11419 48. NOTIZIE dall’ITALIA e dal MONDO 6 nov 2014

20141107 14:58:00 guglielmoz

ITALIA – Crisi, aumentano i supermiliardari nel mondo. Italia tra le nazioni in cui aumenta il divario tra ricchi e poveri / In 9 mesi un milione di lavoratori in cassa integrazione. /
EUROPA – Il modello dell’Euro eccesso / Per la Germania, il suo enorme surplus commerciale – il più alto al mondo – è un motivo di orgoglio nazionale. La dimostrazione della superiorità del suo modello economico.
AFRICA & MEDIO ORIENTE – ISRAELE-PALESTINA / Strategia della tensione
ASIA & PACIFICO – Perché il Giappone è differente?/ CINA .Lotta alla corruzione in Cina: ma che sta succedendo?
AMERICA CENTROMERIDIONALE – BRASILE Vincenzo Comito: E ora in Brasile cosa potrà succedere? Dilma Rousseff è riuscita, dopo una battaglia estremamente tesa e incerta sino all’ultimo, a prevalere nelle elezioni brasiliane./ Equador – Correa senza limiti . Il 31 ottobre la corte costituzionale dell’Ecuador ha autorizzato il parlamento a modificare la costituzione
AMERICA SETTENTRIONALE – USA / LA SCONFITTA DEI DEMOCRATICI Il 4 novembre gli statunitensi hanno dimostrato di essere preoccupati per le disuguaglianze economiche votando a favore dell’aumento del salario minimo. Hanno confermato che il paese sta diventando più progressista sostenendo la legalizzazione della marijuana e il diritto all’aborto.

ITALIA
ROMA
CRISI, AUMENTANO I SUPERMILIARDARI NEL MONDO. ITALIA TRA LE NAZIONI IN CUI AUMENTA IL DIVARIO TRA RICCHI E POVERI. DALL’INIZIO DELLA CRISI FINANZIARIA, IL MONDO SI TROVA A FARE I CONTI CON SUPER-RICCHI PIÙ CHE RADDOPPIATI E 805 MILIONI CHE ANCORA SOFFRONO LA FAME. E PENSARE CHE . CON SOLO L’1,5% DELLE SUPER-RICCHEZZE SI POTREBBE GARANTIRE ISTRUZIONE E SANITÀ A TUTTI I CITTADINI DEI PAESI PIÙ POVERI. ”Nella sola Italia, secondo l’Ocse, da metà degli anni ’80 fino al 2008, la disuguaglianza economica è cresciuta del 33% (dato più alto fra i Paesi Ocse, la cui media è del 12%). Autore: fabrizio salvatori
Al punto che oggi l’1% delle persone più ricche detiene più di quanto posseduto dal 60% della popolazione (36,6 milioni di persone); mentre dal 2008 a oggi, gli italiani che versano in povertà assoluta sono quasi raddoppiati fino ad arrivare a oltre 6 milioni, rappresentando quasi il 10% dell’intera popolazione. A mettere nero su bianco ricchezza e povertà è il rapporto di Oxfam, "Partire a pari merito: eliminare la disuguaglianza estrema per eliminare la povertà estrema", che parla di un fenomeno talmente esteso che si può riscontrare perfino in Africa, dove nella regione sub-sahariana al fianco di 358 milioni di persone in povertà estrema, prosperano ben 16 miliardari.
Il rapporto sottolinea come, a causa della crescita della disparità di reddito in molti Paesi del mondo, i benefici della crescita economica non raggiungano grandi fasce di popolazione, ma si fermino a una élite che dispone di più ricchezza di quanta possa materialmente consumarne nell’arco di generazioni.
Tra il 2013 e il 2014, le 85 persone più ricche al mondo (che, secondo un dato già diffuso da Oxfam lo scorso gennaio, hanno la stessa ricchezza della metà della popolazione più povera al mondo) hanno collettivamente aumentato la loro ricchezza di 668 milioni di dollari al giorno. Ovvero, quasi mezzo milione di dollari ogni minuto.
”Questi dati ci mostrano una realtà che non possiamo evitare di vedere: l’estrema disuguaglianza economica oggi non è uno stimolo alla crescita, ma un ostacolo al benessere dei più – commenta Winnie Byanyima, Direttore esecutivo di Oxfam International – Finché i Governi del mondo non agiranno per contrastarla, la spirale della disuguaglianza continuerà a crescere, con effetti corrosivi sulle istituzioni democratiche, sulle pari opportunità e sulla stabilità globale”.
Ogni anno ci sono 100 milioni di persone che cadono in povertà perché costrette a pagare per l’assistenza sanitaria e milioni di bambini che non hanno la possibilità di andare a scuola – continua Winnie Byanyima – Per Oxfam porre l’attenzione sulla crescita incontrollata della disuguaglianza economica estrema non significa voler puntare il dito contro i più ricchi, ma stimolare i leader globali a mettere in atto politiche efficaci ad assicurare alle persone più povere la possibilità di giocare a pari merito la partita per migliorare la propria esistenza".
Tra le raccomandazioni delineate da Oxfam nel rapporto di ricerca, che ha ricevuto, tra gli altri, gli apprezzamenti di Kofi Annan, Jeffrey Sachs e Joseph Stiglitz: la necessità che gli Stati de Mondo promuovano politiche tese a garantire un salario minimo dignitoso, a ridurre il divario tra le retribuzioni di uomini e donne, ad assicurare reti di protezione sociale e accesso a salute e istruzione gratuite per i loro cittadin

ROMA
In 9 mesi un milione di lavoratori in cassa integrazione
Impennata della cassa integrazione a settembre, con richieste salite di quasi il 44%, per un totale di 104 milioni di ore. Si tratta del peggior settembre dal 2009, e di un record negativo assoluto se riferito solo alla cassa straordinaria, che riguarda le crisi aziendali più gravi, con 64,3 milioni di ore.( di Autore: Riccardo Chiari)
Dall’elaborazione dei dati Inps fatta dall’Osservatorio Cig della Cgil, arri­vano poi altre noti­zie nega­tive. La principale è che da gennaio a settembre sono finiti in cig un milione e 100mila lavoratori, fra i quali 525mila hanno avuto la cig a zero ore. In media, il reddito degli addetti (al netto delle tasse) è sceso pro capite di 5.900 euro, con una perdita complessiva di oltre 3,1 miliardi, e questo nonostante la parziale tutela operata dalla cassa. Quella straordinaria cresce del 78,64% sui nove mesi del 2014. In altre parole, rispetto al già terribile 2013, aumentano i casi di aziende in ristrutturazione oppure in fallimento, concordato, liquidazione. Un ulteriore segnale della progressiva de industrializzazione del paese, nonostante che secondo l’Istat i dati sull’occupazione presentino un lieve miglioramento (+82mila occupati), peraltro con un tasso di disoccupazione al 12,6%, record uguagliato, e con 3.236.000 persone in cerca di lavoro, numero più alto su base mensile dal 2004.
«Visti i dati — tira le somme Serena Sorrentino della Cgil — ci chiediamo come possa il governo stimare in soli 1,5 miliardi la spesa prevista nella legge di stabilità per finanziare politiche attive e passive, e come si potrà gestire la crisi se con il Jobs act, anziché estenderle, si pensa di ridurre coperture di cig e cigs».

