11377 LA GABBIA APERTA DEL GENERE. Un altro mondo è possibile.

20141016 16:03:00 red-emi

1 – Un’intervista con la filosofa tedesca Heide Goettner-Abendroth. L’antropologa femminista è in Italia per presentare il suo importante volume «Le società matriarcali» Rispetto al senso comune che spesso confonde il matriarcato con un «domino delle madri», esiste una storia del concetto differente. Il termine matriarcato significa infatti «all’inizio le madri», dal più antico significato di arche che concerne l’interrogazione dell’origine, dell’inizio – sia della vita biologicamente intesa che della comunità sociale -, sottraendosi alla prevaricazione di un genere sull’altro.
2 – Viviamo, impariamo e combattiamo. Le donne di Kobane sul fronte delle contraddizioni / Forse è più facile schierarsi nella guerra quando la parte delle donne è quella di vittime, quando il loro corpo è un terreno di battaglia, quando si fanno mediatrici e ambasciatrici di pace, quando sono uno fra i molti generi che subiscono la discriminazione e l’oppressione fondamentalistica, quando possono essere guardate come la metafora di una vulnerabilità che unisce il genere umano e rivela le bellicose pretese di dominio del soggetto Maschio, Bianco e Occidentale, quando sono esotici soggetti post-coloniali. Forse è più difficile prendere parte alla guerra quando significa ammettere che le stesse che danno la vita possono toglierla a colpi di mortaio, che le stesse che incarnano la pace possono decidere di armarsi e andare al fronte, che le stesse che si prendono cura possono colpire, che le stesse che dovrebbero contestare il potere lottano per prendere potere e lo fanno come donne

1 – UN’INTERVISTA CONIA FILOSOFA TEDESCA HEIDE GOETTNER-ABENDROTH. L’ANTROPOLOGA FEMMINISTA È IN ITALIA PER PRESENTARE IL SUO IMPORTANTE VOLUME «LE SOCIETÀ MATRIARCALI» Alessandra Pigliarti
Rispetto al senso comune che spesso confonde il matriarcato con un «domino delle madri», esiste una storia del concetto differente. Il termine matriarcato significa infatti «all’inizio le madri», dal più antico significato di arche che concerne l’interrogazione dell’origine, dell’inizio – sia della vita biologicamente intesa che della comunità sociale -, sottraendosi alla prevaricazione di un genere sull’altro. Ciò perché il matriarcato non ha mai necessitato di sopraffazioni egemoniche sui viventi e ha avuto una esplicitazione storica ben diversa da quella del patriarcato.
È in questa stringente logica della definizione che vanno letti gli esiti assunti dai moderni «Studi Matriarcali» fondati alla fine degli anni Settanta dalla filosofa tedesca Heide Goettner-Abendroth e che risultano centrali nel dibattito contemporaneo internazionale sul tema. Rispetto agli studi precedenti, per la filoso-fa si tratta di osservare modelli sociali antichi (che dalla più nota forma sud-asiatica si sono diffusi in India, Persia, Egitto e nelle zone del Mediterraneo orientale, compresa la Grecia) e di verificare l’esistenza di società matriarcali che ancora persistono indicando pratiche ed elementi capaci di interrogare le attuali società occidentali.
Dotati di una salda struttura teorica e pratica, gli studi matriarcali sono dunque da considerarsi nella forma di ricerca socioculturale critica. Il primo approccio di Goettner-Abendroth risale al 1978, quando propone una metodologia per indagare i matriarcati, fondata sul doppio binario dell’interdiscipliurietà e della critica radicale all’ideologia patriarcale.
Nel suo primo lavoro del 1980, Die Gottin un Her Hiros {The Goddess and Her Hiros 1995) studia le trasformazione ricollocandola nelle diverse fasi storico –sociali e tuttavia un opera in più volumi Das Matriarchat comparsa tra il 1998 e il 2000, che approfondisce i modelli strutturali matriarcali sotto il profilo sociale, politico economico per estenderli a livello culturale.
La forma matriarcale di una società prevede un’economia bilanciata, cioè la distribuzione dei beni e la mutualità economica; a livello sociale, la discendenza matrilineare all’interno di un contesto di orizzontalità non gerarchica; infine, una forte inclinazione spirituale che attraversa ogni aspetto della vita e che poggia sul divino femminile.
Da qualche anno a questa parte gli studi matriarcali conoscono una fortunata ricezione anche in Italia grazie ad alcune associazioni di donne che instancabilmente portano avanti diverse iniziative e interessanti e utili libri, come Matriarché a cura di Francesca Colombini e Monica Di Bernardo.
Heide Goettner-Abendrofh è stata in Italia (Verona, Pistoia, Milano, Bologna, Torino e Bolsena) per discutere delle sue ricerche. Il 9 ottobre ha presentato il suo volume tradotto in italiano Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo (Venexia, pp. 712, euro 28) alla Casa internazionale delle donne di Roma e il giorno seguente, sempre nella stessa sede, ha tenuto un workshop con la partecipazione di Geneviève Vaughan, filosofa dell’economia del dono, e Cecile Keller, esperta di medicina matriarcale.

