11101 ITALIA – TRETENNI E QUARANTENNI HANNO CONQUISTATO IL POTERRE. E ORA? ….

20140321 22:37:00 red-emi

SIAMO ROVINATI, CI PIACEVA DI PIU LAMENTARCI. MA NOI SIAMO D’ACCORDO A FARCI SPOLPARE?
1 – IL ministro? Ma che, sei matto?». B. è un grande amico mio, ha quarantani, è III i romano, sta facendo una rapida e meritata carriera nell’unica tecnostruttura rimasta in un Paese di tensostrutture, ci vediamo per un aperitivo a Monti proprio il giorno dopo il giuramento di Matteo Renzi, cioè 24 ore dopo l’arrivo dei Giovani al Potere, e cioè giovani mica tanto, i nostri coetanei insomma; evento comunque che ci angoscia molto, se ci mettiamo qualche bicchiere per ammetterlo sinceramente. «Ma che, sei matto?», mi dice, perché per scherzo gli ho chiesto se lui, richiesto, lo farebbe, il ministro
2 – LA GIVENTU’ RENZIANA faccia politica altrimenti sara’ la solita okkupazione.
“professo’, e vedi ‘n po’da levatte de mezzo”.
3 – IDEE, esentasse per i giovani talenti sottopagati.

1 – IL MINISTRO? MA CHE, SEI MATTO?». B. è un grande amico mio, ha quarantani, è III i romano, sta facendo una rapida e meritata carriera nell’unica tecnostruttura rimasta in un Paese di tensostrutture, ci vediamo per un aperitivo a Monti proprio il giorno dopo il giuramento di Matteo Renzi, cioè 24 ore dopo l’arrivo dei Giovani al Potere, e cioè giovani mica tanto, i nostri coetanei insomma; evento comunque che ci angoscia molto, se ci mettiamo qualche bicchiere per ammetterlo sinceramente. «Ma che, sei matto?», mi dice, perché per scherzo gli ho chiesto se lui, richiesto, lo farebbe, il ministro.
Io e B. da qualche giorno siamo in preda ad ansie nuovissime: io ho appena letto sul Sunday Times Magazine una guida per il maschio che si avvia ai quarant’anni – ne ho 39 – e dice che devi smettere di fumare, che devi smettere di bere, che la muscolatura si riduce di un 1 per cento l’anno così come il testosterone. B. invece ha appena finito un trasloco, ma soprattutto è stato appena promosso a dirigere un ufficio importante della sua tecnostruttura; questa cosa lo angoscia molto, si sente addosso una grande responsabilità, pur essendo molto preparato, e io penso e gli dico che sarebbe un ottimo ministro dell’Economia, «se fossimo in un Paese normale», che è il solito refrain che ci siamo detti mille volte. Solo che questa volta potrebbe capitargli sul serio. O meglio, potrebbe capitare a qualcuno della nostra generazione. E il salvifico "in un Paese normale" adesso ci fa paura. B. dice appunto «ma che, sei matto?». Il fatto è – ce ne rendiamo conto subito davanti a un prosecco scadente, rifiutando il piattino di aperitivi a pagamento ma chiedendo patatine e olive gratis (l’austerity ormai introiettata) – che l’arrivo dei giovani al potere, cioè della nostra generazione, e magari la trasformazione in un Paese normale, non ci piace per niente. Cioè, c’è modo e modo. E non è una cosa solo nostra.
Sono giorni di consultazioni, di squadre di Governo, si dice che molti (Oscar Farinetti di Eataly, Renzo Rosso di Diesel) abbiano rifiutato; io faccio una mia squadra di fanta calcio governativa: alla mia amica R., che è un’efficientissima organizzatrice e assistente, fino a qualche mese fa dicevo che sembra la poliziotta-coach cattiva che in Lunar Park la casa editrice mette alle costole di Bret Easton Ellis – narratore tossico; adesso le ho detto che la metterei agli Interni al posto di Alfano. Ad A., invece, che è un grande ufficio stampa e sa sempre tutto di tutti facendo finta di non sapere niente, gli darei certamente la delega ai Servizi, invece di Minniti. Loro non si divertono per niente, però. R. dice, seria: «Preferivo la coach cattiva di Bret Easton Ellis».