EUROPA
GERMANIA
IL MODELLO DELL’EURO ECCESSO / PER LA GERMANIA, IL SUO ENORME SURPLUS COMMERCIALE – IL PIÙ ALTO AL MONDO – È UN MOTIVO DI ORGOGLIO NAZIONALE. LA DIMOSTRAZIONE DELLA SUPERIORITÀ DEL SUO MODELLO ECONOMICO. Autore: Thomas Fazi
. Ma, come ormai sostengono anche vari economisti tedeschi (vedi il mio recente articolo sul tema, Germania: il vero malato d’Europa ), si tratta di una pericolosa illusione: il “miracolo” delle esportazioni tedesche non è tanto da imputare a una maggiore “produttività” o “efficienza” del sistema tedesco, quanto piuttosto a una ferrea politica di compressione dei salari e della domanda interna che ha permesso al paese di acquisire un vantaggio competitivo rispetto ai suoi partner europei. E al fatto che gli altri paesi del continente non hanno seguito la stessa politica salariale, ma hanno invece mantenuto un livello di domanda tale da poter assorbire le esportazioni tedesche, accumulando così ampi disavanzi commerciali. Anche in virtù di bolle speculative alimentate proprio dal settore finanziario tedesco, che hanno permesso ai consumatori di questi paesi di continuare ad importare prodotti della Germania.
Da cui si evince quanto sia fallace l’idea che il “modello tedesco” possa rappresentare un modello per l’eurozona o per l’Europa nel suo complesso, poiché risulta evidente che esso può funzionare solo se c’è qualcuno che si fa carico di trainare le esportazioni, stimolando la domanda interna. Eppure uno degli scopi, più o meno espliciti, delle misure di austerità imposte ai paesi della periferia in questi anni – che non hanno agito solo sul fronte della domanda pubblica per mezzo di tagli alla spesa statale ma anche sul fronte della domanda privata per mezzo di politiche di flessibilizzazione del lavoro e compressione/riduzione dei salari reali (-23% in Grecia, -7% in Spagna, ecc.) – è stato proprio quello di imporre a tutta l’Unione, e in par­ti­co­lare all’eurozona, un modello strettamente neo mercantilista in cui la crescita è trainata in primo luogo dalle espor­ta­zioni (sulla base, appunto, del modello tedesco).
Come era facilmente prevedibile, il risultato è stato un crollo della domanda aggregata in tutta l’area monetaria – a cui è da imputarsi il protrarsi della depressione nel continente – e, di conseguenza, del volume degli scambi intra-europei, a danno anche della Germania, che è però riuscita negli ultimi a riorientarsi con notevole successo verso il mercato extra-europeo. Questo ha determinato un riequilibrio piuttosto drastico della bilancia dei pagamenti intra-europea (soprattutto a causa del calo degli import nei paesi della periferia), ma ha visto aumentare enormemente il surplus dell’eurozona nel suo complesso – imputabile in buona parte alla Germania, seguita dall’Olanda, dall’Italia (in positivo dal 2013) e dall’Irlanda – determinando uno squilibrio ancor più destabilizzante tra l’Europa e il resto del mondo.
Proprio questo squilibrio è l’oggetto di un recente report di George Saravelos di Deutsche Bank che lancia il modello dell’“euro eccesso”, che si riferisce al “gigantesco avanzo delle partite correnti dell’eurozona”, causato da una “mancanza di domanda interna” e dall’“enorme eccesso di risparmio dell’Europa”. Come si legge nel report:
La migliore evidenza dell’euro eccesso è l’alto tasso di disoccupazione associato a un surplus delle partite correnti di livello record. Sono entrambi un riflesso dello stesso problema: un eccesso di risparmio rispetto alle opportunità di investimento. L’euro eccesso è particolare per una sola ragione: è molto, molto grande. Con un valore di 400 miliardi di dollari all’anno, il surplus europeo delle partite correnti è superiore a quello della Cina negli anni 2000. Se mantenuto, sarebbe il più grande surplus mai generato nella storia dei mercati finanziari globali . L’euro eccesso significa che, in quanto principali risparmiatori al mondo, gli europei determineranno i flussi di capitali internazionali per il resto del decennio. L’Europa diventerà il più grande esportatore di capitali del 21esimo secolo. Questo perché un surplus delle partite correnti implica un deflusso di capitali verso l’estero. Per questo il quantitative easing non servirà a niente se non a rinforzare questo squilibrio globale.
Secondo Saravelos, questa politica non è sostenibile nel medio-lungo termine perché
1) l’enorme deflusso di capitali dall’Europa determinato dall’euro eccesso rischia di avere effetti destabilizzanti sull’economia globale e di deprimere ulteriormente la domanda europea; e
2) il contesto dell’economia mondiale, caratterizzato da una stagnazione generalizzata di lungo periodo (ulteriormente aggravata dalla mortificazione della domanda europea causata dalle politiche di austerity), non è adatto a una crescita trainata dall’export. “L’Europa deve affrontare un problema di domanda interna, non di domanda estera”, è la conclusione di Saravelos, che non possiamo che condividere.
L’implicazione del report è chiara: così come la politica mercantilista tedesca non è sostenibile su scala europea, lo è ancor meno su scala globale, soprattutto se applicata all’eurozona nel suo complesso. Il motivo è semplice: la carenza di domanda nell’eurozona significa meno crescita nel resto del mondo e dunque meno esportazioni per l’Europa. A dimostrazione di ciò, di recente anche la Germania ha registrato un crollo delle esportazioni (come era stato previsto da molti). Come ha scritto Wolfgang Münchau sul Financial Times: “Il problema principale della Germania è la sua eccessiva dipendenza dagli export, che la rende dipendente da bolle speculative in altre parti del mondo”. A fine 2013, anche il dipartimento del Tesoro statunitense ha criticato duramente il rifiuto della Germania di incrementare la domanda interna (attraverso aumenti salariali e maggiori investimenti) e di contribuire così a un riequilibrio degli squilibri commerciali europei e globali. Riportiamo quello che dice il documento del Tesoro americano:
Per facilitare il processo di aggiustamento all’interno dell’eurozona, i paesi con un persistente surplus nella parte corrente della loro bilancia dei pagamenti (BDP) dovrebbero agire per aumentare la domanda interna e così abbassare il loro surplus. La Germania ha mantenuto un alto surplus nella BDP dall’inizio della crisi finanziaria e nel 2012 ha addirittura avuto un surplus superiore a quello della Cina. L’anemico tasso di crescita della domanda interna della Germania e la sua dipendenza dalle esportazioni hanno impedito, a loro volta, un riaggiustamento nello stesso periodo negli altri paesi dell’eurozona, costretti a ridurre la domanda e comprimere le importazioni per ritrovare un equilibrio. Il risultato netto è stato quello di innestare una fase deflazionistica sia all’interno dell’euro che nell’economia mondiale. Una crescita più forte nella domanda interna dei paesi in surplus dell’eurozona, soprattutto in Germania, aiuterebbe tutta l’area dell’eurozona a un duraturo riequilibrio. La Macro economic Imbalances Procedure (MIP) dell’Unione europea sviluppata per tenere sempre più sotto controllo le economie europee dovrebbe segnalare questi squilibri, anche se la procedura rimane in qualche modo asimmetrica e non presta nessuna attenzione a paesi con un ampio e stabile surplus come la Germania.
Purtroppo, ad oggi, la Commissione europea – forse perché troppo presa a lanciare strali contro paesi come l’Italia o Francia, rei di non ridurre abbastanza rapidamente i loro deficit pubblici (nonostante nel caso dell’Italia esso sia al di sotto del limite di Maastricht, al cui posto oggi vigono le regole molto più stringenti del Fiscal Compact) – non ha ancora avviato nessuna procedura contro quei paesi come Germania e Olanda che registrano un surplus, rispettivamente del 7.5% e del 10.5% del Pil, ben al di sopra del “tetto massimo” del 6% del Pil stabilito dalla Commissione. Anzi: proprio l’accordo di libero scambio che gli Usa stanno negoziando con l’Ue, il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip), rischia di acuire ulteriormente questi squilibri. Come spiega Werner Raza, direttore dell’Öfse, uno dei più autorevoli centri di ricerca austriaci:
Il Ttip è un tassello fondamentale della strategia “Global Europe” della Commissione europea, che sottolinea la necessità di rendere l’Ue più “competitiva” sui mercati internazionali e punta ad imporre a tutta l’Unione, e in particolare all’eurozona, un modello strettamente neo mercantilista in cui la crescita è trainata in primo luogo dalle esportazioni (sulla base del modello tedesco). Nella misura in cui il modello neo mercantilista è strettamente legato alla flessibilizzazione e alla precarizzazione dei mercati del lavoro, alla detassazione delle imprese e alla compressione dei salari in quanto elementi chiave delle cosiddette “riforme strutturali”, direi che c’è un chiaro legame tra il Ttip e lo smantellamento dello stato sociale a cui abbiamo assistito in questi anni. Il Ttip favorisce e acuisce questo processo alterando ulteriormente l’equilibrio di potere tra le forze sociali e le grandi imprese, ovviamente a favore di queste ultime, e istituzionalizzando definitivamente le riforme neoliberiste introdotte negli ultimi vent’anni, soprattutto in materia di privatizzazione dei servizi pubblici. George Saravelos, in conclusione al suo report, dice che perseverando su questa strada l’Europa si avvia a diventare “la nuova Cina”. Non è proprio una cosa di cui andar fieri. Ma è la conseguenza inevitabile di una competizione globale giocata tutta al ribasso su costi e salari, in cui il “modello cinese”, come sappiamo bene, è superiore anche a quello tedesco.