PERCHÉ PARLARE DI MATRIARCATO OGGI?
Le società matriarcali possono insegnarci a superare il distruttivo mondo tardo-patriarcale che stiamo vivendo oggi. Sono forme matricentriche che si fondano sull’uguaglianza tra i generi e sulla collaborazione tra le generazioni. In questo senso sono società egualitarie che non possiedono gerarchie né classi e nessun genere domina sull’altro; non sono un rovesciamento del patriarcato, come il solito errore di interpretazione prevedrebbe. Sono basate su valori materni come il prendersi cura, il nutrimento, la centralità del materno, la pace attraverso la mediazione e la non violenza; sono valori che valgono per tutti: per chi è madre e per chi non lo è, per le donne e per gli uomini. Il concetto matriarcale della centralità del materno non è corrisponde a quell’immagine romantica spesso veicolata dal patriarcato, di una finzione che svaluta i valori materni per farli apparire alla stregua di questioni sentimentali. Le società matriarcali, in linea di principio sono orientate verso il bisogno invece che verso il potere, sono più realistiche perché consapevoli del valore materno, che è molto più appropriato alla condizione umana rispetto al patriarcato che tende a sopprimere le donne, e in particolare le madri.

HA INSEGNATO ALL’UNIVERSITÀ MA IL DISCORSO SUL MATRIARCATO NECESSITAVA DI UNA RADICALITÀ POLITICA DIFFICILMENTE PERCORRIBILE DENTRO L’ACCADEMIA. QUAL È STATA LA SUA ESPERIENZA?
Dopo aver completato il mio dotto-rato di ricerca in filosofia all’Università di Monaco, ho lì insegnato filosofia della scienza per dieci anni. Poi ho lasciato il sistema universitario, perché avevo trovato un compito molto più importante e socialmente rilevante. Nel 1976, ho iniziato un lavoro pionieristico, insieme alle mie colleghe, fondando gli Women’s Studies in Germania, e in questo contesto ho presentato per la prima volta un’illustrazione della mia ricerca sulle società matriarcali. Avevo iniziato a sviluppare una teoria delle società matriarcali già da quando avevo 25 anni, utilizzando tutte le biblioteche delle diverse discipline e viaggiando molto per visitare diversi siti archeologici. Dal 1983 in poi, mi sono dedicata completamente a questo compito che non era riconosciuto da nessuna università in Germania e in Europa. Ma un altro pubblico era molto interessato: il mio libro ha segnato l’inizio della discussione sulle società centrate sulle donne e sul matriarcato nella seconda ondata del movimento femminista tedesco, per diffondersi successivamente in tutto il mondo grazie alle tante donne che si sono mostrate fortemente interessate.

