11367 45. NOTIZIE dall’ITALIA e dal MONDO 11 Oct 2014

20141012 23:46:00 red-emi

ITALIA – Terra di Schengen, terra di Bosman. Mentre tutti più o meno sanno a cosa ci si riferisce citando Schengen, quanto al nome Bosman, una parte del pubblico, soprattutto di genere femminile, non sa proprio cosa significhi. Risolviamo almeno questa piccola incognita.
MONDO – Chi è il magnate cinese che sta comprando l’artico. Il suo nome è Huang Nubo e sta facendo man bassa di terreni nella regione più contesa.
EUROPA – Il prezzo della salute. È una questione che pensavamo si limitasse ai paesi in via di sviluppo
AFRICA & MEDIO ORIENTE – PALESTINA /L’ESEMPIO SVEDESE .La Svezia è il prima riconoscere lo stato palestinese, scrive Al Hayat. / M.O. Il neocolonialismo dei jihadisti. La propaganda dei miliziani dello stato islamico ricicla molti stereotipi orientalisti. E spesso serve solo a mascherare un desiderio di arricchirsi che ha poco a che vedere con l’islam
ASIA & PACIFICO – COREA DEL NORD. Chi comanda a Pyongyang – Il futuro dell’Afghanistan . L’insediamento di Ashraf Ghani come nuovo presidente dell’Afghanistan dopo un’elezione molto discussa è un’occasione per fare qualche previsione sul futuro del paese
AMERICA CENTROMERIDIONALE – BOLIVIA. Evo Morales verso la vittoria/ Il 12 ottobre i boliviani sono chiamati alle urne per eleggere il presidente e rinnovare il parlamento./ BRASILE. Per la quarta volta consecutiva il Partito dei lavoratori (Pt) del Brasile deve andare al ballottaggio per vincere le elezioni presidenziali o paese europeo, se si escludono quelli dell’ex blocco socialista,
AMERICA SETTENTRIONALE – L’America brinda, ma una nuova crisi è in arrivo Nonostante la ripresa americana, il debito mondiale cresce ed è sempre meno sostenibile

ITALIA
TERRA DI SCHENGEN, TERRA DI BOSMAN. MENTRE TUTTI PIÙ O MENO SANNO A COSA CI SI RIFERISCE CITANDO SCHENGEN, QUANTO AL NOME BOSMAN, UNA PARTE DEL PUBBLICO, SOPRATTUTTO DI GENERE FEMMINILE, NON SA PROPRIO COSA SIGNIFICHI. RISOLVIAMO ALMENO QUESTA PICCOLA INCOGNITA. Molte persone che abbiamo sentito erano a favore del sì nel referendum scozzese, tranne forse qualche scozzese. Mentre questi ultimi, highlander dell’uno e dell’altro parere, avevano ben chiara la loro preferenza, se si chiedeva agli altri, ai forestieri, da che parte stessero, tanti di loro tergiversavano, seminavano dubbi, in sostanza non offrivano mai una risposta chiara. Una risposta possibile esiste e la si leggerà alla fine di questo articolo. Per tornare alla politica, Jacopo Rosatelli ha analizzato con acume la politica di Rajoy, il premier di Madrid. Si può dire che l’esito scozzese per ora gli consente di rimandare a tempi migliori la soluzione del problema catalano. Se le ragioni di Madrid sono opportunistiche, anche le ragioni di chi vuole rompere non sono più disinteressate. Anna Maria Merlo ha ricordato i motivi che spingono parte degli abitanti di una regione più ricca a tagliare i ponti (o a cercare di farlo) con la parte più debole della nazione comune. Si tratta in pratica di gente convinta di pagare troppo la spesa pubblica, mantenendo gli altri, quelli scansafatiche. Vi saranno certamente diversi motivi, storici e religiosi, ideali e linguistici; per esempio vi sarà pure uno scozzese o un abitante di Barcellona di idee repubblicane che dunque non gradisce il re o la regina sopra di sé? Oppure, se si guarda al caso dell’Ucraina di cui scrive Vincenzo Convito, collocandolo nelle diatribe storiche tra Usa e Urss (oops!, Russia) è proba-bile che nelle maglie dei secoli vi sia, in Crimea e nel Donesk, gente che parla in russo, prega in russo brinda in russo e vorrebbe continuare a farlo, senza per questo dover mitragliare i civili o perdere la testa. C’è poi perfino qualcuno che ap-prezza l’Europa dell’Unione, con tutti gli inconvenienti che si porta dietro, come l’euro, per non parlare d’altro. Noi ci permettiamo di indicare due modi di essere filo europei, quelli scritti nella prima riga; Schengen e Bosman. Mentre tutti più o meno sanno a cosa ci si riferisce citando Schengen, quanto al nome Bosman, una parte del pubblico, soprattutto di genere femminile, non sa proprio cosa significhi. Risolviamo almeno questa piccola incognita. Jean Marc Bosman è un calciatore belga che non trovando posto nella sua squadra ha concordato un ingaggio con la squadra francese del Dunkerque. La squadra belga ha negato il passaggio e Bosman ha fatto causa – una causa europea – contro la federazione belga e tutti gli altri poteri. Correvano gli anni novanta. Bosman ha vinto la causa e ora i giocatori di calcio comunitari che prima erano soggetti a un contingentamento, possono trasferirsi in ogni altro paese d’Europa, se il contratto scade. Quello che più conta è che possono entrare in una squadra di un altro paese dell’Unione senza limiti di numero. La decisione della Corte europea ha fatto diritto e vale non solo per tutte le discipline sportive, ma è stata recepita nella Carta d’Europa e sancisce il diritto di lavoro all’interno dell’Unione per tutti i cittadini , sportivi non sportivi che siano. . La “ legge “ Bosman vale per tutti. Il diritto di lavoro in ogni paese dell’Unione è una conquista che le giovani generazione stanno imparando ad usare. «Con pochi rimpianti, molti giovani se lo ripetono, se non trovo lavoro e salario per vivere qui, dove sono nato, li cerco altrove, nella speranza di avere più fortuna, ricevere una paga migliore, un orario meno faticoso, una casa decente. Intanto imparo qualcosa che non sapevo, una lingua, una canzone, un piatto tipico e conosco altre persone, diverse da me, uguali a me. » «Intanto viaggio», per trovare il posto giu-sto, il lavoro possibile. Per fortuna che c’è Schengen che mi permette di andare su e giù per gran parte d’Europa, perfino in Svizzera, che non fa parte dell’Unione. Schengen ormai è un pezzo del modo di essere dell’Europa, una forma, distorta fin che si vuole, della libertà di andare e di tornare, di viaggiare e di imparare. E’ per via di Schengen che l’Europa è diversa dalle altre parti del mondo. Tutti conoscono la libertà di Schengen, finché dura. Così arrivano nell’Unione europea, in qualche periferia – Italia, Grecia, Spagna, il simbolo di questa frontiera è Lampedusa – migliaia di africani e di asiatici che poi appena possono saltano su un treno e attraversano qualche altra frontiera, alla ricerca di un punto d’appoggio, una famiglia, un lavoro. Ed ecco la risposta, la mia risposta. Rinunciare alla Scozia sarebbe stato come ridurre il nostro territorio, avere un po’ meno Europa, tagliare via un pezzo di libertà. ( di Guglielmo Ragozzino )

