11179 Segnali di guerra civile in Turchia?

20140520 14:22:00 red-emi

La settimana appena trascorsa è stata, in Turchia, forse la peggiore da alcuni anni a questa parte. Probabilmente, la peggiore persino da quando Erdogan si è insediato ormai più di dieci anni fa al Governo. Gli avvenimenti, con la tragedia dei minatori di Soma, sono noti a chiunque segua minimamente l’informazione quotidiana.

Vale allora la pena piuttosto concentrarsi un po’ sulle dinamiche complessive della politica e della società turca, per tentare di capirne le prossime linee di evoluzione.
Per intanto, la tragedia di Soma ha confermato, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno e a dispetto della retorica governativa (che tanti ha affascinato, specie tra i media, in Europa almeno fino allo scoppio della crisi del Gezi Park), che le condizioni di vita in questo paese, sotto svariati profili, sono state sì in crescita nel periodo dell’AKP, ma tuttora lungi da poter agganciare livelli e standard di vita, in particolare poi ci riferiamo agli standard di sicurezza lavorativa, tipici dell’Europa occidentale. Per arrivarci, i turchi dovranno percorrere un cammino lungo, molto lungo e peraltro costellato da “crisi”, nel senso che questa parola possiede in quanto fenomeno che, una volta attraversato, può generare “crescita”. In questa prospettiva, è urgente un massiccio investimento pubblico sull’istruzione, un settore che non è a tutt’oggi prioritario nel sistema di relazioni politiche, sociali e istituzionali turco. Molti vedono in questo settore, al solito, soltanto una possibilità di business. Qui davvero occorre un cambio di impostazione.
Ciò detto, sempre in termini generali si può aggiungere che anche nel corso della tragedia dei minatori di Soma, la Turchia si è confermata, forse non diversamente comunque da altri Stati, un paese che, nella letteratura storiografica, potrebbe definirsi asincronico. L’asincronia di questo paese, particolarmente rispetto al mondo occidentale, non deriva da oggi. È un problema che risale almeno al XIX secolo, quando ci si iniziò a render conto che l’Impero Ottomano aveva accumulato un notevolissimo ritardo in confronto ai paesi che marciavano verso lo stato di diritto e la democrazia. Ma in questo caso il problema non è soltanto di asincronia internazionale, sia pure molto grave nel caso della Turchia giacché i turchi non sono riusciti a porvi rimedio, ma è anche, a ben vedere, di asincronia interna. Il Paese non è stato in grado, infatti, di fermarsi a riflettere tutto assieme, nella sua interezza, davanti alla tragedia in corso (che peraltro ancora non si è conclusa, non essendo definitivo il bilancio delle vittime). Certo, è vero che il Governo ha proclamato tre giorni di lutto nazionale, ma alcune parti sociali (soprattutto gli imprenditori del divertimento), ancorché in silenzio, hanno proseguito la loro attività perché il business non si può fermare mai in Turchia. Anche in questo caso allora resta vero che viviamo tutti nel tempo presente, ma ognuno poi vive un suo presente molto spesso diverso da quello degli altri.
La reazione alla tragedia di Soma è stata, sul piano politico, alquanto contrastante, a conferma tutto sommato dell’asincronia sociale appena descritta. Erdogan, ovviamente per suo tornaconto politico, ha cercato da una parte di stare vicino ai familiari delle vittime (e non è da escludere che si tratti di suoi ormai ex elettori), da cui però è stato violentemente contestato, e ha inoltre tentato, dall’altra parte, di minimizzare la vicenda sostenendone la “normalità”, citando esempi del XIX secolo britannico, salvo poi prendere a botte, insieme ai suoi consiglieri, qualche malcapitato contestatore. Il CHP è uscito rafforzato da questa vicenda, perché poche settimane prima aveva segnalato i problemi di sicurezza della miniera e la sua proposta di una commissione di verifica era stata respinta dall’AKP. Le forze di estrema sinistra, sparigliate in partitini poco significativi, hanno ripreso le violenze di strada, con notevole intensità ad Ankara, Istanbul e meno a Izmir.
In questa prospettiva, ciò che si può dire è che la situazione, per ora, non pare destinata a smuoversi perché, nonostante tutto, Erdogan è troppo forte elettoralmente, in special modo nel centro dell’Anatolia come confermano le ultime elezioni amministrative, per essere scalzato via. Stando così le cose, le violenze politiche urbane non potranno che proseguire, anche in vista dell’approssimarsi del primo anniversario del Gezi Park a fine maggio. È molto probabile, peraltro, che Erdogan non si candidi più alla presidenza della Repubblica il prossimo agosto, in quanto non è riuscito a portare a compimento la riforma presidenzialista della Costituzione e quindi non vorrà scendere dalla plancia di comando governativa, specialmente nel momento in cui il suo potere è messo in contestazione violenta come oggi.
