un taglio alla spesa pubblica avrebbe un moltiplicatore di 1,6. Come dire che un euro di taglio alle tasse ne pro­duce 0,17 di Pil aggiuntivo, ma un euro di tagli alla spesa pubblica fa crollare il Pil di 1,6 euro. Dati che lo stesso governo cita nell’elaborazione dei documenti di contabilità, ma che incredibilmente por­tano poi a scelte di segno diametralmente opposto.
Al di là dell’effetto recessivo, l’idea del governo è quella di affidare la presunta ripresa quasi integralmente al privato. L’unico compito dello Stato è farsi da parte riducendo l’imposizione fiscale. Quello che rimane di pubblico è diretto verso le grandi opere (Tav e Mosè), o nello “sblocca-Italia” che prevede ulteriore consumo di suolo. Si va invece a tagliare sui trasferimenti agli enti locali, ovvero nell’erogazione dei servizi ai cittadini e in settori con maggiore potenziale occupazione.
Tralasciamo quanto si possa definire di sinistra un tale approccio. Fatto sta che Renzi e Padoan dichiarano esplicitamente che «adesso gli imprenditori non hanno più scuse». Qui sta però il vero problema della Legge di stabilità. Le banche prestano sempre di meno; i cittadini non consumano e non investono, chi può porta i propri capitali all’estero, gli altri li depositano in banca; le imprese si trovano in enormi difficoltà a causa della lunga recessione e del calo dei consumi; lo Stato riduce la spesa pubblica: non si capisce bene chi debba trainare questa tanto sbandierata ripresa e con quali capitali.
Se i soldi non arrivano né dallo Stato, né dai cittadini, né dalle imprese, né dalle banche, rimane una sola voce in cui spe­rare: gli inve­sti­menti esteri.
IL CASO ALITALIA – ETIHAD POTREBBE IN QUESTO SENSO ESSERE L’ESEMPIO DA SEGUIRE. Ed è allora logico che il governo assuma come priorità il favorire il più possibile l’ingresso dei capitali stranieri. Una priorità che si traduce in una vera e propria corsa VERSO IL FONDO in materia AMBIENTALE (SBLOCCA-ITALIA E SILENZIO-ASSENSO SULLE AUTORIZZAZIONI AMBIENTALI PROPOSTO NELL’AMBITO DELLA RIFORMA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE); SOCIALE (ARTICOLO18 E ULTERIORE FLESSIBILITÀ SUL LAVORO); ECONOMICO (SI PREME L’ACCELERATORE SULLE PRIVATIZZAZIONI); FISCALE (TAGLI ALL’IRAP E DECONTRIBUZIONE PER I NEOAS­SUNTI). Ecco la visione proposta dalla Legge di stabilità: una corsa verso il fondo per accaparrarsi a condizioni di favore pezzi del nostro Paese. Una gara tra Paesi arabi, cinesi, tedeschi e chiunque altro voglia partecipare.
BENVENUTI IN ITALIA.