PROPONE UNA METODOLOGIA PRECISA TRA TEORESI E PRASSI E RIPERCORRE BREVEMENTE ANCHE I PRIMI TENTATI¬VI «TRADIZIONALI» SUL MATRIARCATO. CHE COSA NON HA FUNZIONATO IN QUELLE ANALISI?
Ero ben consapevole che questo dibattito aveva avuto una lunga tradizione in Europa, andando indietro per quanto riguarda il lavoro dello storico della cultura JJ Bachofen, che è uscito nel 1861, e all’estero con la famosa opera antropologica di HL Morgan del 1851. Per più di un secolo, la discussione sul diritto materno e sul matriarcato ha proseguito: questo tema era stato usato e abusato da tutte le scuole intellettuali di pensiero, ognuna con il suo diverso e netto punto di vista. Quello che mi preoccupava di più di questa ricezione delle idee sul matriarcato era la totale mancanza di una chiara definizione della questione, la mancanza di una metodologia di sviluppo e soprattutto di un quadro scientifico teorico. Così è accaduto che l’immagine di essenza della donna in quel periodo si è insinuata nell’idea di matriarcato, e una quantità enorme di emozioni legate tuttavia all’ideologia patriarcale sono state coinvolte nella discussione. Questa combinazione di definizioni poco chiare, emotività eccessiva e pregiudizio patriarcale, si verifica ancora oggi quando si avviano riflessioni sull’argomento. Dopo aver intuito quanto l’argomento sia stato distorto, ho deciso di indirizzare la ricerca verso tutte le forme di società non patriarcali, sia passate che presenti, di definire quindi un moderno fondamento scientifico basato su una definizione nuova e adeguata di matriarcato. Questa è stata la creazione dei «moderni studi matriarcali», un nuovo campo di conoscenza che è critico dell’ideologia patriarcale.

IN CHE MODO IL MATRIARCATO PUÒ ESSERE CONSIDERATO UN MOVIMENTO DI LIBERAZIONE PER DONNE E UOMINI? HA IN MENTE PRATICHE PRECISE?
Sta diventando sempre più chiaro che questo modello culturale radicalmente diverso avrà grande importanza per il futuro delle donne, delle madri e degli uomini, cioè del genere umano in generale. Nella vita sociale, ciò significa sfuggire alla crescente frammentazione della società – laddove siamo trascinati verso il basso in uno stato di separazione e solitudine che ammala. Piuttosto, significa sviluppare strutture che promuovono diversi tipi di comunità intenzionali o di affinità, come comuni, alleanze di vicinato e reti sociali. Il principio matriarcale è che ciascuno dei gruppi basati su affinità politiche e di intenti è generalmente avviato, sostenuto e condotto da donne. I criteri determinanti sono le esigenze delle donne e dei bambini, che sono il futuro dell’umanità (rispetto alle aspirazioni di «potenza» e «virilità» degli uomini). Nei nuovi matriclan gli uomini saranno pienamente integrati, ma secondo un sistema di valori diverso, cioè quello basato sulla cura reciproca e l’amore.
L’economia quindi non potrà più rincorrere l’ulteriore aumento della grande industria, delle espansioni militari e del cosiddetto «livello di vita», perché verrà considerato il pericolo della completa distruzione della biosfera e della vita sulla terra. Ne deriva quindi una prospettiva alternativa; in combinazione con una economia del dono e di sussistenza locale e regionale che darebbe indipendenza economica alle persone. La qualità della vita ha precedenza sul concetto di quantità.

RICONOSCE LA MASSIMA IMPORTANZA DEGLI STUDI PORTATI AVANTI DAI RI-CERCATORI INDIGENI SULLE PROPRIE SO¬CIETÀ. COME È COMINCIATA QUESTA COLLABORAZIONE? Durante i miei numerosi viaggi ho incontrato persone provenienti da diverse società matriarcali ancora esistenti, e alcuni di loro sono studiosi che stanno facendo ricerche sulla propria società. Molti di loro apertamente chiamano le proprie società matriarcali, così come gli Irochesi del Nord America, i Minangkabau di Sumatra (Indonesia), e i Moso della Cina occidentale. I loro studi si intersecano con gli studi femministi in questo campo, e come le femministe, sono molto critici verso l’ideologia patriarcale che ha pesantemente distorto la comprensione della loro società.