Quanto al CHP, è del tutto evidente che sta tentando, stando però in mezzo (posizione alquanto difficile da coprire in verità), di mantenere una barra dritta volta a mantenere la crisi che la Turchia sta attraversando all’interno delle istituzioni e del quadro parlamentare. È tuttavia parimenti chiaro che una simile linea rischia di non portare il CHP da nessuna parte, a meno che non si voglia sperare nell’implosione del partito di Erdogan (il che comunque non è detto che avvantaggi il CHP, poiché una parte dei voti di Erdogan potrebbe tranquillamente rifluire verso il Movimento Nazionale, MHP, di estrema destra, movimento, questo, per ora non al centro degli eventi in corso, segno che i dirigenti dell’MHP stanno attendendo per capirne il decorso). Per quanto riguarda le formazioni di estrema sinistra, il problema è complesso dal momento che qui si verificano due dinamiche. Per un verso, non vi è alcuna tendenza visibile in atto (perlomeno adesso) alla unificazione di questa miriade di sigle, sulla falsariga di quanto fatto viceversa in Grecia con Syriza se ci è consentito il raffronto. Per altro verso, l’elevatissima soglia di sbarramento per l’ingresso in Parlamento non consente a queste formazioni l’accesso alla rappresentanza, mentre una forza di sinistra finalmente unificata potrebbe invece raggiungere la soglia, soprattutto se essa fosse finalmente abbassata come da tempo chiedono in tanti.
Allora, in un quadro simile in cui Erdogan non ha alcuna intenzione di dimettersi, il CHP non riesce a scalzarlo e le formazioni di sinistra, prive di rappresentanza e di sponda, escono in strada appena possono per manifestare con scontri costanti con la polizia, è facile prevedere che la situazione possa, presto o tardi, degenerare in un conflitto civile di tipo terroristico. Ciò che tra l’altro non sarebbe una novità della storia turca.
Naturalmente, questo tipo di previsione è un po’ facile da azzardare. Viene da dire assai agevolmente che i segnali ci sono tutti, quelli ora descritti e altri che se ne possono aggiungere. In particolare, un’economia che non raggiunge più i tassi di crescita di pochi anni fa, con un incremento del PIL che oscillava annualmente tra l’8 e il 10%. I ritmi nei prossimi anni saranno molto più bassi, benché sempre in crescita, dunque non proprio sufficienti a riassorbire la disoccupazione che resta sempre alta. Un altro elemento di accentuazione della crisi è dato altresì dall’inesistenza di una linea divisoria tra l’AKP e il mondo imprenditoriale. La tragedia di Soma, con i legami tra il proprietario della miniera e il partito, ha svelato con ancor più forza ed evidenza che l’AKP è un partito guidato dagli interessi imprenditoriali immediati, interessi che cercheranno di resistere fino all’ultimo minuto possibile tranne poi abbandonare Erdogan al suo destino quando questo sarà stato ormai tracciato in maniera irreversibile. Erdogan, infine, andrà incontro al suo destino e non farà mai un passo indietro: da una parte, perché ciò corrisponde al suo carattere, alla sua psicologia e forma mentis; dall’altra parte, perché per l’appunto a ciò sarà sospinto dalla tutela degli interessi economici e imprenditoriali, in primo luogo, suoi propri e, in secondo luogo, del mondo economico che gli sta accanto e che, grazie al suo sistema, è riuscito a ottenere commesse, prebende e favori.
Certamente, non è detto che le cose vadano esattamente così. È anche possibile che vi sia una sterzata dovuta a fattori esterni. In primis, non è da escludere, come si è già detto in passato, che gli americani non stiano tentando già oggi di trovare in Gulen un’alternativa più moderata a Erdogan nel campo politico conservatore, un’alternativa che comunque Erdogan tenterà di sopprimere sul nascere con tutti i mezzi a disposizione. In secundis, non si può totalmente escludere nemmeno l’ipotesi che la Turchia sia risucchiata in un conflitto regionale. Nondimeno, una simile prospettiva appare oggi meno concreta rispetto a tre anni fa, giacché la crisi interna turca ha costretto Erdogan a concentrarsi più sulla politica interna che su quella internazionale, tant’è vero che il Ministro degli Esteri, Davutoglu, ha perso almeno per ora parecchia visibilità.
Un’alternativa politica potrebbe imperniarsi sul CHP. Se questo partito, difatti, fosse capace in un lasso di tempo ragionevole di disincagliarsi, una buona volta, dalle secche del kemalismo, stimolando i partiti alla sua sinistra ad allearsi tra loro e col CHP stesso e, per di più, fosse capace di tendere la mano al partito dei curdi (BDP) in una prospettiva di governo nazionale progressista, Erdogan potrebbe iniziare ad avere elettoralmente le ore contate.
Ci sia consentito, però, di dubitare di questa prospettiva. Innanzitutto, di dubitare che il CHP sia in grado di fuoriuscire dal kemalismo, perché i suoi militanti non hanno una base culturale diversa da questa e non pare che se ne stiano formando una alternativa. Poi, che sia in grado di farlo con la rapidità necessaria imposta dalla gravità della situazione. Sicché la prospettiva che al momento appare più probabile è quella di un inasprimento della svolta autoritaria di Erdogan, già iniziata dalla fine del 2013, cui faccia da contraltare un pari inasprimento della lotta politica, in modo magari improvvisato ma ancor più violento, da parte delle formazioni di estrema sinistra.
La fase successiva alle elezioni presidenziali di quest’anno potrà darci una prima, anche se forse ancora non del tutto esaustiva, risposta alla domanda sollevata come titolo di questo articolo.(di Karl GZ )

 

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