Insomma, siamo abbastanza ubriachi, a questo punto, per ammetterlo. Eravamo contenti di essere fuori dai giochi. C’era qualcosa di dolce nella decadenza, o almeno c’era fino a qualche giorno fa, qualche giorno prima del 22 febbraio. Ci si sentiva comunque ancora abbastanza giovani in un Paese di vecchi (a Roma ti dicono «ce sfa questo ragazzo», nei negozi, fino a cinquantenni), però era chiaro che il nostro tempo era passato. E che l’avevamo sfangata. Oltretutto, a me e a molti di noi (i migliori?) i giovani non erano mai piaciuti. Ci piacevano i vecchi, ci piacevano gli amici dei nostri genitori, ci piacevano i nostri nonni fichissimi. I nostri coetanei, essendo come noi – per la nota sindrome di Groucho Marx -ci sembravano indegni di essere frequentati. E poi essere giovani quando eravamo giovani noi non era per niente fico: non avevamo internet, non avevamo gli iPhone e WhatsApp; non eravamo appetibili neanche come sbocco di marketing, figuriamoci a noi stessi. Adesso che finalmente eravamo invecchiati abbastanza, nel Paese dei grandi vecchi, avevamo stabilizzato i nostri baricentri interiori, progettavamo una terza età adolescenziale: proprio adesso arrivava ¡1 Governo Giovane al potere; e ci veniva chiesto di assumerci le nostre responsabilità. Col cavolo. Molti di noi piuttosto sarebbero scappati in montagna; nessuno si sarebbe preso la briga di guidare il Paese irredimibile e sfasciato coi diktat della cattiva Europa, oltretutto in tempi di viaggi al Quirinale in Smart e Panda e non in Thema e 164. Perché noi certi tempi gloriosi li avevamo vissuti, o almeno registrati: e ci piacevano le memorie di Claudio Martelli, con la villa sull’Appia Antica presa perché vicina all’aeroporto militare di Ciampino, per gli scapestrati voli di Stato, altro che spending review.
«Ma che, sei matto?», mi ripete B.; lui è già abbastanza ansiato di suo, ha quindici perso¬ne da gestire nel suo nuovo ufficio, e «ti rendi conto che responsabilità?». Ma chi glielo fa fare, a quelli, pensiamo davanti a questi prosecchi scadenti (siamo diventati tutti esperti di vini e di cibi). Ci eravamo appena abituati darwinianamente a un Paese per vecchi, ci eravamo rassegnati all’irrilevanza, la carta stampata era finita, l’unica cosa seria rimasta in questo Paese era la ristorazione, diceva appunto l’antropologa Arianna in Boris. Mentre i distretti industriali sfiorivano, noi ci eravamo inventati il distretto del lamento, con scarse sinergie e scarso valore aggiunto: però funzionava, era anticiclico. Era bello, la- meritarci. Sobriamente. Certo non coi toni inurbani e millenaristi di molti, non firmando appelli né stigmatizzando fughe di cervelli. Neanche costruendo carriere televisive o giornalistiche sul lamento, come molti hanno fatto; fondatori di Fondazioni under 30 e 35 e 40, mano a mano che l’età avanzava. Saccheggiatori di un incolpevole Cormac McCarthy e declinando all’infinito il suo titolo. Era pieno, fuori, di denunciatori di sfruttamenti e finte partite Iva e abusivismi e cali center e precariati. Si creavano anche carriere molto originali, vituperando caste anche giornalistiche, riuscendo così finalmente a entrare a farne parte.
Noi invece ci si lamentava calvinisticamente solo in privato, neanche risparmiandoci: in un gigantesco riflusso, si lavorava, si compravano biciclette e case coi mutui, si votava alle primarie, si viveva di memorie, si decideva di vivere a Roma tra le rovine, ci si fidanzava, si soffriva. Si applicava il pattern esistenziale dei Tagliati Fuori non solo alle professioni, ma anche alle afflizioni, e, co.co.pro. nel lavoro, si era freelance anche nell’amore, e si sceglievano per i mutui durate trentennali e per le relazioni tassi variabili puri, senza Cap. Si scommetteva sulla recessione infinita, abituati al format infinito della politica Carta Argento; che però un grande vantaggio l’aveva: non ci avrebbe mai chiesto di scendere in campo, di sporcarci le mani. Invece di un Grande Fratello, c’era sempre stato un Grande Anziano al comando: c’era un Grande Presidente An¬ziano al comando, uno Sporcaccione-Anziano in gara da vituperare, un Aspirante Emiliano Anziano Per Bene che non avrebbe mai vinto, sostenendo che «le campagne elettorali non spostano voti» e poi facendo campagne tv col prete della sua infanzia, che diceva che era comunista anche da piccolo, però che bravo bambino (nel frattempo l’iber anziano Andreotti moriva, assai dolcemente, e il nostro regista nazionale più importante ne traeva immagini sontuose).