HA VISITATO I MOSO NEL SUD-OVEST DELLA CINA. COME È STATO INCON¬TRARLI?
È stato magnifico incontrare perso-ne che vivono ancora pienamente le loro tradizioni matriarcali. Sono ben consapevoli che i modelli patriarcali stanno lavorando a danno delle donne in Cina. Così, la maggior parte dei Moso – come altri popoli matriarcali – tengono strette le loro tradizioni, anche se sono pesantemente oppressi dal governo cinese centrale. La mia amicizia con loro e con altre donne e uomini matriarcali ha proseguito nel corso degli anni. Uno dei risultati è stato la realizzazione di tre grandi congressi, dove hanno presentato il loro modo di vivere. Così, nel 2003, il primo congresso mondiale sui moderni studi matriarcali ha avuto luogo in Lussemburgo e ha riunito per la prima volta studiosi internazionali e indigeni, che fino a quel momento avevano lavorato sul tema in un certo isolamento. Nel 2005, il secondo congresso mondiale ha avuto luogo negli Stati Uniti, e ha riunito un maggior numero di studiosi matriarcali indigeni arrivati dall’Asia, dall’Africa e dalle Americhe. Il terzo grande congresso, svoltosi nel 2011 in Svizzera, è stato dedicato alla Politica Matriarcale, e studiosi occidentali, indigeni e attivisti politici si sono incontrati per discutere di pratiche basate sui risultati delle conferenze precedenti, per rendere la saggezza matriarcale uno stile di vita fruibile per il pre-sente. In questo modo, insieme a eccellenti donne e uomini impegnati in tante parti del mondo, il paradigma matriarcale ha cominciato a circolare e continua a svilupparsi. Si tratta di una prospettiva completamente nuova della società e della storia. Tutti i contributi di questi congressi sono stati pubblicati in inglese nel libro Societies of Peace (2009) e su web:
www.kongress-matriarchatspolitikxh.

Nota
NO I «WOMEN’S STUDIES» FUORI L’ACCADEMIA. Filosofa tedesca, femminista e ricercatrice indipendente, Heide Goettner-Abendroth si è formata a Monaco dove in seguito ha insegnato per dieci anni. Ha tenuto corsi universitari a Brema, Amburgo, Kassel, Montreal e Innsbruck. Fondatrice dei moderni studi matriarcali, dal 1976 si occupa insieme ad altre di Women’s studies. Nel 1986 fonda in Germania la International Academy HAGIA (www.hagia.de), centro di ricerca di studi matriarcali di cui è tuttora direttrice. Tra suoi volumi sono importanti quelli che compongono «Das Matriarchat» (1988-2000). Sono apparse anche traduzioni in inglese di «Die Góttin und ihr Heros» (1980) ora «The Goddess and Her Heros» (1995); «Die tanzende Gòttin» (1982) ora The Dancing Goddess (1991). Al momento «Le società matriarcali» («Matriarchat Societies») è l’unico titolo tradotto in Italia.

2 – VIVIAMO, IMPARIAMO E COMBATTIAMO. LE DONNE DI KOBANE SUL FRONTE DELLE CONTRADDIZIONI

Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 16 ottobre 2015 con il titolo Le armi della libertà femminile