FRANCIA
L’EUROPA ABBANDONA I PROFUGHI Le Monde, Francia
Nella mitologia greca Tritone era il messaggero dei mari e aveva il potere di calmare le tempeste. Duemilacinquecento anni dopo riemerge nel Mediterraneo con la nuova operazione di controllo delle frontiere marittime e ha di nuovo il compito di calmare una tempesta, quella di centinaia di migliaia di profughi che rischiano la vita per sfuggire alla guerra o alla miseria. Ma porta un messaggio d’impotenza. –
Non possiamo far finta di niente. Come ha ammesso il ministro dell’interno italiano Angelino Alfano, Triton mette fine all’operazione Mare nostrum, che ha salvato la vita di 10miila persone. Mare nostrum è stata lanciata nell’ottobre del 2013, dopo un terribile naufragio al largo di Lampedusa. Le navi italiane si spingono fino alle acque territoriali libiche per salvare i migranti ammucchiati sui barconi dalle organizzazioni criminali. L’operazione costa nove milioni di euro al mese. Non solo i paesi europei non hanno dato prova di solidarietà, ma hanno accusato l’Italia di favorire l’immigrazione clandestina offrendo ai migranti la speranza di essere salvati. Il più sfacciato è stato il ministro dell’interno tedesco Thomas de Maizière, secondo cui "Mare nostrum, nata come una missione di salvataggio, è diventata un ponte verso l’Europa". La soluzione si chiama Triton, un’operazione gestita dall’agenzia Frontex che costerà un terzo di Mare nostrum e si limiterà alle acque territoriali europee.
Ma Triton non potrà calmare la tempesta. I migranti continueranno ad arrivare, perché non è la prospettiva di essere bene accolti che li spinge a partire, ma la miseria e la violenza. Continueranno a salire su imbarcazioni di fortuna, dopo aver indebitato le proprie famiglie e arricchito i contrabbandieri. E continueranno a morire in mare. La verità è che oggi in Europa f immigrazione è considerata una piaga e alimenta il successo dei partiti di protesta. Nessuno dei grandi partiti ha il coraggio di elaborare una strategia razionale sulla gestione, l’accoglienza o l’utilità dei migranti. Finché ignoreremo la questione il Mediterraneo continuerà a inghiottire profughi.

SPAGNA
SCONTRO FINALE SULLA CATALOGNA
La corte costituzionale ha accolto il ricorso del governo spagnolo, guidato da Mariano Rajoy, contro la consultazione popola^ re sull’indipendenza della Catalogna, in programma il 9 novembre. La consultazione, di valore puramente simbolico, era stata indetta dal governo catalano dopo che la stessa corte aveva bocciato il referendum. Il governo catalano ha annunciato che farà ricorso contro la decisione, non abbandonerà il "processo partecipativo" informale e chiederà al governo di Madrid di "garantire la libertà di espressione" dei catalani, riferisce El Periodico.

IRLANDA
IN PIAZZA CONTRO L’AUSTERITÀ / Il 2 novembre decine di migliaia di persone hanno manifestato a Dublino contro il progetto del governo di Enda Kenny di far pagare l’acqua, finora gratuita in Irlanda, e contro le politiche di austerità. Dopo le proteste il primo ministro ha spiegato che il governo farà al più presto chiarezza e ha dichiarato che le tariffe saranno modeste, soprattutto per le famiglie. "I manifestanti", scrive l’Irish Times, "hanno posizioni diverse. Ma per tutti, dopo anni di tasse e misure di austerità, questo provvedimento è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso".

ROMANIA
Verso il ballottaggio
A sfidarsi per la presidenza, al ballottaggio del 16 novembre, saranno il primo ministro Victor Ponta e Klaus Iohannis, sostenuto dal Partito nazional-liberale. Gli altri candidati, tra cui l’ex premier Càlin Popescu-Tàriceaunu e l’ex ministra Elena Udrea, non hanno superato il 5,5 per cento. I risultati erano ampiamente prevedibili, mentre la vera notizia, scrive Hotnews, è stata che "molti romeni all’estero – a Monaco, Parigi, Londra e Bruxelles – non sono riusciti a votare, neanche dopo aver fatto la fila per ore. È un fatto senza precedenti. I seggi erano pochi e male organizzati. Forse Ponta", si chiede il sito, "aveva così paura del voto dei romeni emigrati da privarli di un loro diritto fondamentale?".

UCRAINA
Il 2 novembre nelle repubbliche autoproclamate di Donetsk {nella foto) e Luhansk si sono tenute le prime elezioni parlamentari e presidenziali. Come scrive Kommersant, "a capo della repubblica di Donetsk è stato eletto Aleksandr Zacharcenko, attuale capo del governo jìlorùsso, mentre quella di Luhansk sarà guidata dàlfàttuale leader locale Igor Plotnitskij. I due rispettivi movimenti, ‘Repubblica di Donetsk’ e ‘Pace per Luhansk’ si sono imposti a larga maggioranza anche nel voto legislativo. Le lunghe code di persone in attesa di votare si spiegano anche con il fatto che i seggi erano pochi, meno della metà di quelli normalmente aperti nelle consultazioni organizzate sotto la giurisdizione ucraina". "In risposta alle elezioni organizzate dai separatisti", continua il quotidiano russo, "il presidente ucraino Petro Porosenko ha deciso di annullare la legge che concedeva alla regione uno speciale status di autonomia". Gazeta osserva invece che "la Russia per ora si è limitata ad affermare, con, un comunicato del ministero degli esteri, che ‘rispetterà’ l’esito del voto, mentre Vladimir Putin non si è ancora pronunciato. Gli Stati Uniti temono che i risultati del plebiscito illegale siano usati da Mosca per un’escalation del conflitto e per invalidare gli accordi per il cessate il fuoco siglati a Minsk. Anche l’Unione europea ha dichiarato che non riconoscerà il voto". "I separatisti hanno già dichiarato l’intenzione di conquistare Mariupol", scrive l’analista Georgi Bovt sempre su Gazeta. "All’ordine del giórno rimane anche la creazione, per via militare, di un corridoio che dalla Russia arrivi in Crimea passando per U Donbass. E anche a Kiev, dopo il successo dei nazionalisti alle ultime elezioni, l’ipotesi militarista potrebbe avere la meglio sulla linea di Porosenko, ritenuta da molti troppo morbida. Lo spazio di manovra si è ormai ristretto fino a trasformarsi in un campo di battaglia".

BULGARIA
II 3 e il 4 novembre due persone si sono date fuoco davanti alla presidenza a Sofia e in una chiesa a Sandanski. Le loro condizioni sono gravi. Negli ultimi due anni otto persone si sono già uccise in questo modo per protestare contro la povertà e la corruzione.

UNGHERIA
II 31 ottobre il primo ministro Viktor Orbàn ha rinunciato a introdurre una tassa sull’uso di internet in base al consumo

AFRICA & MEDIO ORIENTE –
TURCHIA
Almeno 24 migranti, in maggioranza afgani, sono morti il 3 novembre in un nau-fragio al largo di Istanbul

ISRAELE-PALESTINA
Strategia della tensione / Il 5 novembre la polizia israeliana ha ucciso il palestinese che a Gerusalemme Est ha investito con un furgone alcuni pedoni in un quartiere a maggioranza ebraica causando un morto e 12 feriti, scrive Ha’aretz. Pochi giorni prima il rabbino estremista ebraico Yehuda Glick era rimasto gravemente ferito in un tentato omicidio rivendicato dalla Jihad islamica palestinese. Da settimane la situazione a Gerusalemme è sempre più tesa, in particolare per gli scontri tra manifestanti palestinesi p agenti israeliani alla Spianata dette moschee (Monte del tempio per gli ebrei), che il 30 ottobre è stata chiusa temporaneamente per ordine delle autorità israeliane

LIBANO
II 5 novembre il parlamento ha prorogato il suo mandato fino al 2017 a causa della crisi politica in corso.

LIBIA
Dal 3 novembre a Bengasi sono in corso violenti combattimenti tra l’esercito libico, sostenuto dalle truppe dell’ex generale Khalifa Haftar, e le milizie islamiste che controllano la città. Tra queste ultime c’è anche il gruppo f Ansar al sharia, che di recente ha proclamato la nascita di un califfato islamico nella città di Derna. Dalla metà di ottobre gli scontri in corso a Bengasi, dove erano cominciate le prime rivolte contro l’ex dittatore Muammar Gheddafi, hanno causato almeno 240 morti, scrive Rasifa al Akhbariya. L’esercito libico ha accerchiato il centro della città e deve gestire una diffìcile guerriglia

ARABIA SAUDITA
II 4 novembre otto persone sono morte in un attentato contro gli sciiti durante le celebrazioni dell’ashura ad Al Dalwa, nell’est del paese.