E noi quasi quarantenni ci sentivamo al caldo e al sicuro, eravamo contenti, perché eravamo nel frattempo troppo giovani per interferire con la realtà e cambiarla, e troppo vecchi per scardinarla. Non eravamo per niente nativi digitali, non eravamo neanche nativi antiberlusconiani. Eravamo compromessi con l’antico regime, come dice nel Gattopardo il principe di Salina rifiutando – al cavaliere Chevalley che tenta di convincerlo -un seggio al Senato torinese. Senato gratuito e onorifico, come lo vorrebbe oggi il Premier Giovane. Anche noi eravamo compromessi: eravamo nati nel boom, e avevamo incontrato molti mali di vivere a nostra insaputa: avevamo visto la guerra in Bosnia durante la maturità, Mani pulite e le bombe i primi anni di università, e le Torri gemelle e l’euro appena sbarcati nel mondo del lavoro. Appena ci avevano informati della Fine della Storia, la Storia era ritornata molto carica, insieme anche al suo bel Clash of Civilizations, per usare due titoli molto in voga un tempo.
Eravamo sempre in ritardo: ci eravamo appena abituati a un premier che litigava con Reagan, e subito ecco le monetine all’hotel Raphael: si sperava nella Seconda repubblica, e poi ecco il ventennio berlusconiano, e poi le mignotte, e poi l’euro cattivo e l’austerità, i Governi tecnici, e infine i Giovani. Quando erano arrivati i Giovani noi eravamo già sfiniti. Non avevamo più la facoltà di mentire a noi stessi (sempre // Gattopardo), ne avevamo viste troppe o troppo poche, mentre il premier giovane a quarant’anni aveva «la forza di un ragazzo ma l’esperienza di un uomo», come Alberto Sordi-Dentone ne {complessi. Noi invece ci sentivamo come Nathan Zuckerman nel rothiano il fantasma esce di scena: vecchi inermi con problemi prostatici, alle prese con rivali muscolosi e sgomitanti. Le nostre energie le avevamo perse per strada: non si poteva più fare la svalutazione. Rimanevano la ristorazione e la lamentazione.
Se l’età imperiale austriaca, come scrive Stefan Zweig, un grande lamentoso, ne // mondo di ieri. Ricordo di un europeo, era «l’età della sicurezza», noi ci eravamo sparati tutta quella dell’insicurezza. Il declino italiano era stato forse meno violento di quello austriaco, magli effetti su di noi simili. «La nostra valuta circolava sotto forma di lucenti monete d’oro, assicurando così la sua immutabilità. Ognu no sapeva quanto possedeva o quanto gli spettava, che cos’era permesso e che cos’era proibito. Ogni cosa aveva una sua norma, un peso e una misura precisi», scrive Zweig nel suo libro ispiratore di un altro quarantenne lamentoso-creativo, Wes Anderson. «Que sto senso di sicurezza era il bene più alto cui potessero aspirare milioni di persone, l’ideale di vita comune». Per noi questo mondo magico, al netto degli scossoni dell’Italia nel serpentone monetario dello Sme, era finito con gli anni Ottanta, e poi erano cominciate le bolle delle dot.com e delle tigri asiatiche, e infine la crisi dei subprime e poi degli spread. Adesso, esausti, con le nostre lauree e i nostri dottorati, ci eravamo finalmente rassegnati. Un po’ di carriera l’avevamo fatta; si erano realizzati i sogni di provincia, si lavorava nei giornali prestigiosi; solo che i giornali presti¬giosi non avevano più i soldi per pagarci. Assistevamo col ghigno degli anziani, allora alle novità, e la consolazione sadica era guardare a quelli che venivano dopo di noi.
Era anche colpa dei nostri genitori, naturalmente (e questo lamento era parte importante del distretto). E loro ci davano spesso ragione. La prima generazione – noi coetanei del Premier Giovane – figli dell’irresponsabilità. I nostri genitori erano stati architetti e avvocati e ingegneri e insegnanti e self mode men, avevano fatto il Politecnico e la Statale okkupata e gli esami di gruppo, avevano soprattutto molto contestato, e a quarantanni finalmente si erano messi a lavorare o avevano smesso di lavorare ed erano andati in pensione o in campagna o a Ibiza, e oggi vivevano davanti a Sky a guardare il tennis e il calcio e orgogliosamente fieri di essere gli ultimi a percepire pensioni italiane decorose, accantonate quando si poteva stampare moneta e fare spesa pubblica. Da baby boomers a baby pensionati, senza passare dal senso di colpa, loro, verso genitori che viceversa avevano fatto la guerra, messo su imprese e negozi, spesso più volte causa bombardamenti, mangiando non biologico e forse fumando anche, campando ugualmente fino a novant’anni e amando senza complessi le belle macchine e i bei viaggi e i vestiti. Noi volevamo stare sempre con loro, i nostri nonni da Peggiori intenzioni, e mai coi nostri genitori da ceto medio riflessivo. Ci piacevano i vecchi, lo avevamo sempre saputo, e ci sembrava di essere nel Paese giusto per questo tipo di culto: compromessi con l’antico regime, paralizzati, un po’ depressi, ma vivi. Come la mummia leopardiana, «lieta no, ma sicura dall’antico dolor». Adesso, così ci coglieva il Governo dei Giovani. Arrivavano a chiederci coi loro abiti sgargianti e le loro Smart di credere e combattere. Mentre noi volevamo solamente stringerci felici in tinello a guardare Renato Zero che cantava / migliori anni della nostra vita. Come il nostro anziano più prestigioso, già reso immortale dal nostro regista nazionale più importante, che aveva preso l’Oscar con una storia di un vecchio nel pieno di una elegante decadenza tra le rovine. ( di Michele Masneri)

2 – LA GIVENTU’ RENZIANA FACCIA POLITICA ALTRIMENTI SARA’ LA SOLITA OKKUPAZIONE.