MONDO
CHI È IL MAGNATE CINESE CHE STA COMPRANDO L’ARTICO Il suo nome è Huang Nubo e sta facendo man bassa di terreni nella regione più contesa. Nella Polar Rush il nome di Huang Nubo è il più altisonante. Il magnate cinese infatti è diventato un simbolo della corsa all’acquisto di terreni nella zona artica, ricca di risorse che si stanno rendendo via via più accessibili, grazie allo scioglimento progressivo dei ghiacci. Una partita in cui tutte le potenze del mondo si stanno confrontando e in cui la Cina, che territorialmente non può vantare alcun diritto, è in prima linea grazie proprio a Nubo.
CHI È HUANG NUBO. Più che un magnate, sembra uno dei personaggi creati da Ian Fleming, il padre di 007: 58 anni, poeta, scalatore, ex responsabile della propaganda del partito comunista cinese e miliardario. Il profilo perfetto per rapprensetare la cina nella corsa per un posto al sole artico. Ma, se chiedete a Nubo perché sta comprando appezzamenti di ghiaccio, lui vi risponderà candidamente che il suo obiettivo è costruire resort e campi da golf. Ma sotto il ghiaccio c’è di più.
L’OBIETTIVO CINESE. “L’Artico è di tutti," ha affermato l’ammiraglio Yin Zhu, stratega dell’occupazione cinese delle nuove vie d’acqua polari. "e noi abbiamo un quinto della popolazione mondiale, quindi rivendichiamo i nostri diritti a ogni costo”. La conquista di questa regione terrestre apporterebbe notevoli vantaggi commerciali. Infatti, percorrendo queste rotte, i tragitti che i mercantili e portacontainer fanno per arrivare dall’Asia all’Occidente sarebbero dimezzati.
SHOPPING NORVEGESE. Nubo è giunto alle isole Svalbard, l’arcipelago norvegese situato tra il Polo Nord e il continente. Il governo di Oslo potrebbe soffiargli l’affare solo con una controfferta superiore al miliardo di euro. Il territorio è grande due volte e mezzo Manahattan, anche se completamente disabitato e strapieno di carbone, nascosto nel sottosuolo.
L’ISLANDA. I ghiacci piacciono molto a Nubo che l’anno scorso aveva preso di mira l’Islanda e, per la precisione, 300 chilometri di regione a nord est, inospitale, inabitabile, il posto meno adatto a un campo di golf. Si è presentato nei panni di direttore dell’associazione dei poeti cinesi e ha offerto un milione di euro per organizzare un festival di poesia cino-islandese. Ma i legami di Nubo con il governo di Pechino hanno fatto drizzare le antenne islandesi, che hanno fatto valere la legge che regola l’acquisto di proprietà da parte di stranieri. Se Nubo fosse riuscito ad accaparrarsi la regione islandese, era già pronto un progetto per realizzare resort, golf club, boreale completo di aeroporto e porto in uno dei fiordi più protetti dell’isola, anche perché privo di ghiacci grazie all’azione della corrente del Golfo.
COME CONFIDA ORRI VIGFÚSSON, il magnate islandese amico di Al Gore e famoso per le sue campagne per proteggere il salmone nei fiumi artici, "L’Islanda, ma anche le Svalbard, diventeranno una specie di autogrill, uno stop obbligato, lungo l’autostrada marittima che collegherà l’Asia con l’Occidente".
LA NORVEGIA. Qui Nubo ha già fatto acquisti, aggiudicandosi cento ettari di costa a Lyngen. In più ha anche firmato un accordo preliminare per aggiudicarsi un ampio tratto di costa a nord di Tromsø. La cifra spesa si aggira intorno ai cento milioni di euro. Secondo Willy Østreng, presidente dell’Accademia scientifica norvegese per le ricerche polari la Cina "è determinata ad avere accesso alle risorse e gestire il traffico marittimo delle nuove rotte sempre più praticabili grazie allo scioglimento dei ghiacci". Ad oggi infatti è sparito il 50% del ghiaccio dell’oceano artico.
LE RICERCHE CINESI. Il governo cinese si è attrezzato anche di un centro studi artico che è presto diventato il più importante al mondo. Ha sede a Shangai ed è da qui che partiranno 200 esperti a bordo dello Xue Long (Dragone di Neve), il rompighiaccio pià grande al mondo. Del resto la Cina ha ottenuto lo scorso anno lo status di Paese osservatore al Consiglio Artico. Tra gli altri membri ci sono anche Italia, Usa, Russia, Canada Norvegia. Oggi questo Consiglio sta giocando una partita importante: “Le nazioni artiche cercano d’imporre una moratoria e impedire l’ingresso nello stretto di Bering alle flotte internazionali", dice Orri "soprattutto Cina, Giappone e Corea del Sud, per poter studiare la situazione”.
LA NUOVA AUSTRALIA. Secondo l’United States Energy Information Amministration la regione artica contiene il 13 per cento delle risorse petrolifere e il 30 per cento di quelle di gas naturale ancora non sfruttate nel mondo: un bottino niente male che fa gola, molta gola, tra gli altri ai russi. Secondo l’ex primo ministro islandese Johanna Sigurdardottir la Groenlandia sarà "la prossima Australia". Diamanti, rubini, oro, uranio, ferro, ma soprattutto acqua: è questo l’obiettivo principale della Cina, il cui Pil dipende per il 50% dal commercio marittimo. Con l’apertura dei passaggi marini artici, il tragitto si accorcerebbe di oltre 4.000 miglia, quasi la metà rispetto al tragitto percorso con la navigazione de canale di Suez. Secondo il governo cinese, passando per le acque artiche, si risparmierebbero 120 milioni di euro all’anno. E se i ghiacci continuano a sciogliersi a questo ritmo, la navigazione potrebbe diventare talmente lineare da passare attraverso il Polo Nord. E allora i resort che Nubo ha in mente non sarebbero poi così utopistici

EUROPA
IL PREZZO DELLA SALUTE / È UNA QUESTIONE CHE PENSAVAMO SI LIMITASSE AI PAESI IN VIA DI SVILUPPO. MA L’ARRIVO DI UN NUOVO MEDICINALE CONTRO L’EPATITE C, IL SOVALDI, L’HA PORTATA AL CENTRO DEL DIBATTITO POLITICO FRANCESE. Lo stato ha i mezzi per fornire questo farmaco rivoluzionario a chi ne ha bisogno? La risposta è no, almeno non al prezzo richiesto dal suo produttore, la statunitense Gilead: 18.500 euro per una scatola, poco meno di 56mila euro per un trattamento di 12 settimane. Anche limitandone la prescrizione ai malati più gravi, la spesa supererebbe presto il miliardo di euro.
Per spuntare un prezzo ragionevole, il governo ha scelto le maniere forti: preleverà una tassa sulle vendite di tutti i farmaci per l’epatite C se verrà superata una certa soglia di spesa. Finora le case farmaceutiche che impongono prezzi elevati l’hanno sempre avuta vinta. Per le malattie del sistema immunitario o per rare forme di tumori, la Francia ha sborsato anche decine di migliaia di euro all’anno per paziente. Nel caso dell’epatite C però non si parla più di duemila pazienti, ma di 200mila. La Francia non è l’unica a interrogarsi sulla questione. A giugno quindici paesi europei si sono alleati per chiedere alle case farmaceutiche di abbassare i prezzi. L’iniziativa non ha dato grandi risultati, ma dimostra che in futuro gli stati saranno sempre più spesso costretti a mettersi d’accordo per avere più potere sulle aziende.
Il dibattito è appena cominciato. Nella lotta ai tumori, i progressi della ricerca sono accompagnati da un’impennata dei prezzi. Per ora le nuove terapie, che costano fino a centomila euro e riguardano solo pochi pazienti, vengono rimborsate dalla sanità pubblica. Ma cosa succederà quando ogni malattia rara avrà la sua cura? La questione riguarda anche i medicinali più diffusi e costosi, per i quali esistono generici a buon mercato. Lo stato continua a inventare sistemi per indirizzare le prescrizioni dei medici, e non rispetta le stesse regole che ha fissato. I pazienti vivono con angoscia questa incertezza. Il caso Sovaldi deve aprire una riflessione seria sul prezzo che siamo disposti a pagare per salvare una vita. Le Monde, Francia

UCRAINA
ELEZIONI E VIOLENZE
Nonostante la tregua, nell’est dell’Ucraina le violenze proseguono e aumentano le vittime tra la popolazione civile. I combattimenti si concentrano intorno all’aeroporto di Donetsk, il cui controllo è di particolare rilevanza strategica. Secondo il sito russo Politcom, le violazioni del cessate il fuoco non sono da attribuirsi alle leadership delle due parti in gioco: "Né il presidente ucraino né i leader politici dei separatisti sono interessati a proseguire i combattimenti: Petro Porosenko teme una sconfitta alle elezioni del 26 ottobre, mentre i filorussi temono che l’ala militare possa prendere il sopravvento e organizzare un colpo di stato

LETTONIA
FIDUCIA AL GOVERNO
Le elezioni legislative lettoni del 4 ottobre hanno due vincitori: la coalizione di governo, guidata dalla premier Laimdota Straujuma, e il partito filorusso Centro dell’armonia. Il partito di Nils Usakovs è stato infatti il più votato, anche se ha perso sette seggi rispetto al 2011. Tuttavia, spiega il quotidiano Latvijas Avize, il presidente Andris Bèrzins dovrebbe rinnovare l’incarico a Straujuma: il blocco di centrodestra che la sostiene (il partito Unità, Alleanza nazionale e l’Unione dei verdi e dei contadini) ha una maggioranza di 61 seggi. Secondo MladaFronta Dnes, il voto lettone ha avuto un’importanza particolare perché, da quando la crisi ucraina si è aggravata, il paese vive nella paura di cadere vittima della politica estera russa. È stato proprio questo timore, scrive il giornale ceco, che ha spinto i cittadini a confermare la fiducia al governo nonostante le sue politiche di austerità. Tuttavia, sottolinea il sito lettone TVnet, "Usakovs è riuscito a guadagnare la fiducia di quei lettoni che vogliono vivere in uno stato di isolamento e che sostengono il progetto del Centro dell’armonia di fare della Lettonia un satellite dell’impero di Putin. È la conferma che nel paese molti sognano di tornare ai tempi dell’Unione Sovietica".