KENYA
II 1 novembre venti poliziotti e due civili sono morti in un’imboscata tesa da un gruppo armato nella regione di Turkana, nel nordovest del paese.

RDC
NO AI NEGOZIATI CONI RIBELLI / Dall’inizio di ottobre più di cento civili sono stati uccisi a Beni, nella Repubblica Democratica del Congo. Gli omicidi sono stati attribuiti ai ribelli ugandesi del gruppo Alleanza delle forze democratiche (Adf), attivo dal 1996. L’Adf, spiega il quotidiano Forum des As, sfida il governo di Kinshasa e i militari della forza internazionale Monusco, che devono proteggere i civili. Il 2 novembre, al termine di una visita a Beni, il presidente Joseph Kabila ha detto che il suo governo non negozierà con i ribelli.

ASIA & PACIFICO
COREA DEL SUD
SUICIDI IN PENSIONE / Il 19 ottobre un uomo di 68 anni si è ucciso dopo essere stato sfrattato dalla stanza dove viveva a Seoul. Ha lasciato un biglietto con scritto "grazie" e i soldi per le spese del funerale e per le bollette di acqua ed elettricità. A febbraio tre donne, una madre e le due figlie, non potendo più mantenersi, avevano fatto la stessa scelta. Nel paese il tasso di suicidi tra gli anziani ha raggiunto livelli preoccupanti (81,9 ogni 100mila persone sopra i 65 anni, il quadruplo rispetto ad altre fasce d’età), e la causa è quasi sempre la povertà. Meno di un terzo degli anziani riceve una pensione e chi ce l’ha arriva al massimo all’equivalente di 160 euro al mese, mentre il costo minimo della vita è di 446 euro. Per questo aumentano gli anziani che lavorano per vivere, ma spesso con paghe inferiori al salario minimo. "Il governo non può più fare finta di niente e de-ve rendere effettivo un sistema pensionistico di base", scrive Hankyoreh.