In una recente intervista dal fronterealizzata dalla reporter australiana Tara Brown, una donna combattente curda delle YPJ (Unità di protezione delle Donne) ha dichiarato che lo Stato Islamico è un nemico dell’umanità. Per lei e per le donne della sua brigata Kobane è il confine globale che separa la civiltà dalla barbarie. C’è qualcosa di spiazzante in queste parole perché sono le stesse che, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, hanno preteso di giustificare una guerra combattuta senza frontiere, dall’Afghanistan all’Iraq alle periferie delle città americane ed europee, in nome della «duratura libertà» di un Occidente minacciato dal terrorismo globale. Ma è altrettanto spiazzante il radicale cambiamento di prospettiva che impongono il contesto e la posizione di chi parla: se ci muoviamo dalle stanze blindate del Pentagono a una terra di passaggio in Medioriente non abbiamo più davanti un manipolo di uomini che pretende di guidare una guerra giusta per la libertà – anche quella delle donne oppresse dall’integralismo talebano –, ma donne protette soltanto da sottili muri di pietra e dalle proprie armi che combattono per liberare se stesse. Quest’osservazione, però, non basta a quietare il senso di spiazzamento. È davvero sufficiente che sia una donna a pronunciare quelle parole per cambiare il loro significato, per rovesciare un discorso che ha veicolato gerarchie e oppressione e per trasformarlo in una canzone per la libertà? Il fatto che siano le donne a imbracciare le armi è sufficiente a farci rinunciare al pacifismo che abbiamo sostenuto di fronte all’invasione statunitense dell’Afghanistan, a farci riconoscere le ragioni della guerra?
Le fila delle Unità di protezione del popolo contano 45mila unità, il 35% sono donne. Quasi 16mila guerriere contraddicono praticamente ogni legame sostanziale tra il sesso, la guerra o la pace. Si tratta, per la maggior parte, di curde siriane, ma ogni giorno nuove combattenti provenienti dalla Turchia e dalla Siria, non soltanto curde, si uniscono alle YPJ. Un detonatore per questa ondata di reclutamenti è stata la presa del Sinjar da parte dello Stato islamico, lo scorso 3 agosto. Migliaia di donne curde yezidi sono state catturate. Quelle che non sono state uccise per essersi ribellate o aver tentato di fuggire e quelle che non si sono uccise per scampare al proprio destino sono state stuprate, ridotte in schiavitù e vendute a combattenti ed emiri al solo scopo di soddisfare le loro esigenze sessuali e la necessità di produrre e allevare martiri jihadisti. Centinaia di bambini sono stati catturati e rinchiusi in scuole coraniche per essere trasformati in combattenti. Dietro all’odio sfrenato dell’IS nei confronti delle donne – obbligate da norme ferree che regolano il loro abbigliamento e limitano la loro mobilità, che le dichiarano «disponibili allo stupro» – c’è la loro riduzione a strumenti di riproduzione di un ordine violentemente patriarcale secondo una logica che, per quanto estremizzata e connotata confessionalmente, ha un carattere terribilmente globale.
A Kobane si sta perciò combattendo una «guerra di posizione» e questa definizione non ha nulla a che fare con le strategie militari. Il fatto è che in gioco c’è anche il posto che le donne occupano nel mondo e per questo le guerriere delle YPJ sono orgogliose di avere imbracciato le armi, come lo sono le loro madri organizzate nel gruppo Şehîd Jîn’. L’etica della cura di cui queste donne sono portatrici assume forme del tutto impreviste per chi, da questa parte del mondo, fa della cura qualcosa che riguarda la vita e che, per sua natura, nega la guerra. A Kobane, però, la guerra è la scelta obbligata per chi intende curarsi della propria vita e della propria libertà, della vita e della libertà dei propri compagni e compagne, della propria regione, delle proprie idee. Intervistata da Rozh Ahmad, che ha realizzato un bellissimo documentario dal fronte della Rojava, la madre di una combattente, che indossa il velo, racconta: «due delle mie figlie sono andate via nella stessa settimana. Una è entrata nelle YPJ, l’altra si è sposata. Per fortuna non mi preoccupo per quella che è nelle YPJ. Hanno buone idee e per noi è un onore avere una figlia nelle loro fila. La mia figlia sposata sta bene, ma sono ancora preoccupata per lei». Questa madre non dice quale sia la sua preoccupazione, ma possiamo immaginarlo dal racconto della sua figlia combattente: «la nostra società guardava le donne solo come buone casalinghe, le donne erano fatte su misura per gli uomini e rinchiuse in casa come schiave. Ora abbiamo appreso questa realtà amara. Ora siamo cambiate: viviamo, impariamo e combattiamo. Siamo soldatesse ora […] viviamo pienamente la nostra diversità».