BULGARIA
LA SPUNTA BORISOV
Una vittoria del partito di destra Gerb, dell’ex premier Bojko Borisov : è stato il prevedibile risultato del voto bulgaro del 5 ottobre. Del tutto inatteso è invece il numero dei partiti che hanno superato la soglia di sbarramento del 4 per cento, in tutto otto, un dato che rende molto complicata la formazione di una maggioranza stabile. I socialisti (Bsp) hanno subito un tracollo e sono stati quasi raggiunti dal Dps, il partito vicino alle minoranze turca e rom. Le forze di estrema destra, il Fronte patriottico e Ataka, hanno ottenuto risultati superiori alle attese, ed è entrato in parlamento anche il partito populista Bulgaria senza censura. La partecipazione al voto è stata la più bassa dal 1989: il 48 per cento. Secondo Dnevnik, "il fatto che il paese sia sempre stato governato die-tro le quinte ha tenuto la gente lontana dalle urne. E oggi non ci sono prospettive di cambiamento, perché nessuna delle possibili coalizioni si batterà davvero contro la mafia che governa il paese".

SPAGNA
BARCELLONA VUOLE VOTARE
Prosegue il braccio di ferro tra Madrid e Barcellona, decisa a portare avanti il processo referendario sull’indipendenza della Catalogna malgrado l’opposizione del premier Mariano Rajoy e della Corte costituzionale. Negli ultimi giorni, spiega El Pais, il governo catalano ha sottolineato che "farà il possibile affinché la consultazione si svolga come previsto il 9 novembre". Secondo La Vanguardia, il presidente catalano Artur Mas ha anche un piano b: "Una votazione a metà strada tra il referendum e una consultazione sul modello di quella che si svolse nel 2009 ad Arenys de Munt. In quel caso i cittadini si espressero sull’indipendenza con un voto simbolico che ebbe però notevoli conseguenze politiche.

FRANCIA
II 5 ottobre decine di migliaia di oppositori dei matrimoni gay sono scesi in piazza per protestare contro le politiche familiari del governo. La manifestazione era organizzata dal collettivo Manif pour tous.

BELGIO
Quattro partiti, tra cui gli indipendentisti fiamminghi, hanno raggiunto il 7 ottobre un accordo di coalizione che prevede un governo guidato dal liberale francofono Charles Michel.

BOSNIA ERZEGOVINA
II 12 ottobre si svolgeranno le elezioni legislative e quelle per la presidenza collegiale. Saranno anche rinnovate le assemblee delle due entità che compongono il paese: Republika Srpska e Federazione croato-musulmana.

MEDIO ORIENTE & AFRICA
ISRAELE-LIBANO
II 7 ottobre due soldati israeliani sono rimasti feriti in un attacco rivendicato da Hezbollah al confine tra i due paesi.
PALESTINA
L’ESEMPIO SVEDESE
La Svezia è il primo paese europeo, se si escludono quelli dell’ex blocco socialista, a riconoscere lo stato palestinese, scrive Al Hayat. Il 13 ottobre nel parlamento del Regno Unito si svolgerà un voto sul riconoscimento della Palestina, ed è attesa una discussione sul tema anche in Francia.
TRE DIVERSI TRATTAMENTI – Da Ramallah Amira Hass
Il mio amico B vive a Ramallah e ha ottenuto un permesso per entrare in Israele. Ha un impiego presso un’organizzazione internazionale, che lo ha aiutato con la burocrazia. Questo rende B un privilegiato, perché può attraversare i checkpoint. Così abbiamo deciso di andare in macchina a Tel Aviv attraversandone uno gestito da un’azienda di sicurezza privata. Al checkpoint ci hanno chiesto di mostrare i documenti. L’agente, un immigrato etiope, è stato molto educato (una novità). Ha spiegato a B che non poteva attraversare il checkpoint all’interno della mia auto, ma avrebbe dovuto seguire il percorso riservato ai palestinesi. Protestare non aveva senso, così B è sceso dalla macchina, ha aspettato che il suo documento fosse registrato elettronicamente e poi mi ha raggiunto dall’altra parte del confine. In questo checkpoint c’è un terzo tipo di trattamento. I cittadini arabi di Israele devono subire perquisizioni corporali molto ac-curate e controlli alle loro auto. È un procedimento umiliante, mi ha raccontato un amico. Più di una volta ho provato a ricevere questo tratta-mento, ma non ci sono riuscita perché si sono sempre accorti che ero ebrea. Un checkpoint, un paese, tre diversi tratta-menti. Il terreno su cui è costruito il checkpoint è stato espropriato al villaggio palestinese di Ni’ilin. Ogni volta che lo attraverso mi maledico, perché implicitamente collaboro con questo sopruso. Ma non c’è molto che io possa fare, a parte lasciare il paese.

TURCHIA / SIRIA
Le colpe della Turchia in Siria Le Monde, Francia
La politica della Turchia rispetto alla crisi siriana sta generando una duplice tragedia, sul piano re-gionale e su quello interno. È anche un fallimento personale del presidente Recep Tayyip Erdogan che ne è stato l’ideatore. Il primo dramma è in corso a Kobane, una città siriana a maggioranza curda situata al confine con la Turchia, che sta per cadere nelle mani del gruppo Stato islamico. Da mesi alcune migliaia di miliziani curdi oppongono una strenua resistenza ai carri armati e all’artiglieria pesante dei jihadisti.
La conquista di Kobane darebbe ai jihadisti un vantaggio considerevole: il controllo della strada lungo la frontiera turco-siriana. Gli permettereb-be di moltiplicare i traffici con cui si finanziano e dimostrerebbe l’inefficacia dei raid aerei della coalizione guidata dagli Stati Uniti, che pretende di sconfiggere le milizie dello Stato islamico, ma non riesce nemmeno a contenerne l’avanzata in campo aperto. Questa battaglia avrebbe preso una piega diversa se la Turchia, che ha l’esercito più forte della regione, fosse intervenuta. I carri armati turchi schierati lungo la frontiera davanti a Kobane avrebbero potuto neutralizzare l’artiglieria dei jihadisti, ma non hanno sparato neanche un colpo. Ankara è entrata nella coalizione contro lo Stato islamico, ma non ha fatto nulla per fermarne l’avanzata. Perché? La Turchia non vuole una zona autonoma curda alla sua frontiera, che potrebbe essere usata come base dal Pkk, l’organizzazione armata dei curdi turchi. "Per noi il Pkk non è meglio dello Stato islamico", ha di-chiarato Erdogan. Non è esatto. Sembra piuttosto che Ankara, che ha consentito ai jihadisti di en-trare in Siria attraverso il suo territorio, preferisca lo Stato islamico ai curdi. Questa "scelta" ha generato un altro dramma: le proteste dei curdi in Turchia che il 7 ottobre hanno provocato 14 morti. Questo scontro può riaccendere la guerra che da trent’anni oppone il Pkk all’esercito turco e sabotare il coraggioso tentativo di negoziato con il Pkk avviato da Erdogan. Nel tentativo di rovesciare il dittatore siriano Bashar al Assad, il presidente turco esercita un ricatto: Ankara non parteciperà alla lotta contro lo Stato islamico se gli Stati Uniti non si impegnano a intervenire contro Damasco. È una politica irrealistica, che non fermerà la destabilizzazione della regione e rischia di destabilizzare la Turchia dall’interno.