GIAPPONE.
PERCHÉ IL GIAPPONE È DIFFERENTE? / i confronti internazionali per le performances dei mercati del lavoro tornano oggi di rilevante attualità. Perché i tassi di disoccupazione (o di occupazione) divergono anche di molto fra paesi, anche a fronte di una loro comune esposizione ai trend strutturali ed eventi ciclici che agiscono oramai su una scala globale ? Autore: Paolo Piacentini
Il pensiero “ mainstream ”, nell’accademia, ma in modo ancor più insistente e pedante, nella divulgazione del “verbo” da parte delle istituzioni internazionali quali il FMI, OCSE, ecc., associa regole e caratteristiche istituzionali dei mercati nazionali del lavoro alla loro performance di attivazione occupazionale. Di qui, l’esemplificazione per paesi virtuosi, che devono ispirare, in qualità di “ benchmark ”, i percorsi di riforma dei paesi “deficitari”. Ma indagini più approfondite, o il semplice passaggio dei cicli, hanno spesso rivelato le fragilità di questi “modelli”. Spagna ed Irlanda erano considerati casi esemplari negli anni novanta; il caso olandese con tassi di occupazione fra i più elevati si è rivelato associato alla più elevata incidenza di un lavoro “part-time” nel mondo (fino all’80% fra le donne). Oggi, nel contesto europeo, la storia di successo esemplare si identifica con il “Modell Deutschland”.
Chi scrive crede che gli esiti occupazionali siano, principalmente, il risultato delle dotazioni di capacità tecnologiche e di capitale umano dei paesi. Gli istituti regolativi, le prassi di relazioni industriali, l’efficienza dei servizi di supporto a migliori esiti occupazionali, sono fattori incidenti, ma quando agiscono in complementarità al dinamismo di fondo di un’economia. Ancora, le “ success stories ” spesso hanno limiti e lati oscuri, spesso sottovalutati dalla prosa elogiativa dei rapporti ufficiali. Ma sul modello germanico lascio spazio alla riflessione dei più competenti.
La mia storia ed esperienza mi portano ad un rinnovato interesse per una riflessione sul caso del Giappone: paese certo geograficamente e culturalmente più distante, ma che condivide con contesti europei di paesi “maturi” problematiche quali l’emergere dei nuovi competitors, fenomeni di delocalizzazione industriale, tassi di crescita mediamente modesti, l’invecchiamento della popolazione, ed altri ancora. L’attenzione degli osservatori internazionali sul “modello” giapponese era stata ampia intorno agli anni ottanta del secolo passato, quando il successo, e talvolta il primato, della sua capacità manifatturiera aveva attratto l’interesse degli studiosi intorno alle “specificità giapponesi”, per il contesto istituzionale e in particolare per gli aspetti funzionali del sistema di relazioni industriale e organizzazione del lavoro. “Life-term Employment”, la flessibilità funzionale degli orari e delle remunerazioni di fatto legate alla incidenza delle componenti di “bonuses”, la concertazione, ogni anno ad inizio primavera, delle concessioni salariali legate a previsioni o obiettivi di produttività: queste, ed altre caratteristiche di un modello “tipicamente nipponico” vennero allora proposte come caratteristiche contestuali alla radice della buona produttività, e bassa conflittualità, del lavoro in Giappone.
Il “decennio perduto” degli anni novanta, con il crollo della bolla immobiliare seguita da una prolungata stagnazione, associata anche ad una diffusa sofferenza del sistema bancario e finanziario in senso più lato, hanno forse contribuito a ridurre a livello internazionale la percezione di valenza positiva del modello giapponese. L’emergere, più recentemente, della Cina, come potenza egemone nel contesto Est-asiatico, ha acuito il senso di una “marginalità insulare” del Giappone nel contesto geo-politico.
Paradossalmente, l’esperienza del Giappone torna oggi a suscitare nuova attenzione, proprio a fronte delle implicazioni più inquietanti della stagnazione economica nei paesi dell’area Euro. L’esperienza di “ristagno deflazionistico” è stata, come noto, anticipata di due decenni precisamente dal Giappone. Una politica espansionistica per aggredire la deflazione (e ancor più, le aspettative deflazionistiche) è oggi al centro della “missione” proclamata dal governo di S. Abe (percepito come il “più a destra” nella esperienza post-bellica).
I prezzi al consumo in Giappone hanno segnato tassi negativi di variazione in 11 degli ultimi 20 anni, con pochi episodi inflattivi (appena +1.8 % nel 1997 e +1,4% nel 2008) che coincidono con gli aumenti delle aliquote dell’imposizione indiretta. Per i prezzi alla produzione, il relativo indice, con 2010=100, si situa adesso intorno a 98, rispetto a 110 del 1995. Il tasso di crescita del PIL reale da inizio secolo è stato in media annua dello 0,88% (1,22% nell’EU, 2,02% negli USA). Solo negli ultimi due anni, l’impatto di una “Abenomics” .
1 – certamente meno austera del “Fiscal Compact” ha consentito modesti segnali di ripresa lì, a fronte della “ double dip ” recessiva qui. Al di là di necessari approfondimenti, il quadro macroeconomico di medio termine del Giappone ha segnato lo scenario di un ristagno deflazionistico, prima e più persistentemente, rispetto ad altri contesti.
2 – Ecco allora il punto: accade che, secondo la più recente rilevazione delle forze di lavoro (agosto 2014), il tasso di disoccupazione totale del Giappone viene segnalato al 3,7%. Questo dato, secondo il commento autorevole del governatore della Banca del Giappone H. Kuroda, sarebbe vicino al 3,5%, considerato di “piena occupazione” al netto della componente frizionale.
3 – Il tasso di disoccupazione, dall’inizio della “Grande Recessione” nel 2008, ha conosciuto un picco al 5,5% a metà 2009, per poi scendere fino al dato attuale; il numero degli occupati, sceso di circa due milioni di unità nella recessione, ha recuperato oggi circa metà di tale calo. A completamento del quadro comparativo, ricordo che, sia per i tassi di occupazione, che per i confronti di uno standard di vita (PIl pro-capite in PPA) i valori giapponesi non risultano molto diversi rispetto a quelli che prevalgono nei contesti europei più avanzati (un vantaggio giapponese, 81% contro 76,5% della UE, per il tasso di occupazione nelle classi centrali; un leggero deficit per il Pil pro-capite in $-PPA, 35317$ contro 36543$; ma il valore è certo superiore a quelli del “sud” dell’Europa…).
Questi tassi di occupazione/disoccupazione sembrano allora di difficile razionalizzazione, a fronte delle performances tutto sommato modeste dei “fondamentali” macroeconomici del medio periodo. Non vale oggi, a mio avviso, il dubbio di una non comparabilità degli indicatori statistici. I criteri standard ILO sono oggi comunemente applicati, e l’ufficio statistico giapponese è forse fra i più accurati nel fornire indagini di dettaglio per composizioni occupazionali, differenziali salariali, ecc.
L’elevata attivazione del lavoro anche in un contesto di bassa crescita, e più spesso, di deflazione, appare pertanto come una esperienza apparentemente anomala, che rinvia ad analisi delle strutture produttive, caratteristiche istituzionali, relazioni industriali, ed infine, delle “norme sociali” in senso più ampio, che possono caratterizzare il caso. Questo richiede studi e riflessioni più approfondite rispetto allo spazio occasionale. Mi limito quindi a richiamare poche caratteristiche di un “sistema giapponese di divisione ed organizzazione sociale del lavoro”, note certamente agli esperti, ma che sfuggono talvolta ad un pubblico più ampio.
Prioritario allora appare ricordare che il Giappone si caratterizza, da sempre, per la polarizzazione duale nei modi di impiego del lavoro. Anche se oggi sono ampiamente diffuse le fattispecie intermedie, l’espressione più radicale di tale dualità si è posta nel contrasto fra un “contratto implicito a vita” (“Life-term Employment”), che ancora copre i mercati “interni” del lavoro di segmenti privilegiati, – “white collars”, ma anche addetti operativi qualificati, presso imprese, o altri enti privati e pubblici, con una certa consistenza dimensionale – da una parte, e la diffusione del c.d. “Arbaito” (allitterazione dal sostantivo tedesco…) dall’altra, in cui fra le parti si concorda, fra “persona e persona”, per la remunerazione oraria e le ore complessive, di un rapporto di lavoro delimitato nel tempo e liberamente terminabile dalle parti. Rimane, in tutto questo, di fatto una discriminazione di genere, per cui i percorsi stabili coprono essenzialmente maschi “ prime age ”.
La tenuta dell’occupazione, e il suo recupero più recente dalla crisi, appaiono allora di fatto ascrivibili alla crescita di questo comparto di lavori “ Hiseiki ” (traducibile, letteralmente, come “atipico”). La crescita, ad es. del “part-time”, che rappresenta la parte maggioritaria dei contratti atipici in Giappone, ( e dove la nozione di tempo parziale è assai flessibile, da avvicinarsi a volte ad orari lunghi “quasi full-time”, ma non coperto dalle clausole di protezione tipiche dei contratti a tempo indeterminato) è ben descritta dal grafico, che riportiamo da una relazione recente del governatore della Banca del Giappone.
4 – Ma la progressione, apparentemente inesorabile al di là delle congiunture cicliche, di un lavoro precario è un fenomeno peculiare, o particolarmente accentuato, in Giappone, rispetto ad altri contesti? Un controllo preliminare su dati OCSE – che forniscono, separatamente, le incidenze dei lavoratori “temporanei” e “part-time” – davano i primi, al 2012, ad una quota del 17,8% in Giappone, a fronte del 15,2% per la EU a 17 paesi. (Per i “part-time”, Giappone 25,2%, EU 21,6%). La dualità fra “LTE” e “Arbaito” in Giappone appare allora certo un caso limite, ma non totalmente alieno, rispetto a pratiche diffuse in contesti a noi più vicini (es. percorsi professionali stabili versus “Minijobs” in Germania, ecc.). Un primo controllo sui dati indica anche che un vecchio mito, quello di una società giapponese relativamente egualitaria”, con scarti fra remunerazione di “ managers ” e di operativi relativamente contenuti per norma sociale implicita, non vale più, nel contesto odierno di incidenza crescente del lavoro atipico. Gli indicatori di diseguaglianza distributiva segnalano valori non molto diversi rispetto a paesi europei. Ad esempio, per il rapporto “80/20”, fra reddito medio del quintile più alto e quello più basso, indica un valore di 5,7 per il Giappone (es. 5,5 in Italia).
Ma allora, dovremmo ridimensionare le peculiarità di un “modello” giapponese? Siamo di fronte ad una riedizione aggiornata di un capitalismo “renano-nipponico”, che già fu contrapposto al capitalismo “anglosassone” in un notevole saggio di R. Dore?
5 – In tale contesto, i percorsi più qualificati di istruzione e formazione, insieme alle prassi di una flessibilità “interna” (orari, mansioni, ecc.) continueranno ancora a coprire un segmento primario, se pur in contrazione relativamente al potenziale totale, di lavoro. Cresce quindi, nel frattempo, la quota di popolazione costretta ad offrirsi sul mercato secondario, a redditi modesti se non minimali.
Giappone e Germania presentano, tuttavia, importanti differenze, sia pure all’interno di una comune e resistente vocazione verso produzioni manifatturiere di gamma alta. Vorrei confutare a questo punto un luogo comune, secondo cui l’economia giapponese sarebbe sostenuta in prevalenza da un orientamento “export-led”. Nel confronto internazionale fra paesi avanzati, il Giappone appare anzi fra le economie più “chiuse”: il rapporto Export/PIL (2012) era infatti al 12,1% in Giappone e al 39,9% in Germania! L’integrazione in un “Mercato unico” continentale in un caso, e l’insularità nell’altro, giustificano parte di tale differenza. Bisogna tuttavia riconoscere il fatto, per cui l’attivazione occupazionale in Giappone dipende in misura prioritaria dalle componenti interne della domanda.
L’interrogativo che ci si pone a questo punto è quindi, in quale misura l’elevata occupazione (con bassa crescita) nel caso giapponese sia legata ad una struttura della domanda particolarmente “ Employment friendly” . Bassa produttività in settori di servizi (ed agricoltura) protetti, l’elevato deficit pubblico, barriere non tariffarie all’import, ecc., sono spesso citati come fattori incidenti. Ma anche le caratteristiche di funzionamento e di aggiustamento ciclico del lavoro, le flessibilità “interne” dei mercati primari ed “esterne” su quelli secondari hanno un loro ruolo. Infine, rimarrebbero da considerare le peculiarità di una “specificità” giapponese nelle norme sociali implicite: ad es., un licenziamento senza “giusta causa” di un dipendente “primario” sarebbe scoraggiato non tanto da norme di legge, ma dalla riprovazione sociale che colpirebbe il datore di lavoro.
Infine, rimangono le difficoltà per giudizi di valore. Bisognerebbe riflettere e distinguere circa le caratteristiche di addizionalità, temporaneità, volontarietà (o piuttosto di discriminazione, persistenza, esclusione) che si possono associare alle fenomenologie di lavoro precario sempre più diffuso. Anche aspetti meno gradevoli, quali la persistenza di una subalternità femminile a dispetto delle legislazioni sulle “pari opportunità”, l’ostilità sociale e il blocco di fatto di un’immigrazione straniera non qualificata, e infine, un governo che invoca l’“orgoglio nazionale” per la ripresa ma evocando suggestioni sgradevoli per i paesi vicini, andrebbero inclusi nella valutazione.
Tutto questo richiede, evidentemente, una riflessione più ampia. Il Giappone rimane in ogni caso, a mia opinione, un caso di rilevante interesse, in una linea di ricerca più ampia che affronti la domanda “ why Employment rates differ ” fra contesti geografici, sociali ed istituzionali diversi, nonostante i comuni vincoli e le circostanze imposte dalla “globalizzazione”.

SINGAPORE
II 29 ottobre la corte d’appello di Singapore ha re-spinto due ricorsi contro una legge che vieta i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso.

NAURU
RIFUGIATI NEL MIRINO / Sull’isola di Nauru, che ospita i centri di detenzione australiani per richiedenti asilo, gli episodi di violenza sono in aumento. Il primo novembre un iraniano è stato lapidato e picchiato da un gruppo di uomini e due giorni dopo un rifugiato che lavorava come carpentiere si è licenziato dopo aver subito minacce di morte. Questi episodi seguono di una settimana l’assalto a quattro adolescenti da parte di alcune persone del posto. A Nauru, un’isola stato di diecimila abitanti e con il 23% di disoccupazione, la presenza dei rifugiati è considerata una minaccia. Per il ministro dell’immigrazione australiano Scott Morrison la sicurezza dei richiedenti asilo non è una sua responsabilità ma compete alle autorità di Nauru. Un rapporto di una commissione parlamentare australiana pubblicato il 5 novembre sottolinea la necessità che il governo pensi a una politica a lungo termine sull’asilo e sui rifugiati, eliminando, tra le altre cose, la detenzione obbligatoria dei richiedenti asilo nei centri di Nauru e in Papua Nuova Guinea, scrive il Sydney Morning Herald.