Le donne combattenti di Kobane, in primo luogo, sono diverse da ciò che sono state. Le armi hanno segnato un cambiamento decisivo rispetto all’inesausta continuità della tradizione e forse anche rispetto alla «Carta del contratto sociale» della Rojava, che alle donne garantisce l’uguaglianza e la partecipazione attiva a ogni organo di autogoverno. Si tratta di un cambiamento che è dovuto, in una certa misura, alla spinta politica del PKK, nella cui «ideologia» si riconosce pienamente l’Alto consiglio delle donne del movimento di liberazione del Kurdistan. Come spiega Handan Çağlayan, la persistenza di consuetudini come il namus, l’obbligo di sorvegliare i corpi, i comportamenti e la sessualità delle donne da parte degli uomini, costituiva un grosso limite alla mobilitazione di massa in favore della causa curda. Il nesso stabilito da Öcalan tra la liberazione delle donne e la rivoluzione sociale (Woman and Family Question, 1992) non può comunque essere letto esclusivamente alla luce delle «strategie di mobilitazione», ma deve essere considerato allo stesso tempo una risposta a un massiccio protagonismo delle donne, anche nella guerra, a partire dalla fine degli anni ’80. Inoltre, il mancato riconoscimento della minoranza curda da parte della Siria ha prodotto nelle donne un sentimento di oppressione e, con esso, il senso della possibilità e della necessità della ribellione. Lo racconta chiaramente a Rozh Ahmad una delle combattenti intervistate: «noi ragazze curde eravamo costrette a parlare arabo tra di noi a scuola. Noi curdi eravamo oppressi, lo Stato controllava completamente le nostre vite. Ma ci siamo sempre ribellati contro tutto questo». Al di là dell’identificazione di queste donne con la causa curda c’è, però, qualcosa di più. Una di loro racconta che, secondo alcuni, le combattenti «sono tagliate fuori dalla vita sociale» perché hanno preso le armi. A loro risponde con orgoglio che, assieme alle sue compagne, ha «una vita molto più ricca di quello che loro possono pensare». Con orgoglio un’altra afferma che alcuni uomini, che non hanno avuto il coraggio di combattere, abbassano la testa al loro passaggio. Benché ciò passi in secondo piano rispetto all’impressionante resistenza che stanno opponendo all’IS, sembra che queste donne stiano portando avanti anche una battaglia sul fronte interno per affermare il loro diritto a conquistarsi la libertà.
È stata la partecipazione alla guerra che le ha portate a sentirsi uguali. Contro ogni retorica nazionalistica costruita sulla «difesa delle nostre donne», le guerriere delle YPJ hanno preso a difendere se stesse e hanno accettato il rischio di morire, senza per questo avere una felice propensione al martirio. Contro l’incredulità dei loro padri e dei loro fratelli che dubitavano della loro forza e ben oltre il formale riconoscimento della loro uguaglianza espresso nella costituzione della Rojava, queste donne hanno dimostrato di avere non solo la forza, ma anche il coraggio. A loro non piace la guerra, a loro non piace uccidere, a loro non piacciono le armi e lo ripetono nelle loro interviste. Una combattente racconta che pulire il suo fucile non era poi così difficile, ma per sparare ha dovuto superare la paura. Ognuna di queste donne ha combattuto prima di tutto contro una parte di sé, la propria «passività», come la chiama qualcuna, l’ignoranza di che cosa possa significare «essere una donna», per andare sul fronte di Kobane. Nessuna di loro era già libera, ciascuna di loro ha dovuto conquistarsi un pezzo di libertà.