MEDIO ORIENTE
IL NEOCOLONIALISMO DEI JIHADISTI
LA PROPAGANDA DEI MILIZIANI DELLO STATO ISLAMICO RICICLA MOLTI STEREOTIPI ORIENTALISTI. E SPESSO SERVE SOLO A MASCHERARE UN DESIDERIO DI ARRICCHIRSI CHE HA POCO A CHE VEDERE CON L’ISLAM ( Claire Talon, Mediapart, Francia )
Dopo l’n settembre 2001 tre eventi hanno cambiato il volto del Medio Oriente. Il primo è l’ondata libertaria che, dall’inizio del 2011, continua a erodere le fondamenta dell’ordine regionale nato dagli accordi Sykes-Picot (con cui nel 1916 Francia e Regno Unito stabilirono segretamente le rispettive sfere d’influenza in Medio Oriente). Il secondo è il ridimensionamento delle ambizioni dell’islam politico: in Egitto e in Tunisia i partiti religiosi hanno dovuto scontrarsi con il rifiuto espresso nelle manifestazioni popolari e la difficoltà di governa-re. Il terzo è l’irruzione su internet di società civili irrequiete, che per la prima volta hanno gli strumenti per esprimersi.
È questo lo sfondo su cui continua a svilupparsi il fondamentalismo islamico e su cui vanno in scena i drammi siriano e iracheno. Si tratta di una crisi generalizzata che nasce dal collasso delle strutture statali ereditate dai tempi delle indipendenze. Tuttavia i governi occidentali ripropongono sempre la stessa soluzione: una piccola guerra condotta da popoli civili contro il "terrorismo" per garantire la stabilità regio-nale.
L’elemento centrale di questo scenario è l’internazionale jihadista: basta evocarla per giustificare un intervento militare che fino a pochi mesi prima era stato respinto dalle opinioni pubbliche, in Europa e negli Stati Uniti. Paesi come la Francia possono addirittura prendere in considerazione l’idea di colpire prima il regime siriano di Bashar al Assad e poi anche il suo nemico, l’organizzazione dello Stato islamico, come se si trattasse dello stesso problema. Il jiha-dismo sembra affermarsi come unica chia¬ve di lettura per una realtà mediorientale sempre più indecifrabile. Non dovremmo quindi stupirci se i jihadisti mostrano all’occidente un’immagine di loro stessi studiata a tavolino e quasi caricaturale rispetto alla complessità della situazione.
Dai film peplum ai western, dai polizieschi alle pellicole di fantascienza, i jihadisti dello Stato islamico hanno mostrato di sa-per padroneggiare i codici della cultura occidentale. Ripropongono un immaginario orientalista che va da Lawrence d’Arabia a Trono di spade, passando per Salomè e san Giovanni Battista. I jihadisti insistono a far-si fotografare a cavallo o in carovane di jeep in mezzo al deserto. I loro capi indossano vestiti d’altri tempi e fanno di tutto per rafforzare il vecchio cliché della "crudeltà orientale" (sempre mostrata in modo teatrale). Possono anche sembrarci ridicoli, ma dovremmo riflettere sul fatto che queste sono le uniche immagini che abbiamo di loro e che sono loro stessi a fornircele. Le rare testimonianze sulla vita quotidiana nei luoghi controllati dallo Stato islamico rac-contano di persecuzioni contro chi cerca di documentare quello che succede e di esecuzioni di civili scoperti a fare foto.
Quindi gli occidentali sono ridotti a contemplare Salomè in niqab, decapitazioni artigianali, crocifissioni, fucilazioni indiscriminate, cavalcate nel deserto, scene di battaglie che ricordano quelle dei film. È una rappresentazione rétro della violenza, molto lontana dalla precisione chirurgica con cui tanti abitanti della regione sono stati uccisi nel corso degli anni dal governo siriano, da Israele, dall’Egitto e dagli Stati Uniti.
Un altro passaggio obbligato di questo autoritratto esotico è il nuovo "viaggio in oriente". Sponsorizzato dall’internazionale jihadista, si materializza in scene bucoliche che mostrano giovani guerrieri che sguazzano nelle acque limpide di un’oasi e assaporano dei frutti (melograni) tagliati con i pugnali. Donne sottomesse, crudeltà orientale, deserto, barbarie: sono i pilastri del discorso prodotto dai jihadisti dello Stato islamico su loro stessi. Questi cliché ricostruiscono alla perfezione l’oriente immaginario, inventato nell’ottocento dal Regno Unito e dalla Francia per sostenere le loro avventure coloniali. L’intellettuale palestinese Edward Said aveva già sottolineato come quella rappresentazione non fosse altro che un ritratto a rovescio dell’Europa illuminista.
CASE GRATIS
Le peripezie del jihad globale, da Al Qaeda allo Stato islamico passando per il Fronte al nusra, mostrano la deriva del jihadismo da movimento di liberazione a impresa coloniale. Anche quando non esaltano aperta-mente il "jihad a cinque stelle" – l’abbondanza e la dolce vita nella terra promessa del Levante – i jihadisti stranieri (che, secondo fonti della Cia citate dal New York Times, formano più della metà dei combattenti dello Stato islamico) pubblicano foto e video di ville con piscina sequestrate agli "infedeli".
"Qui non si paga l’affitto. Le case sono assegnate gratuitamente", scriveva sulla sua pagina di Facebook (oggi chiusa) Aqsa Mahmoud, una scozzese di 19 anni partita per la Siria per sposare un jihadista. "Non si paga l’acqua né l’elettricità. Riceviamo provviste mensili come spaghetti, pasta, cibi in scatola, riso, uova, e dei sussidi men-sili per i mariti, le mogli e ogni figlio. Le cure mediche sono gratis. E non si pagano tasse (se si è musulmani) ".
"Il nostro esilio è ricompensato dal bottino", scrive Aqsa sul suo blog, che è ancora attivo. "Fa piacere sapere che il bottino è stato rubato agli infedeli e che è stato Allah a donarcelo. Abbiamo utensili da cucina, frigoriferi, cucine, forni, microonde, frullatori, aspirapolvere e prodotti per le pulizie, ventilatori e, soprattutto, case gratis".
Da questo punto di vista, il fenomeno dello Stato islamico può essere visto come la copertura di un’avventura coloniale che trova nelle periferie di Londra, Strasburgo o Stoccolma le reclute più adatte. Le motivazioni di questi combattenti spesso non hanno molto a che vedere con l’islam. In un’intervista a Vice, Abu Ibrahim Raqqawi, un attivista siriano di 22 anni originario di Raqqa, la roccaforte dello Stato islamico, afferma che i jihadisti occidentali vivono isolati e rubano agli abitanti del posto: "I miliziani provenienti dal Regno Unito e dagli Stati Uniti preferiscono portarsi dietro le loro mogli o sposare altre donne straniere, svedesi o olandesi. Restano chiusi nella loro cerchia. C’è una sorta di muro tra loro e gli abitanti di Raqqa perché non parlano la lingua del posto. Gli abitanti della città non amano gli stranieri perché requisiscono le case più belle e rubano". Nell’agosto del 2014 i jihadisti dello Stato islamico hanno pubblicato su Twitter dei selfies con alcuni barattoli di Nutella, suscitando tra i combattenti un dibattito sulle virtù della crema spalmabile. Nel momento in cui i paesi occidentali esportano nel mondo arabo questa nuova specie di colonizzatori, è paradossale continuare a vedere il Medio Oriente come una minaccia per la sicurezza dell’occidente.
SORVEGLIANZA DIGITALE
Le azioni dei jihadisti dello Stato islamico spostano in secondo piano una battaglia dalle conseguenze altrettanto drammatiche. Mentre la propaganda jihadista invade internet, le aziende statunitensi, europee e israeliane fanno a gara per vendere ai regimi autoritari del Medio Oriente software di sorveglianza che gli permettono di ostacolare l’emergere di forze alternative a quella jihadista.
Questi sistemi di sorveglianza, che possono essere adattati all’arabo e ai vari dialetti mediorientali, permettono ai servizi segreti dei paesi impegnati nella lotta al terrorismo di svolgere attività di spionaggio di massa sulle comunicazioni private scambiate via email, WhatsApp, Twitter, Face-book, Skype, Viber, YouTube e Grindr.
Il ministero dell’interno egiziano ha affidato all’azienda statunitense Blue Coat l’incarico di individuare le "idee distruttrici" che circolano sui social network. Nella gara d’appalto, ha scritto il 1 giugno 2014 il quotidiano Al Watan, si mette in evidenza il ruolo negativo di internet nell’affermazione dei valori democratici", e si punta il dito contro il "sarcasmo", "la ridicolizzazione delle persone", "la denuncia di errori commessi in buona fede", "la diffidenza verso i precetti religiosi" e la "trasgressione delle regole sociali". Oggi il principale problema per le società civili arabe non è lo Stato islamico, ma la possibilità di organizzarsi per elaborare una nuova immagine della regio-ne, lontana dal jihadismo e dalle dittature sostenute dall’occidente. Oltre alle difficoltà organizzative e alla repressione dei servizi di sicurezza, chi produce contenuti è anche vittima delle politiche di Facebook e di altri social network, che spesso non fanno distinzioni tra i vari tipi di utenti, ed eliminano, in nome di una caccia indiscriminata alle immagini violente, sia i profili dei siriani della resistenza pacifica sia quelli dei jihadisti. agirti

MOZAMBICO
Un candidato popolare
A pochi giorni dalle presidenziali del 15 ottobre, il leader del partito Renamo, Afonso Dhlakama, è tornato alla ribalta, scrive Jeune Afrique. Fino al 5 settembre, quando il Renamo ha firmato un cessate il fuoco con il partito di governo Frelimo, Dhlakama viveva in clandestinità (il conflitto tra le due fazioni è scoppiato nell’ottobre del 2013). Ora sembra godere di un’inattesa popolarità, nonostante alle ultime presidenziali avesse ottenuto il 16,5 per cento dei voti,

MALI
Nove caschi blu nigerini sono morti il 3 ottobre in un at-tacco dei ribelli jihadisti nella regione di Gao (nordest).