BIRMANIA
ELEZIONI ENTRO IL 2015
Il 31 ottobre il presidente Thein Sein ha incontrato i rappresentanti dell’opposizione, dell’esercito e dei gruppi etnici, dopo aver annunciato nuove elezioni per la fine del 2015. All’incontro si è discusso soprattutto del processo di pace e di riforme. Si è deciso che il parlamento discuterà gli emendamenti alla costituzione, tra cui quello che per-metterebbe ad Aung San Suu Kyi di candidarsi alla presidenza, scrive Irrawaddy.

CINA
LOTTA ALLA CORRUZIONE IN CINA: MA CHE STA SUCCEDENDO?
Sin dal suo insediamento, nel novembre del 2012, Xi Jinping ha battuto sul tasto della corruzione e sulla necessità di una campagna senza precedenti per sradicarla: non era solo propaganda, la lotta si sta effettivamente sviluppando e con numeri e nomi che vanno molto, molto oltre l’ordinaria amministrazione: 180.000 funzionari e militari di ogni ordine e grado sotto processo ed un sito, appena varato, per raccogliere le denunce anonime della popolazione. E non mancano i nomi eccellenti di serie A: come Zhou Yongkang, già potentissimo capo degli apparati di Pubblica sicurezza, il cui figlio è sotto inchiesta disciplinare del Partito dal 29 luglio. Zhoau è stato deposto ed i sui corruttori, l’imprenditore Liu Han, capo del gruppo Hanlong, ed il fratello, condannati a morte. Più recentemente è toccato a Xu Caihou che, sino ad una manciata di mesi fa, era il numero due dell’Armata Popolare di Liberazione. Dunque, si sta facendo sul serio. Ma si tratta solo di corruzione?
Intendiamoci: la corruzione è una patologia che si sta sviluppando in tutto il mondo, soprattutto nei paesi emergenti: India, Brasile, Sud Africa e Russia sono paesi corrottissimi ed anche Nigeria, Egitto, Venezuela, Cuba, Argentina, Indonesia non scherzano. Quanto al mondo occidentale non è il caso di dire e basti citare Usa, Italia e Giappone. Persino nella virtuosissima Germania si registra una impennata dei casi che la allinea perfettamente agli altri paesi. Ed occorrerà studiare con attenzione quanto questo fenomeno stia uscendo dai limiti della patologia criminale per entrare in quello dei processi che modificano la struttura di classe. Proprio in questo senso, il caso cinese si presta ad una riflessione che può fare da guida per comprendere il fenomeno su scala globale.
Dicevamo che i numeri vanno molto oltre l’ordinaria amministrazione e ce ne sono anche altri che appaiono significativi. Ad esempio, si parla circa 4 milioni di multimilionari cinesi (in dollari) su 6 milioni e mezzo di analoghi asiatici. Un numero enormemente cresciuto negli ultimi dieci anni, se è vero che nel 2001 essi non erano neppure un milione. Considerata l’assenza quasi totale di patrimoni ereditati e ad una divisione relativamente uguale tra terre agricole e habitat privato, c’è da chiedersi come si siano formati questi enormi patrimoni in così breve tempo. Il Credit Suisse indica l’arricchimento di imprenditori e investitori” favorito dall’enorme crescita delle esportazioni cinesi e dal basso valore di scambio dello yuan. Il che è sicuramente una delle cause del fenomeno, ma non certamente la più comune, considerando che, quando gli imprenditori cinesi devono cambiare i loro dollari in yuan, subiscono una “tosatura” del 15% per diritti di signoraggio, il che decurtava sensibilmente i loro profitti. Ed una sola generazione non è un tempo adeguato alla formazione di un numero tanto elevato di patrimoni così ingenti. E peraltro resterebbe pure sempre da capire, nelle condizioni date della Cina degli anni ottanta e novanta, dove, questi imprenditori, abbiano trovato i capitali di avvio. Non ci vuole molto a capire che malavita organizzata (le Triadi) e corruzione siano la risposta a gran parte di questi quesiti.
Sia la criminalità organizzata (ricordiamo la frase di Deng sul fatto che non tutte le Triadi erano cattive, perché che ne erano di “patriottiche”) che la pirateria e la corruzione sono state a lungo tollerate dalle autorità centrali, come forma di “accumulazione originaria” esattamente come indica Marx per l’Inghilterra del XVII secolo.
Ma se questa è l’origine del fenomeno, cosa sta accadendo ora? Molti segnali indicano che l’attuale campagna contro la corruzione va molto oltre il consueto uso dell’argomento per regolamenti di conti fra le diverse fazioni del gruppo dirigente. E’ evidente che si sta producendo una spaccatura feroce in esso, ma questo non è nei limiti delle consuete lotte di corrente e configura un vero e proprio conflitto di classe.
La nascita di una così robusta fascia sociale di miliardari genera, dall’interno della burocrazia, una nuova classe dominante che ad essa si contrappone. Ai “nuovi ricchi” non bastano più i profitti realizzati (o da realizzare): vogliono una trasformazione piena del sistema in senso capitalistico, superando la fase di capitalismo di Stato (o, se preferite “collettivismo burocratico di Stato”) che ha caratterizzato la Cina di questo trentennio. E questo postula la sostituzione al potere della classica burocrazia di partito. Di qui la reazione di Xi Jinping che utilizza, in questo senso, la strada aperta da Bo Xilai (di cui non escluderei una riabilitazione in un futuro non lontanissimo, se essa tornasse utile a rafforzare la fazione di Xi Jinping).
Ed un segnale viene dalla Banca Mondiale che segnala come oltre 5 milioni di milionari cinesi stiano cercando rifugio presso le banche occidentali per i loro capitali. Il che, se fosse vero, costituirebbe il più clamoroso “sciopero dei capitali” della storia. Una conferma indiretta di questo pericolo viene dalla campagna del partito contro i “funzionari nudi”, cioè quei funzionari che mandano figli e moglie all’estero, con capitali al seguito, sperando che i loro arricchimenti non siano scoperti. Poi, se individuati, spesso si suicidano, perché la legge cinese proibisce di proseguire ogni forma di processo (anche civile) nei confronti dei defunti, per cui, in questo modo, la famiglia salva il capitale e si rifà una vita all’estero. Proprio a questo proposito, recentemente una componente del più alto organo giurisdizionale cinese ha dichiarato che la legge va reinterpretata, per cui, se tace il processo penale, questo non deve impedire i necessari passi per il recupero del maltolto allo Stato. Ed è anche comparsa recentemente la notizia di circa 250 casi di milionari cinesi fuggiti all’etero e “rimpatriati” dai servizi cinesi con vere e proprie extraordinary redditions.
Ed è in questo quadro che occorre inserire anche l’attuale dibattito nel Pcc sullo “stato di diritto” attualmente in corso. Ma sul vulcano che sta per destarsi in Cina torneremo con altri elementi di riflessione. ( di Aldo Giannuli)

PAKISTAN
Il 3 novembre un attacco suicida a Wagah, al confine con l’India, ha provocato almeno sessanta morti, tra cui molti civili. Dalla città passano ogni giorno decine di migliaia di persone e la cerimonia della bandiera che si tiene ogni sera al tramonto attira molti curiosi. L’attentato, una chiara risposta all’offensiva lanciata dal governo contro i taliban che nelle aree tribali hanno le loro roccaforti, è stato rivendicato dal gruppo Tehreek Taliban Pakistan.

AMERICA CENTROMERIDIONALE –
BRASILE
Vincenzo Comito: E ora in Brasile cosa potrà succedere? Dilma Rousseff è riuscita, dopo una battaglia estremamente tesa e incerta sino all’ultimo, a prevalere nelle elezioni brasiliane. Con la sua vittoria ha, tra l’altro, confermato una legge non scritta che riguarda l’America Latina degli ultimi anni e che vuole che nelle elezioni presidenziali dei vari paesi il contendente uscente riesca inesorabilmente vincitore. Autore: Vincenzo Comito
Per capire quale fosse la posta politica in gioco e le scelte molto difficili cui si trova comunque ora davanti il Brasile appare opportuno analizzare con un certo dettaglio l’evoluzione della situazione del paese nell’ultimo periodo.