9 – EUROPA / SOTTO GLI 80 EURO E IL TAGLIO DELL’IRAP, LA CONFUSIONE FISCALE / AUMENTI DELL’IVA PER 17 MILIARDI, INCERTEZZA SUGLI INTROITI DA EVASIONE FISCALE, TFR TASSATO UN’ANALISI A TUTTO CAMPO DELLA LEGGE DI STABILITÀ http://ilmanifesto.info/wordpress/wp-content/uploads/2014/11/06/valigia04.jpg ( di Angelo Marano, 6.11.2014)
Nella manovra di bilancio il fisco la fa da padrona. Sono fiscali i due interventi di spesa che più la caratterizzano, conferma del bonus 80 euro ed eliminazione del costo del lavoro dalla base imponibile Irap (14,5 miliardi di spesa, 5 dei quali finanziati da precedenti interventi). Sul lato delle coperture, le condizioni della finanza pubblica costringono a rivolgersi ovunque vi sia speranza di raggranellare qualcosa, cosicché, a fianco dei tagli di spesa, viene prevista una serie di aumenti di imposte per più di 3 miliardi: aumento delle aliquote su rendimenti di fondi pensione e rivalutazione del Tfr, maggiori imposte su giochi, dividendi pagati alle società non commerciali, polizze vita e tassa di circolazione su veicoli storici, oltre a rivalutazione di terreni e partecipazioni e aumento dell’acconto sui lavori di ristrutturazione. Sono poi previste coperture per 3,8–4,5 miliardi dal contrasto all’evasione fiscale, per le quali si conta soprattutto sulle nuove modalità di pagamento dell’Iva e sull’incrocio delle banche dati. È fiscale l’enorme clausola di salvaguardia prevista per il 2016, quando scatteranno aumenti Iva per 13–17 miliardi, salvo non si trovino in corso d’anno coperture alternative. Sono, infine, fiscali le due maggiori sorprese, la manovrina da 2,1 miliardi sul 2014 consistente nella revoca retroattiva della riduzione delle aliquote Irap approvata solo qualche mese fa e i 2,3 miliardi previsti dalla tassazione Irpef del Tfr in busta paga.
In tutto ciò si rivela di nuovo una discrasia fra comunicazione e sostanza della manovra. A livello comunicativo si punta tutto sulla riduzione fiscale, con enfasi tale da arrivare quasi a delegittimare lo stesso operatore pubblico, dato che viene spezzato il legame fra imposte e servizi pubblici, col risultato di far percepire la contribuzione come un inutile balzello pagato ad uno stato vorace e sprecone, ARRIVANDO ADDIRITTURA AD ADDITARE AD ESEMPIO AL PAESE LA MAGGIORE INDUSTRIA NAZIONALE, MALGRADO ESSA ABBIA SPOSTATO ALL’ESTERO LA SEDE FISCALE.
A livello di interventi, invece, si opera in maniera disordinata e a trecentosessanta gradi per trovare maggiori entrate. In realtà, singolarmente presi, alcuni specifici interventi costituirebbero la parte forse più apprezzabile della manovra, nella misura in cui aggrediscono alcuni regimi fiscali di esenzione e di favore. Il problema però è che, al di là della necessità di alimentare le entrate, si fa fatica a cogliere un disegno complessivo nei provvedimenti fiscali contenuti nel Ddl di stabilità. La cosa è tanto più significativa in quanto il governo ha sul tavolo una legge delega già approvata sulla materia, che permetterebbe di dare organicità agli interventi.
Rimane poi il fatto che tutti gli interventi fiscali si muovono su un piano che si fa fatica a ricondurre ai dettati costituzionali di capacità contributiva e progressività. Continuano infatti a dominare forme di imposizione separata e proporzionale, anziché comprensiva di tutte le fonti di reddito e progressiva. Lo stesso vale per il patrimonio, COSICCHÉ RICCHI E POVERI CONTINUANO A PAGARE LE STESSE ALIQUOTE SU CONTI CORRENTI, le stesse ALIQUOTE IMU, senza alcun tentativo di realizzare la progressività e realizzare una valutazione complessiva della capacità contributiva, né sul reddito né sul patrimonio. Sembra poi assente, qualunque azione decisa volta al contra­sto dell’elusione e della competizione fiscale al ribasso fra paesi, così come un qualche ripensamento dell’anomalia costituita dalla sostanziale assenza, in Italia, salvo per i patrimoni di grande dimensione – che riescono comunque generalmente a eludere l’imposizione – della tassa di successione.

10 – I LIMITI DELLA PROPRIETÀ / LA RILETTURA. DALLA LETTERA ENCICLICA POPULORUM PROGRESSIO DI PAOLO VI. LA PROPRIETÀ PRIVATA NON COSTITUISCE PER ALCUNO UN DIRITTO INCONDIZIO­NATO E ASSOLUTO… IL DIRITTO DI PROPRIETÀ NON DEVE MAI ESERCITARSI A DETRIMENTO DELL’UTILITÀ COMUNE.
Ove intervenga un conflitto tra diritti privati acquisiti ed esigenze comunitarie primordiali spetta ai poteri pubblici adoperarsi a risolverlo, con l’attiva partecipazione delle persone e dei gruppi sociali. Il bene comune esige dunque talvolta l’espropriazione se… certi possedimenti sono di ostacolo alla prosperità collettiva. Il reddito disponibile non è lasciato al libero capriccio degli uomini, e le speculazioni egoiste devono essere bandite. Non è ammissibile che cittadini provvisti di redditi abbondanti, provenienti dalle risorse e dall’attività nazionale, ne trasferiscano una parte considerevole all’estero, a esclusivo vantaggio personale. (…) Ma su queste condizioni nuove della società si è malauguratamente instaurato un sistema che considerava il profitto come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. Tale liberalismo senza freno conduceva alla dittatura… come generatrice dell’«imperialismo internazionale del denaro». Non si condanneranno mai abbastanza simili abusi, ricordando ancora una volta solennemente che l’economia è al servizio dell’uomo. E non v.v.
Passaggi tratti dalla lettera enciclica Populorum progressio di Paolo VI

(Art. da: Il Manifesto e Sbilanciamoci)

 

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