KENYA
KENYATTA IN TRIBUNALE
L’8 ottobre il presidente keniano Uhuru Kenyatta {nella foto) si è presentato alla Corte penale internazionale (Cpi) per rispondere delle accuse di crimini contro l’umanità in relazione alle violenze interetniche scoppiate dopo le elezioni del 2007-2008. Kenyatta, che si dichiara innocente, è il primo capo di stato in carica ad apparire davanti alla Cpi. Ha temporaneamente lasciato i suoi poteri al vicepresidente William Ruto, anche lui accusato di crimini contro l’umanità. Secondo The Nation, la decisione di Kenyatta di farsi giudicare dalla Cpi permetterà al paese di superare il trauma di sei anni fa.

NIGERIA
II 2 ottobre il leader di Boko haram Abubakar Shekau, dato per morto dall’esercito nigeriano, è riapparso in un video. Yemen II 7 ottobre la nomina di un nuovo premier è stata respinta dai ribelli sciiti che controllano la capitale Sana’a.

SOMALIA
Al Shabaab perde Barawe
Il 5 ottobre le truppe somale, appoggiate dai soldati dell’Unione africana, hanno conquistato il porto di Barawe, 200 chilometri a sud di Mogadiscio, una roccaforte dei ribelli di Al Shabaab. Secondo l’Unione africana, i ribelli somali controllavano la città da sei anni e la usavano come base per lanciare gli attacchi contro la capitale Mogadiscio. Il gruppo terroristico ha perso il controllo di molte località negli ultimi mesi, ma è ancora ben radicato nelle zone rurali. La caduta di Barawe, scrive il sito Sabahi, è un duro colpo per Al Shabaab soprattutto dopo la morte, un mese fa, del leader Ahmed Abdi Godane.

ASIA & PACIFICO
COREA DEL NORD
Chi comanda a Pyongyang
Kim Jongun (in una foto d’archivio), che pare abbia problemi di salute e si stia curando, non compare in pubblico da più di trenta giorni. La sua assenza ha alimentato voci su un possibile golpe dolce in corso a Pyongyang. In realtà, scrive NK-News, Kim è l’autorità ufficiale più alta ma governa insieme a una rete complessa di consiglieri e funzionari che hanno un controllo diretto sul partito, sull’esecutivo e sull’esercito.

PENISOLA COREANA II 4 ottobre i governi di Seoul e Pyongyang hanno raggiunto un accordo per rilanciare il dialogo, sospeso dal febbraio scorso. La decisione è stata presa durante una rara visita a Seoul di tre delegati nord-coreani.

BIRMANIA II presidente Thein Sein ha annunciato il 7 ottobre la liberazione di più di tremila prigionieri, tra cui alcuni ex militari.

HONG KONG
UN PAESE, DUE SISTEMI
Nel 1997 la sovranità di Hong Kong, colonia britannica, passa dal Regno Unito alla Cina sulle basi di un accordo siglato nel 1984. Secondo l’accordo, Pechino dovrà riconoscere alla città per i successivi cinquant’anni "un alto grado di autonomia", fatta eccezione per la difesa e la politica estera. A regolare lo status speciale di Hong Kong è la basic law, soggetta però a un margine di libertà di interpretazione da parte di Pechino.
– Hong Kong è governata da un amministratore, il chief executive, eletto da un comitato di 1.200 esponenti di diversi settori economici della città, la maggior parte dei quali vicini a Pechino. Nel 2004 il governo cinese stabilisce che le prime elezioni a suffragio universale si terranno nel 2017.
– Nel giugno del 2014, in vista della decisione del Comitato permanente dell’assemblea nazionale del popolo sulle regole per l’elezione del governatore di Hong Kong, il movimento Occupy Central organizza un referendum per l’introduzione del suffragio universale a cui partecipano 8oomila persone. Il 31 agosto Pechino annuncia le riforme decise dal comitato i permanente: sarà introdotto il suffragio 1 universale ma gli elettori potranno votare ) solo i candidati approvati dal governo centrale. Il 22 settembre gli studenti universitari scendono in piazza per chiedere vere elezioni dirette. Sei giorni dopo la polizia interviene con gas lacrimogeni per disperdere la folla che però resiste. Il 29 settembre Occupy Central si unisce agli studenti. I manifestanti intendono continuare la protesta finché il governatore Chun-ying Leung non si dimetterà.
CHI CONTA DAVVERO
IL 22 settembre, mentre gli studenti di Hong Kong scendevano in piazza, il presidente cinese Xi Jinping ha convocato una delegazione di ricchi uomini d’affari dell’ex colonia britannica, tra cui Li Kashing, l’uomo più ricco d’Asia. Chiunque abbia lanciato l’iniziativa deve aver pensato che l’intervento di Xi potesse alleviare la tensione, rassicurando i cittadini di Hong Kong sul fatto che i cinesi non hanno cambiato idea sulla formula "un paese, due sistemi". Purtroppo, però, questa riunione si è rivelata un altro passo falso nei rapporti tra Hong Kong e Pechino.
DISPARITÀ ECONOMICA
Hong Kong ha da decenni una società orientata agli affari e al mercato e l’influenza di magnati come Li Kashing è enorme. Ma gli abitanti, in particolare la generazione più giovane rappresentata dal leader del movimento studentesco filo-democratico Joshua Wong, stanno entrando in una nuova era. Il malcontento per il monopolio immobiliare che ha contribuito a far sparire tante piccole imprese private della città è forte, e proprio la disparità economica è una delle principali cause dell’attuale caos politico.
Il fatto che Pechino abbia convocato un gruppo ristretto di uomini d’affari invece che gli esponenti politici o i rappresentanti del movimento per la democrazia ha sollevato seri dubbi su chi, secondo la Cina, sia più legittimato a rappresentare gli interessi a lungo termine degli abitanti dell’isola. ( George Chen, South China Morning Post, Hong Kong)
DA PECHINO
SONO SOLO ESTREMISTI
IL 28 settembre gli attivisti estremisti di Hong Kong hanno lanciato il movimento Occupy Central, svelando in anticipo una campagna illegale. Le foto della polizia costretta a disperdere i manifestanti con i lacrimogeni sono circolate in tutto il mondo, danneggiando l’immagine della città. Hong Kong è un grande centro della finanza e della moda e in quanto abitanti del continente siamo addolorati per quello che sta succedendo per colpa dell’opposizione. I mezzi d’informazione statunitensi legano il movimento Occupy Central agli incidenti di piazza Tiananmen, ma la Cina non è più il paese di venticinque anni fa. Abbiamo accumulato esperienza e imparato a valutare i disordini sociali e adesso li affrontiamo in modo diverso. Negli ultimi anni ci sono state molte manifestazioni, ma nessuna è riuscita a modificare il nostro modo di pensare. In Asia, Hong Kong vanta una lunga tradizione di legalità, quindi la Cina continentale confida nel fatto che il suo governo tenga sotto controllo in modo legale il movimento Occupy Central. Molti temono che queste manifestazioni possano spingere alla rivolta tutta la popolazione. Questa sembra essere la strategia degli estremisti. Ma, nonostante stia correndo un rischio senza precedenti, Hong Kong non perderà la sua stabilità. I gruppi dell’opposizione sanno bene che è impossibile modificare le decisioni del comitato permanente sulle riforme. Il governo centrale deve appoggiare con fermezza l’amministrazione locale affinché prenda provvedimenti contro gli attivisti. . II Global Times è un quotidiano legato al governo cinese.