L’EPOCA DI LULA E QUELLA DELLA ROUSSEFF
Dopo decenni terribili caratterizzati tra l’altro da dittatura militare, alto livello di inflazione, povertà molto diffusa, diseguaglianze spaventose, il Brasile ha poi voltato pagina. Ne sono seguiti dei governi democratici che sono riusciti a migliorare la situazione finanziaria del paese. Poi, il nuovo millennio ha visto l’avvio di una nuova fase economica, sociale, politica.
Per più di un decennio quella del Brasile è stata così una storia di successo: tra il 2000 e il 2010, grosso modo l’epoca di Lula, l’economia è cresciuta intorno al 4% all’anno, una cifra interessante se si considera che il paese presentava un reddito pro-capite molto più elevato di Cina ed India, paesi che nel frattempo crescevano parecchio di più. Inoltre le misure sociali di Lula, a partire dalla bolsa familia , hanno contribuito, insieme alla favorevole congiuntura internazionale –aumento della domanda e dei prezzi delle materie prime, afflusso di capitali stranieri-, a migliorare la situazione di decine di milioni di brasiliani e a farli uscire dalla povertà; il mercato del lavoro ha manifestato una forte e continua crescita degli occupati, accompagnata da un aumento rilevante delle retribuzioni. Un sistema bancario in piena espansione ha anch’esso contribuito ad un sostanziale miglioramento delle condizioni del paese e dei ceti meno favoriti.
Così la stessa Banca Mondiale riconosce che il Brasile ha ridotto di tre quarti la povertà “cronica” del paese tra il 2004 e il 2012 e la situazione continua ancora oggi a migliorare. Tra il 2003 e il 2013 il reddito mediano è aumentato dell’87%. Solo il 4,9% dei brasiliani risultava senza occupazione ancora alla fine del settembre 2014.
La successiva epoca della Rousseff sembra caratterizzata, su molti fronti, da un livello di sviluppo molto più deludente: tra il 2011 e il 2013 l’aumento del pil si è collocato in media intorno al 2% annuo, mentre per quello in corso si prevede ormai una crescita intorno allo 0,5%. Intanto gli investimenti esteri, ma anche quelli nazionali, si sono ridimensionati e il mercato del lavoro, che ha continuato a mostrare una grande vivacità sino a pochi mesi fa, ora minaccia di bloccarsi. Il livello dell’inflazione si è fissato negli ultimi mesi intorno al 6,7% contro un obiettivo del governo del 4,5%. L’industria appare in grave difficoltà ed il pessimismo tra i consumatori sembra diffuso.
CHE COSA STA SUCCEDENDO?
Dalla parte degli ambienti economici e finanziari si accusa la Rousseff di aver seguito una politica di maggiore interventismo pubblico rispetto a quella precedente e si invoca come al solito un ridimensionamento del ruolo dello stato con le usuali misure di contorno.
Ma, come suggerisce il sociologo De Castries, il problema è un altro. Il fatto è che sino a qualche anno fa i forti e benefici interventi pubblici nell’economia sono stati finanziati con la crescita della domanda estera di materie prime e di prodotti alimentari, nonché dal forte aumento dei prezzi delle stesse materie prime sui mercati internazionali, trainato in particolare dalla domanda cinese. Più in generale, si stima che circa i tre quarti della crescita economica recente del continente latinoamericano sia attribuibile all’esportazione di commodities .
MA ORA I PREZZI DELLE STESSE E LA LORO DOMANDA SONO FERMI O IN DISCESA PER IL RALLENTAMENTO DELL’ECONOMIA CINESE.
La folla che è scesa nell’ultimo periodo nelle strade, composta sia di poveri che di ceto medio, continua a chiedere interventi dello stato per uscire dalla miseria da una parte, per ottenere scuole ed ospedali, trasporti pubblici migliori dall’altra, oltre che per combattere la corruzione; proprio alla vigilia delle elezioni è scoppiato così il grave caso della Petrobas, che coinvolge politici del partito del Presidente.
La spesa pubblica per la sanità si aggira oggi sul 2% del pil, quella per la scuola è relativamente più elevata, ma i risultati dello sforzo sono deludenti. La qualità dei servizi pubblici appare in generale molto bassa. Mentre tra il 2001 e il 2011 gli abbonamenti ai telefonini sono passati dal 16% addirittura al 125% della popolazione, la copertura delle case con adeguati sistemi di fognatura è aumentato solo dal 67 al 74%. Appena il 14% delle strade è asfaltato.
Lula era piaciuto sia ai lavoratori che ai capitalisti. Ai primi aveva portato occupazione, minimi salariali, facile accesso al credito, ai secondi basso livello di inflazione, bassi deficit pubblici, tassazione ridotta, mercati dei prodotti e servizi in espansione e consumatori solvibili. Ma ora la crescita langue e i ricchi non amano quella che vedono come una maggiore interferenza del governo nell’economia, accompagnata da basso sviluppo economico, nonché dall’aumento dell’inflazione e del deficit pubblico. Finiti i soldi delle materie prime, la sola soluzione che resterebbe per offrire al paese le infrastrutture che servono e un balzo in avanti del welfare sarebbe quella di tassare maggiormente le classi più agiate, mentre il regime di Lula si è caratterizzato per il fatto di non disturbarle troppo. E’ questo il passaggio chiave che il governo sarebbe chiamato a compiere e che forse non ha la forza politica di intraprendere.
Va sottolineato che una situazione analoga si registra peraltro in diversi altri paesi, emergenti e non. L’India avrebbe bisogno di enormi investimenti in infrastrutture e nei servizi del welfare di base e la stessa cosa si può dire per la Russia, ma nel primo e nel secondo paese le risorse fiscali sono scarse ed ora per quanto riguarda il secondo il prezzo del petrolio appare in discesa. La stessa Cina presenta un welfare molto elementare e una bassa incidenza del carico fiscale. Ma nessuno in questi grandi paesi si è azzardato, almeno sino ad oggi, a tassare di più i ricchi. E lasciamo da parte i fatti di casa nostra.
ALCUNE INIZIATIVE RECENTI DELLA ROUSSEFF – Da quando sono scoccate le proteste la situazione non è sostanzialmente migliorata. Il presidente, che intanto accusa il cattivo andamento dell’economia internazionale per il rallentamento del paese, ha cercato di fare molte cose, ma con scarso successo, almeno sino ad oggi.
La Rousseff ha spinto la banca centrale ad allargare le regole e a liberare risorse per le banche; ma per molti il problema non è quello dell’ offerta di credito, ma di mancanza di domanda da parte del sistema delle imprese, per scarsa fiducia nell’economia. Sempre la Rousseff ha aumentato la spesa pubblica con entrate che però si riducono. Essa ha lanciato, in particolare, un importante programma pluriennale di lavori pubblici già nel 2011, ma i lavori sono in forte ritardo anche a causa dell’inefficienza burocratica e della corruzione. Essa ha tentato personalmente di combattere quest’ultimo fenomeno con decisione, ma la malattia risulta molto diffusa anche all’interno della coalizione di governo e i risultati, dopo qualche successo iniziale, non si sono poi visti molto.
DOPO LE ELEZIONI – In un paese che in ogni caso avrebbe bisogno di grandi cambiamenti per tenere dietro ai nuovi dati della situazione internazionale e di quella interna, si trattava di scegliere tra due candidati che si presentavano con dei programmi sostanzialmente antitetici. Il primo, Neves, proponeva nella sostanza il ritorno al neoliberismo stile anni novanta del Novecento, con la riduzione della spesa pubblica e dell’intervento dello Stato, la messa in frigorifero dei temi sociali, una politica estera meno lontana da Washington; il secondo, la Rousseff, poteva mostrare buoni risultati sociali (pieno impiego, salari in crescita, una serie di programmi per le classi più diseredate), ma mediocri risultati economici (su pil, investimenti, inflazione), nonché cattiva gestione della macchina pubblica e gravi problemi di corruzione nei partiti di governo.
Non è certo un caso, su di un altro piano, che la Rousseff vinca nelle aree più povere, il nord ed il nord- est del paese, dove si concentra peraltro la popolazione nera e meticcia e Neves in quelle più ricche, il sud ed il sud est, a prevalenza bianca. Il paese appare così nettamente spaccato in due secondo linee non solo geografiche, ma anche razziali.
Ma, alla fine, la sofferta vittoria della candidata del partito dei lavoratori, che si trova, tra l’altro, a governare con una maggioranza più risicata di prima al Congresso, ha davanti a se un compito molto difficile, quasi da quadratura del cerchio; essa deve districarsi in mezzo ad una coalizione di governo molto rissosa e non esente, qua e là, da vasti fenomeni di corruzione, con la parallele necessità di far ripartire l’economia e quella di aumentare e rendere più produttiva la spesa pubblica, in carenza di risorse. La via d’uscita da tale situazione sembra molto stretta. Appaiono in ogni caso inevitabili dei forti aggiustamenti nella politica economica.