Convinte che la guerra e la pratica della violenza non siano proprie delle donne, alcune potrebbero arrivare a negare che queste donne siano davvero tali. È già accaduto di fronte alle immagini di Lynndie, la fiera torturatrice di Abu Grahib. Tra lei e le combattenti della Rojava c’è un abisso, ma in entrambi i casi è chiaro che vi sono molti modi di stare al mondo come donne, al di là di qualsiasi destino tracciato dall’ordine simbolico del padre o da quello della madre. Convinte che l’uguaglianza non sia altro che l’espressione politicamente corretta del perpetuarsi di un potere sessuale sulle donne, altre potrebbero vedere in queste guerriere la riproduzione di un «modello maschile» di autonomia. Eppure, queste combattenti sono donne e per le donne combattono, contro una schiavitù che non indossa solo le maschere nere dell’IS e del suo fondamentalismo, ma che, come ricorda una di loro, arriva in Europa nelle vesti accettabili e colorate del capitalismo. Forse, allora, non è la storia di queste donne a essere inadeguata rispetto alle alte vette della libertà femminile. Forse sono i discorsi che donne e femministe hanno a disposizione a non essere all’altezza della storia delle combattenti di Kobane. Non si tratta, evidentemente, di fare della lotta armata il paradigma di ogni percorso di liberazione, né di dimenticare quanta oppressione e quanto sfruttamento passano per l’uguaglianza formale. Non si può neppure ignorare, però, che mentre rivendicano di essere «una brigata di sole donne che vivono in modo completamente indipendente», combattendo al fianco dei loro compagni sul fronte queste donne rivendicano e praticano l’uguaglianza e insegnano qualcosa agli uomini. C’è, in questo, qualcosa di profondamente sovversivo, che forse non sarà decisivo dal punto di vista militare ma senz’altro lo è dal punto di vista politico. Duemila donne, miseramente equipaggiate e con scarso appoggio internazionale, danno un contributo fondamentale alla difesa di una città asserragliata da novemila jihadisti ben armati. La loro forza – come ha ricordato la combattente delle YPJ Xwindar Tirêj – non è nei fucili ma nella determinazione. Certo, anche i loro compagni sono determinati, ma nell’uguaglianza femminile c’è qualcosa di più. È il volto e il corpo di quella determinazione a terrorizzare i combattenti dello Stato islamico convinti che, se saranno uccisi da una donna, non andranno in paradiso.
Così, mentre i miliziani dell’IS aspirano al paradiso, le donne di Kobane pretendono di portarlo sulla terra e, nel farlo, pongono domande davvero scomode al di qua di Kobane. Forse questo spiega il muto e fragoroso silenzio di molte donne e femministe di fronte a questa guerra e al ruolo delle Unità di protezione delle donne. Forse è più facile schierarsi nella guerra quando la parte delle donne è quella di vittime, quando il loro corpo è un terreno di battaglia, quando si fanno mediatrici e ambasciatrici di pace, quando sono uno fra i molti generi che subiscono la discriminazione e l’oppressione fondamentalistica, quando possono essere guardate come la metafora di una vulnerabilità che unisce il genere umano e rivela le bellicose pretese di dominio del soggetto Maschio, Bianco e Occidentale, quando sono esotici soggetti post-coloniali. Forse è più difficile prendere parte alla guerra quando significa ammettere che le stesse che danno la vita possono toglierla a colpi di mortaio, che le stesse che incarnano la pace possono decidere di armarsi e andare al fronte, che le stesse che si prendono cura possono colpire, che le stesse che dovrebbero contestare il potere lottano per prendere potere e lo fanno come donne. Mentre ridono e sparano, mentre riposano e danzano con tute mimetiche e foulard colorati, le donne combattenti di Kobane sembrano indicare il punto in cui ogni discorso formulato fin qui da donne e femministe rischia di sbriciolarsi sul fronte delle contraddizioni. Per questo, piuttosto che trincerarsi nel silenzio, vale forse la pena ascoltare e provare a capire la posta in gioco globale della guerra delle donne di Kobane ( EL MANIFESTO 16 OCT 2014 di Paola Rudan ).

 

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