PAKISTAN
IL FASCINO DELLO STATO ISLAMICO
"È ufficiale. I taliban pachistani hanno annunciato il loro sostegno al gruppo Stato islamico", scrive Ahmed Rashid sulla New York Review of Books citando le dichiarazioni rilasciate il 4 ottobre dal portavoce dei taliban. Per ora è solo un atto simbolico: i taliban pachistani non si sono fusi con lo Stato islamico e non hanno accettato il loro leader come califfo. Ma la mossa indica quanto la brutalità del gruppo jihadista e la sua abilità nel controllare un territorio vasto stiano cambiando il panorama dei movimenti fondamentalisti. In particolare i giovani – che considerano gli sforzi fatti dai loro leader di dialogare con i governi un segno di debolezza – apprezzano il rifiuto di scendere a compromessi del gruppo Stato islamico.

INDIA
UN PREMIER AMBIZIOSO – Outlook, India
Durante un discorso pubblico a Varanasi nel 1916, Gandhi fece una digressione sullo squallore e la sporcizia che circondavano un tempio importante della città, chiedendosi se, una volta finito il dominio britannico, i templi sarebbero diventati luoghi puliti. Quasi un secolo dopo, e a 67 anni dalla partenza degli inglesi, nulla è cambiato nella città sacra e anzi, la situazione è peggiorata. Il primo ministro Narendra Modi ha promesso di ripulire l’India nei prossimi cinque anni. Questo significa, scrive Outlook, far sparire montagne di rifiuti dai villaggi e dalle città; ripulire i fiumi, i laghi e i parchi; rendere luccicanti le strade, i luoghi pubblici e i marciapiedi; insegnare agli indiani a disfarsi dei loro rifiuti come si fa nelle democrazie sviluppate, sradicando l’abitudine di sputare e gettare a terra la spazzatura. In passato si è già tentato di ripulire il paese almeno tre volte e la storia insegna che non sarà un compito facile per Modi. L’immagine di un nuovo premier con una scopa in mano è un simbolo accattivante e molto potente in un’era in cui la percezione è tutto, soprattutto per una vasta parte della classe media urbana che ha distolto lo sguardo (e il naso) dalla realtà puzzolente in cui i suoi connazionali sono condannati a vivere. Ma rischia di rimanere solo un simbolo, conclude il settimanale indiano

AFGHANISTAN
IL FUTURO DELL’AFGHANISTAN / L’INSEDIAMENTO DI ASHRAF GHANI COME NUOVO PRESIDENTE DELL’AFGHANISTAN DOPO UN’ELEZIONE MOLTO DISCUSSA È UN’OCCASIONE PER FARE QUALCHE PREVISIONE SUL FUTURO DEL PAESE. Davanti al primo passaggio di poteri da quando Hamid Karzai è salito al potere nel 2001 è giusto mostrare un po’ di ottimismo. La comunità internazionale ha accolto favorevolmente Ghani, che si è impegnato a firmare un accordo per mantenere le forze internazionali dell’Isaf nel paese anche dopo l’inizio del ritiro statunitense, previsto per la fine del 2014. Questo dovrebbe tenere aperto il rubinetto degli aiuti esteri.
Ma le possibilità che il governo sopravviva restano limitate. Nonostante abbia accettato un accordo per la divisione dei poteri con Ghani, il candidato rivale Abdullah Abdullah ha quasi boicottato l’insediamento dopo che i risultati elettorali sono stati pubblicati senza il suo consenso. Se basta così poco a scatenare la sua rabbia, presto Abdullah potrebbe far cadere il governo. Ma Ghani deve affrontare una minaccia ben più grave: i taliban, che continuano a conquistare nuovi territori e organizzare attacchi in tutto il paese. L’esercito afgano, con il morale sotto i tacchi e segnato dalle diserzioni, non riesce a combatterli e sarà ancora più in difficoltà dopo il ritiro degli statunitensi.
Se non altro, però, difficilmente Ghani potrà fare peggio di Karzai. Chi loda l’ex presidente per aver portato stabilità nel paese ha la memoria corta. Karzai era corrotto e indifendibile, e ha sempre anteposto i suoi interessi a quelli del paese. Ha basato la sua strategia nei confronti dei taliban sulle alleanze con i signori della guerra, alienandosi il supporto della maggior parte della popolazione. Karzai si è dedicato solo ad accumulare un enorme patrimonio, e negli ultimi mesi si è disinteressato di tutto, lasciando le decisioni più difficili (come l’accordo di sicurezza con gli Stati Uniti) al suo successore. Nel suo discorso di commiato l’ex presidente ha attaccato sia Washington sia il Pakistan. Questo leader inaffidabile, il cui rapporto con gli Stati Uniti è cambiato a seconda dei suoi sbalzi d’umore, cerca ora di presentarsi come un populista, quando in realtà è solo un tecnocrate.
Ghani, un antropologo che ha lavorato per la Banca mondiale, dovrà fare attenzione a non seguire il suo esempio (The News, Pakistan)

AFGHANISTAN
L’8 ottobre cinque uomini sono stati impiccati a Kabul. Erano stati condannati a morte per lo stupro collettivo di quattro donne.

INDIA-PAKISTAN
FUOCO IN KASHMIR
Almeno 16 persone sono morte negli scontri a fuoco tra militari indiani e pachistani al confine tra i due paesi, nel Kashmir indiano e vicino a Sialkot, in Pakistan. Nonostante il cessate il fuoco in vigore dal 2003, non è raro che le truppe si scambino colpi di arma da fuoco. New Delhi e Islamabad si accusano a vicenda per l’inizio delle ostilità. I tentativi di mediazione sono andati a vuoto e, osserva il Kashmir Times, contrariamente a quanto previsto dalle procedure, le trattative sono state condotte da ufficiali di basso rango. Il 10 ottobre, scrive il quotidiano pachistano Dawn, il Comitato per la sicurezza nazionale, presieduto dal primo ministro Nawaz Sharif, si riunirà per decidere il da farsi.

VIETNAM
L’AMICO STATUNITENSE
Il 2 ottobre il governo statunitense ha annunciato la revoca parziale dell’embargo sulla vendita di armi in Vietnam. La decisione è stata presa per la "sicurezza marittima degli Stati Uniti", che sarebbe minacciata dall’espansionismo della Cina nel mar Cinese meridionale. Oltre al Vietnam, Pechino è attualmente in lite anche con la Malesia, le Filippine, il Brunei e Taiwan. "La mossa di Washington permetterà al Vietnam di rafforzare le sue difese marittime", scrive AsiaSentinel. "Ma secondo alcune organizzazioni per la difesa dei diritti umani, adesso Hanoi si sentirà autorizzata ad aumentare la repressione nei confronti dell’opposizione interna e della società civile".

AMERICA CENTRO-MERIDIONALE
HAITI
L’eredità diDuvalier
"Jean-Claude Duvalier l’ex presidente di Haiti che aveva governato l’isola con il pugno di ferro e nel 2011 era tornato a sorpresa dall’esilio, è morto il 4 ottobre nella capitale Port-au-Prince. Aveva 63 anni", scrive il New York Times. Su Haiti Libre lo scrittore Lyonel Trouillot riflette sulla morte del dittatore: "Duvalier è morto. Tra la gente la notizia non ha creato molta euforia. Alcuni si lamentano che la morte, che non è una sentenza, lo ha salva-to dalle responsabilità e dalle colpe. Ma nessuno insiste per dare il suo corpo ai cani. Al go-verno chiediamo solo di non imporci un funerale da eroe".

BOLIVIA
Evo Morales verso la vittoria
Il 12 ottobre i boliviani sono chiamati alle urne per eleggere il presidente e rinnovare il parlamento. Secondo tutti i sondaggi l’attuale presidente Evo Morales, in carica dal 2005, dovrebbe vincere al primo turno con più del 50 per cento delle preferenze. Per La Vanguardia, nonostante una crescita economica da record e la riduzione della povertà, in questi anni Morales non è riuscito a risolvere problemi strutturali del paese come il lavoro minorile, la violenza contro le donne e l’inefficienza del sistema giudiziario.

CILE
II 7 ottobre la corte suprema ha ordinato all’azienda canadese Goldcorp di sospendere, per motivi ambientali, la costruzione della miniera d’oro e rame di El Morro, nella regione di Atacama. L’azienda dovrà consultare gli indigeni diaguita.

PERÙ
II 5 ottobre il conservatore Luis Castañeda è stato eletto sindaco di Lima. Prende il posto della socialista Susana Villarán.