MESSICO
II 3 novembre Nino Villarreal, un generale responsabile della sicurezza del nord dello stato di Tamaulipas, è stato ucciso con la moglie su una strada vicino a Nuevo Laredo.

CILE
II 29 ottobre il comune di La Florida, a sud di Santiago, ha lanciato un progetto di coltiva-zione della marijuana a fini terapeutici. Il comune era stato autorizzato a coltivare 425 piante a settembre.

URUGUAY
II Frente amplio (sinistra, al potere) ha conservato la maggioranza in parlamento dopo le elezioni legislative del 26 ottobre.
URUGUAY
I club della marijuana / Il 31 ottobre il governo ha avviato la registrazione dei club dei coltivatori di marijuana, un altro passo verso la legalizzazione. L’Istituto di regolazione e controllo della cannabis (Ircca), scrive El Pais, ha stabilito che i club dovranno essere composti da un numero di persone compreso tra 15 e 45, e potranno coltivare fino a 99 piante ogni anno. Nell’agosto scorso era stata legalizzata la coltivazione privata delle piante di marijuana, fino a un massimo di sei. All’inizio del 2015 dovrebbe essere autorizzata la vendita nelle farmacie.

BOLIVIA
PROTEGGERE LE DONNE. Il 3 novembre il difensore civico boliviano Rolando Villena ha accusato il governo eie amministrazioni locali di non fare abbastanza per contrastare l’aumento delle violenze sessuali contro le donne e le bambine. Villena ha chiesto alle autorità di cercare di prevenire questi crimini invece di limitarsi a punire i responsabili, scrive La Razón. La presa Ui posizione di Villena segue alcuni recenti casi di femminicidio, ma soprattutto lo stupro e l’omicidio di una bambina di quattro anni a Palos Blancos. Secondo l’Organizzazione panamericana della sanità, la Bolivia ha il più alto tasso di violenze contro le donne del Sudamerica. Il 34 per cento delle minorenni boliviane ha subito abusi sessuali

COLOMBIA
Ammissione di colpa
Il 30 ottobre i ribelli delle Forze armate rivoluzionari è della Colombia (Fare) hanno ammesso per la prima volta che le loro attività hanno danneggiato la popolazione civile del paese. Il comunicato con l’ammissione di colpa è stato letto alla stampa da uno dei leader della guerriglia, "Pablo Atrato", durante i negoziati di pace in corso all’Avana, a Cuba. La dichiarazione, scrive El Espeetador, potrebbe aprire la strada ai risarcimenti a favore delle vittime delle violenze. Due giorni dopo le Fare hanno però negato di aver commesso crimini di guerra 0 contro l’umanità, precisando che i civili non sono mai stati colpiti intenzionalmente. Nell’agosto del 2013 le Fare si erano già assunte la loro parte di responsabilità per la morte di migliaia di persone durante il conflitto, limitandosi però ad ammettere gli attacchi contro l’esercito. I negoziati di pace tra il governo e le Fare sono cominciati nel novembre del 2012. Finora sono stati raggiunti accordi sullo sviluppo agricolo, sulla partecipazione politica degli ex ribelli e sulla lotta al traffico di droga, e sono in corso le trattative sulla consegna delle armi. Il conflitto, cominciato cinquant’anni fa, ha causato 22omila morti e 5,3 milioni di profughi

EQUADOR
Correa senza limiti
Il 31 ottobre la corte costituzionale dell’Ecuador ha autorizzato il parlamento a modificare la costituzione per permettere al presidente Rafael Correa al potere dal 2007, di ricandidarsi per un numero illimitato di mandati. La corte ha poi stabilito che non sarà necessario indire un referendum sugli emendamenti alla costituzione decisi dal parla-mento, dove il partito di Correa ha un’ampia maggioranza. L’opposizione ha definito la decisione della corte un attentato alla democrazia, scrive El Universo. La costituzione attuale prevede che il presidente possa essere rieletto solo una volta. Le elezioni si svolgeranno nel 2017.

AMERICA SETTENTRIONALE
USA
LA SCONFITTA DEI DEMOCRATICI Bhaskar Sunkara per Internazionale
IL 4 NOVEMBRE GLI STATUNITENSI hanno dimostrato di essere preoccupati per le disuguaglianze economiche votando a favore dell’aumento del salario minimo. Hanno confermato che il paese sta diventando più progressista sostenendo la legalizzazione della marijuana e il diritto all’aborto. Hanno anche votato per i repubblicani alla camera e al senato. Questa incoerenza sembra incredibile, anche se può essere attribuita alla scarsa affluenza alle urne e alla frammentarietà della politica statunitense. I motivi del successo dei repubblicani però sono facili da capire: Barack Obama è incapace di portare avanti il suo programma perché fin dai primi mesi della sua presidenza il Partito democratico ha perso il controllo degli organi legislativi. Ha guidato una ripresa economica più forte di quella dei paesi europei, ma che agli statunitensi sembra troppo debole. E la sua principale vittoria, la riforma sanitaria, sembra inadeguata e incomprensibile a molti. Inoltre l’ala destra del Partito repubblicano è determinata e organizzata. La sua base elettorale è quella tradizionale della destra statunitense: la classe media e i bianchi ricchi. Il 64*per cento dei maschi bianchi ha votato per i repubblicani. Ma stavolta a loro si sono aggiunte le donne. I democratici hanno ottenuto la maggior parte dei voti femminili, ma il vantaggio si è ridotto al 5 per cento rispetto all’n del 2012. I cambiamenti demografici dovrebbero garantire ai democratici di rimanere alla Casa Bianca. Le minoranze e le donne sono ancora dalla loro parte. Ma a livello locale il Partito repubblicano riesce a mobilitare meglio i suoi sostenitori. Quindi lo stallo politico potrebbe durare per anni, anche se Hillary Clinton dovesse vincere nel 2016.
Come si spiega, però, la contraddizione tra il successo delle proposte progressiste ai referendum e la vittoria dei reazionari alle legislative? Con la distanza tra quello che i democratici offrono e quello che la base vuole. C’erano pochi candidati di sinistra per cui entusiasmarsi. Le disuguaglianze non figurano tra le priorità di molti democratici. E, senza obiettivi capaci di mobilitare gli elettori, la logica del male minore non può bastare a spingere il parlamento verso il progresso.
(Bhaskar Sunkara è il direttore della rivista statunitense JacobinMagazine.)

STATI UNITI
Governatori repubblicani
Il 4 novembre il Partito repubblicano ha ottenuto un grande successo anche nell’elezione dei governatori di 36 stati. La destra, scrive il New York Times, ha vinto in due stati chiave per le presidenziali del 2016 come la Florida e il Wisconsin, grazie a Rick Scott e Scott Walker. Anche gli elettori di Ohio e Michigan hanno confermato i governatori uscenti John Kasich e Rick Snyder. Le note positive per i democratici sono state la conquista della Pennsylvania con l’uomo d’affari Tom Wolf e quella, dopo più di vent’anni, ‘ del Rhode Island con Gina Rai-mondo. Intanto, con un referendum nel Tennessee è stato ap-provato un emendamento che permette ai deputati locali di limitare l’aborto.

(Le principali fonti di questo numero: NYC Time USA, Washington Post, Time GB, Guardian The Observer, GB, The Irish Times, JacobinMagazine, Das Magazin A, Der Spiegel D, Folha de Sào Paulo B, Pais, Carta Capital, Clarin Ar, Le Monde, Le Monde Diplomatique ,Gazeta, Pravda, Tokyo Shimbun, Global Time, Nuovo Paese , L’Unità, Internazionale, Il Manifesto, Liberazione, Ansa , AGVNoveColonne, ControLaCrisi e INFORM, AISE, AGI, AgenParle , RAI News e 9COLONNE".)

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