BRASILE
IL BRASILE AL BALLOTTAGGIO SENZA MARINA SILVA
LE PRESIDENZIALI DEL 5 OTTOBRE HANNO RIBALTATO TUTTI I PRONOSTICI: DILMA ROUSSEFF ANDRÀ AL SECONDO TURNO CON IL SOCIALDEMOCRATICO AÉCIO NEVES. E IL RISULTATO NON È SCONTATO.
Per la quarta volta consecutiva il Partito dei lavoratori (Pt) del Brasile deve andare al ballottaggio per vincere le elezioni presidenziali. È già successo con Lula nel 2002 e nel 2006, e con Dilma Rousseff nel 2010. Sempre per la quarta volta consecutiva il candidato del Pt affronta un rappresentante del Partito socialdemocratico (Psdb), la formazione dell’ex presidente Fernando Henri-que Cardoso (1995-2003). La campagna elettorale si gioca sulla contrapposizione tra i risultati ottenuti durante i due mandati di Cardoso (nel 1994 e nel 1998) e i successi del Pt, al potere dal 2003.
All’inizio questa contrapposizione è stata centrale: Dilma Rousseff era in vantaggio su Aécio Neves. Poi l’incidente aereo del 13 agosto, in cui è morto il candidato socialista Eduardo Campos, ha cambiato tutto. Marina Silva, candidata del Partito socialista (Psb), ha preso il posto di Campos e ha occupato lo spazio dell’opposizione con un programma economico simile a quello di Neves. Prima di conoscere i risultati del primo turno l’ex presidente Lula aveva dichiarato di preferire il ballottaggio perché rende più evidente il contrasto tra due proposte politiche e rafforza la democrazia. Le cose vanno cosi dal 2002 e il Pt ne è sempre uscito vincente. Ma ora la situazione sembra più complessa. Silva aveva lanciato la sua candidatura in un momento particolare, dopo la morte di Campos. Mentre la sua spinta per una "nuova politica" che superasse la dicotomia Pt-Psdb prendeva forza, la polarizzazione attenuava le differenze e l’ex leader ecologista faceva delle proposte decisamente neoliberiste. Negli ultimi giorni prima del voto del 5 ottobre la candidatura di Silva si è sgonfiata, una parte dei suoi vo-ti sono tornati a Neves e la situazione dei due candidati si è ribaltata. Il risultato del primo turno sorprende per il recupero di Neves: la sua offensiva finale ha funzionato non solo perché ha conquistato più voti, ma anche perché Dilma Rousseff ne ha ottenuti meno del previsto.
UNO STATO CHIAVE
Il ballottaggio, che si terrà il 26 ottobre, sarà molto combattuto. Al primo turno la differenza tra Rousseff e Neves è stata di circa 8 punti percentuali, più o meno otto milioni di voti. Pur avendo perso forza, Marina Silva ha comunque ottenuto il 21 per cento delle preferenze. I termini dello scontro tra Pt e Psdb avvantaggiano l’attuale presidente. A indebolire Neves c’è anche la sorprendente sconfitta subita nello stato di Minas Gerais, dove è stato governatore e dove il candidato del Psdb, Pimenta da Veiga, ha perso al primo turno contro quello del Pt. A favorirlo invece c’è l’appoggio della maggior parte dei mezzi d’informazione e la ri-elezione al primo turno di Geraldo Alckmin come governatore di Sào Paulo, uno stato di enorme peso elettorale, il più grande e conservatore del paese insieme a quello di Parane. Per la prima volta, a Sào Paulo il candidato del Pt è arrivato terzo.
Sarà importante attirare gli elettori di Marina Silva. Alcuni di loro sono molto vicini al Psdb e si riconoscono nella proposta economica del partito, mentre altri sono più vicini al Pt. E poi c’è Silva, che potrebbe sostenere Neves o mantenere la "terza via" senza appoggiare nessuno dei due candidati. Il 26 ottobre i brasiliani dovranno scegliere tra il passato – il ritorno a un governo vicino a quello di Cardoso – o il futuro, cioè la continuità con il progetto politico di Lula e Dilma Rousseff. La corsa è aperta. ( Emir Sader è un giornalista e sociologo brasiliano di orientamento marxista. È nato nel 1943.)
IL MESSAGGIO DEI BRASILIANI ( La Tercera, Cile ) Il 5 ottobre in Brasile si è chiuso il primo capitolo dell’elezione più incerta della storia recente del paese, e il risultato non ha risparmiato sorprese. I sondaggi prevedevano un ballottaggio tra la presidente Dilma Rousseff e la candidata del Partito socialista brasiliano Marina Silva, che avrebbe rotto il tradizionale dualismo tra il Partito dei la-voratori (Pt) e il Partito socialdemocratico (Psdb), di centrodestra. Invece il 26 ottobre al secondo turno si affronteranno la presidente in carica (che ha ottenuto il 41,5 per cento dei voti) e l’ex governatore socialdemocratico dello stato di Minas Gerais, Aécio Neves (33,5 per cento). Silva non è andata oltre il terzo posto con il 21,3 per cento.
Rousseff si presenta al ballottaggio in testa, ma l’esito del primo turno ha confermato che il suo governo è in difficoltà. Il Partito dei lavoratori ha ottenuto il peggior risultato degli ultimi 12 an-ni, con un calo di 5 punti rispetto al 2010. Il 55 per cento degli elettori ha scelto un partito di opposi-zione, inviando un chiaro messaggio di disapprovazione per come il paese è stato gestito negli ultimi quattro anni. I risultati evidenziano inoltre la spaccatura tra il nord più povero (principale beneficiario dei programmi sociali del governo), dove la presidente ha trionfato, e il sud più industrializzato, che ha sostenuto Neves. A Sào Paulo, la capitale economica del Brasile, il Psdb ha ottenuto uno dei migliori risultati della sua storia.
Entrambi i candidati devono tenere in considerazione questi fattori per ricalibrare la loro campagna. Rousseff sconta l’insoddisfazione generata da un’economia ferma e dalle previsioni di una crescita inferiore all’uno per cento per il 2014. Il suo rivale deve invece ottenere un maggiore sostegno negli stati più poveri. Per entrambi i candidati sarà cruciale convincere i venti milioni di brasiliani che hanno votato per Marina Silva e i trenta milioni che si sono astenuti. Il programma di Neves è più simile a quello di Silva, mentre Rousseff può contare su un partito ben organizza-to in tutto il paese. Ma a prescindere da chi vincerà, per il Brasile sarebbe un fallimento non realiz-zare le riforme strutturali di cui ha bisogno.

AMERICA SETTENTRIONALE
STATI UNITI
La multinazionale della grande distribuzione Walmart ha annunciato il 7 ottobre che non darà più l’assicurazione sanitaria agli impiegati che lavorano meno di trenta ore alla settimana USA
L’AMERICA BRINDA, MA UNA NUOVA CRISI È IN ARRIVO NONOSTANTE LA RIPRESA AMERICANA, IL DEBITO MONDIALE CRESCE ED È SEMPRE MENO SOSTENIBILE
1. IL PRIMO INGREDIENTE: IL DEBITO
2. IL SECONDO INGREDIENTE: LA (NON) CRESCITA
( di Francesco Cancellato)
Partiamo dall’inizio, che è più semplice. Che il 2008 sia stato l’anno della peggior crisi finanziaria degli ultimi cento anni almeno, è cosa nota. Forse, tuttavia, è utile ricordare cosa causò quella crisi: successe, in estrema sintesi, che per tutta la prima metà degli anni 2000, sotto la spinta del mercato finanziario e di quello immobiliare, gli Stati Uniti d’America conobbero una fase di grande crescita economica; che in quella fase, le banche concessero mutui ipotecari – i cosiddetti subprime, che in italiano vuol dire «di seconda scelta» – a numerose famiglie (partendo dal presupposto che i prezzi delle case sarebbero continuati a crescere) nonostante vi fossero concrete possibilità che queste non sarebbero riuscite a ripagarlo, se qualcosa fosse andato storto; che qualcosa effettivamente andò storto e, più precisamente, nella seconda metà del 2006 la bolla immobiliare cominciò a sgonfiarsi come un palloncino bucato, che i tassi d’interesse si alzarono e che molti di quei debitori potenzialmente insolventi lo diventarono per davvero; questo, a fette molto spesse, rese «tossici» diversi titoli, i fondi d’investimento che se li erano comprati, le banche che vi avevano investito, le borse di tutto il mondo i cui indici dipendono in larga parte da come vanno le banche. Una partita a domino, per farla breve, che è costata alle banche di tutto il mondo qualcosa come 4.100 miliardi di dollari e che, nel 2009, ha fatto scendere il Pil in tre quarti dei paesi di tutto il mondo, facendone finire la metà in una recessione che si è protratta anche negli anni successivi, innescando peraltro nuove crisi, come quella dei debiti pubblici europei.
Se dobbiamo raccontarla in due righe, potremmo dire che la crisi del 2008 è stata innescata da un cocktail letale tra un’inaspettata frenata dell’economia e un indebitamento – in quel caso più privato che pubblico – che aveva raggiunto livelli mostruosi. Ecco: secondo gli analisti del Geneva Report, commissionato dal centro internazionale per gli studi economici e bancari, la mano invisibile ci ha già servito sul bancone un cocktail simile e chi ci governa sta facendo poco o nulle per evitare che l’economia globale se lo beva di nuovo, con tutte le conseguenze del caso. Provo a essere ancora più brutale: che lo scenario attuale è molto simile a quello che ha generato la crisi del 2008.
Il primo ingrediente: il debito
Da cosa traggono queste fosche previsioni gli economisti che hanno scritto il Geneva Report del Centro Internazionale per gli Studi Monetari e Bancari, tra i quali figurano anche gli italiani Luigi Buttiglione e Lucrezia Reichlin? In primo luogo dall’ammontare complessivo del debito globale – settore finanziario escluso – che nel 2013 ha raggiunto il suo massimo storico: più precisamente, se nel 2008 era pari al 181% del Pil globale, oggi siamo arrivati al 212%.

CRESCITA DEL DEBITO NON FINANZIARIO GLOBALE (2001-2013)
Il motivo alla base di questo record è altrettanto interessante: nelle economie sviluppate il debito è sì cresciuto, ma a ritmi piuttosto contenuti, trainato soprattutto dalla crescita dei debiti pubblici, quello americano in primis. Al contrario è cresciuto, e molto, in paesi emergenti – se così si possono ancora definire – in cui sono aumentati notevolmente i prestiti ai privati. Su tutti la Cina, in cui negli ultimi cinque anni il debito non finanziario – pubblico e privato – è cresciuto del 72%. O, ancora, la Turchia, in cui è cresciuto del 33%.

CRESCITA E COMPOSIZIONE DEGLI ASSET FINANZIARI NEI PAESI SVILUPPATI E IN QUELLI EMERGENTI – Il secondo ingrediente: la (non) crescita
Il debito cresce, quindi, ma lo stesso non si può dire del valore aggiunto e dell’economia nel suo complesso. Anzi, non solo le previsioni sulla crescita si stanno progressivamente riducendo, ma sono anche costantemente riviste al ribasso. Ciò, soprattutto, in relazione ai paesi sviluppati, e all’Europa, soprattutto. Gli autori del Geneva Report prendono in esame i dati del Fondo Monetario Internazionale: fatta 100 la ricchezza dei paesi emergenti nel 2006, stando alle previsioni del 2010, nel 2015 avrebbero dovuto avere una ricchezza complessiva di 40 punti superiori, mentre nel 2012 la previsione era stata rivista al ribasso di 25 punti percentuali.

REVISIONE DELLE PREVISIONI DI CRESCITA (MONDO, MERCATI SVILUPPATI, MERCATI EMERGENTI)
Probabilmente, anche quest’ultima profezia si rivelerà fin troppo ottimista. Soprattutto in relazione al fatto che, a partire dal 2011, ci si è messa pure la discesa globale dei prezzi – per gli amici, deflazione – a complicare le cose. Come osservano gli autori – e come noi europei sappiamo bene – «in queste condizioni di inaspettata deflazione e di calo complessivo della crescita economica, i bassi tassi d’interesse sono di ben poco aiuto per la sostenibilità del debito pubblico».
ANDAMENTO DEI PREZZI (2001-2013)
La bomba è innescata, in altre parole. Un mix letale di bassa crescita e alto debito che potrebbe esplodere in Asia, se l’economia rallentasse o in occidente, se ci fosse un ulteriore e improvvisa accelerazione nella crescita del debito. Se la diagnosi è chiara, altro è chiedersi quale sia la cura. Secondo gli economisti del Geneva Report, le strade sono due: la prima è una cura da cavallo per la crescita in Europa, con robuste iniezioni di liquidità della Bce nel sistema economico per far salire la produzione, la domanda e i prezzi; la seconda, è una politica di aumento dei tassi d’interesse nei paesi che crescono di più, come la Cina per ridurre la quantità di prestiti rischiosi.
Una strategia, questa, che come ogni medicina ha due controindicazioni. La prima: se la Cina, poniamo, alza i tassi d’interessi, c’è il rischio che la sua economia rallenti, con effetti negativi anche sugli stessi paesi europei che, invece, ci si aspetta debbano crescere. La seconda: un rallentamento complessivo dell’economia globale potrebbe incoraggiare gli investitori a prendersi rischi maggiori per mantenere inalterati i loro guadagni, con la possibilità che i prestiti (e i debiti rischiosi) tornino a crescere. Situazione piuttosto spinosa, insomma. Ed è di ben poca consolazione sapere che i guai non sono solo nostri.
STATI UNITI
KANSAS DECISIVO
Nelle elezioni di metà mandato le speranze dei democratici di conservare il controllo del sena-to sono riposte in Greg Orman, un uomo d’affari del Kansas che non fa parte del partito. Orman è candidato come indipendente, e secondo i sondaggi è in vantaggio su Pat Roberts, il senato-re repubblicano uscente. Politico spiega che il Kansas è uno stato storicamente conservatore. Ha votato per i repubblicani nelle ultime dodici elezioni presidenziali e non elegge un senatore democratico dal 1932. Ma ora Roberts è in difficoltà. I democratici hanno ritirato il loro candidato per riunire i voti di protesta contro di lui, e sperano che, una volta eletto, Orman si schiererà dalla loro parte.
USA
MATRIMONI PER TUTTI
Il 6 ottobre la corte suprema degli Stati Uniti ha dato il via libera ai matrimoni omosessuali in Indiana, Oklahoma, Utah, Virginia e Wisconsin. I giudici hanno deciso di non pronunciarsi sui ricorsi che questi stati avevano presentato contro le sentenze di alcuni tribunali che avevano cancellato, in quanto discriminatorio, il divieto al matrimonio tra persone dello stesso sesso. In questo modo la corte suprema ha di fatto legalizzato le unioni gay in quegli stati. Il 7 ottobre poi un tribunale d’appello federale di San Francisco, che ha giurisdizione sugli appelli presentati in nove stati, ha dichiarato illegittimo il divieto al matrimonio omosessuale in Idaho e nel Nevada, rendendo di fatto possibili questo tipo di unioni anche lì. "Oggi le unioni gay sono legali in 27 stati", spiega il Washington Post. "Ma quel numero potrebbe presto arrivare a 35, perché le sentenze della corte suprema e del tribunale di San Francisco potrebbero legalizzare le unioni gay in altri stati che in questo momento le proibiscono". Secondo il New York Times, "le sentenze rappresentano una vittoria importante per il movimento dei diritti civili. Negli ultimi dieci anni la situazione è cambiata radicalmente: nel 2004 dodici stati hanno approvato leggi che proibivano i matrimoni gay, e in otto stati si è addirittura cancellato ogni riconoscimento legale per le coppie omosessuali. Ma nel giugno del 2013 la corte suprema ha colpito il cuore del Defence of marriage act, la legge federale che definisce il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna". E anche l’opinione pubblica ha cambiato idea. Nel 1996 solo un quarto dei cittadini approvava i matrimoni gay, oggi invece i favorevoli sono la maggioranza. Secondo il Los Angeles Times la sentenza è un fatto positivo ma la corte suprema avrebbe dovuto spingersi oltre, con un provvedimento che legalizzasse definitivamente i matrimoni gay in tutto il paese.

(Le fonti di questo numero:
NYC Time USA, Washington Post, Time GB, Guardian The Observer, GB, The Irish Times, Das Magazin A, Der Spiegel D, Folha de Sào Paulo B, Pais, Carta Capital, Clarin Ar, Le Monde, Le Monde Diplomatique ,Gazeta, Pravda, Tokyo Shimbun, Global Time, Nuovo Paese , L’Unità, Internazionale, Il Manifesto, Liberazione, Ansa , AGVNoveColonne, ControLaCrisi e INFORM, AISE, AGI, AgenParle , RAI News e 9COLONNE".)

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