“professo’, e vedi ‘n po’da levatte de mezzo”. L’immagine migliore da cui partire per comprendere qualcosa di più sulla vera natura politica del Governo Renzi, o se volete del Governo Leopolda, o se volete del Governo Birri Bum Barn, è quella che ognuno di noi ha vissuto durante gli anni del liceo in una fase particolare dell’anno. Subito dopo l’estate. Quando l’autunno arriva, le foglie cadono, le vacanze sono lontane, Io studente ribelle non sa più che cosa scrivere sulle false giustificazioni, e quando, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, si verifica sempre la stessa scena: un gruppo di studenti sale le scale della scuola, arriva di fronte alla stanza del preside, apre senza bussare la porta, si avvicina con sguardo minaccioso al capo dell’istituto, lo fissa negli occhi e gli dice quella frase lì: «Ah professo’, a’scola è occupata, mo vedi ‘n po’da levatte de mezzo».
In un certo senso, l’arrivo al Governo del giovane Renzi, con la sua squadra di giovani ministri e la sua truppa di giovani dirigenti che con il linguaggio dei giovani si rivolge ai giovani con un look giovanile per risolvere i problemi dei giovani e riavvicinare i giovani alla politica, ricorda molto la scena dei ragazzi che ogni autunno arrivano di fronte alla stanza del preside per prendere ‘e chiavi d’a scola, e occupare per un paio di settimane le aule del proprio istituto. E non è difficile immaginare che il preside della Repubblica, al secolo Giorgio Napolitano, quando lo scorso 22 febbraio si è ritrovato a concedere le chiavi della scuola a questo gruppo di ragazzi – un gruppo di ministri più giovani di lui di una quarantina d’anni (età media 47,8) composto per la prima volta da politici nati negli anni Ottanta, guidati da un signore che non ha neanche la metà dei suoi anni (88 anni Re Giorgio, 39 anni Renzi), che ama farsi ritrarre sui giornali patinati vestito da Fonzie e con il chiodo di pelle, che ha ricevuto la fiducia da un gruppo parlamentare (quello del Pd) che viaggia intorno ai 49 anni di età media – sia stato attraversato da un sentimento a metà tra la rassegnazione, la speranza e lo smarrimento riassumibile più o meno cosi: Santo Cielo, che Dio me la mandi buona.
I giovani, già. E allora ecco il punto: ma una volta esauriti i corsi di graffiti, le lezioni di cinema bulgaro, i laboratori per imparare a costruire collanine di perle, gli occupanti avranno o no la forza di ritardare lo sgombero della polizia, della "pula", e portare avanti con successo la loro autogestione? Detto ancora meglio: una volta esaurita la formidabile fase politica del «oooooh» – oh come sono giovani questi ministri (il Governo Renzi è il più giovane della storia italiana), oh come è giovane questo Matteo Renzi (Renzi è il premier più giovane della storia italiana), oh come è giova¬ne questa Marianna Madia (33 anni, ministro per la Pubblica amministrazione), oh come è giovane questo Maurizio Martina (36 anni, ministro dell’Agricoltura), oh come è giova¬ne questa Federica Mogherini (41 anni, ministro degli Esteri), oh come è giovane questa Maria Elena Boschi (33 anni, ministro per le Riforme), oh come è giovane questo Luca Lotti (31 anni, sottosegretario alla presidenza del Consiglio) – il Governo Bim Bum Barn ha nel suo Dna i geni giusti per dimostrare che l’occupazione del Governo è si anomala ma non è abusiva, e dunque non merita di essere sgomberato dalla pula?
In altre parole ancora: a parte l’essere giovani e carini, c’è qualcosa in più che tiene in¬sieme i ragazzi del Governo Leopolda? Dal punto di vista politico la questione è com¬plicata. E il semplice fatto, per esempio, che siano sette su otto i ministri del Pd che alle primarie del 2012 hanno votato per Bersani, e non per Renzi, è di per sé un segnale che potrebbe incoraggiare i teorici della mozio¬ne "Governo Marinetti": ovvero i sostenitori della tesi che lo sterile giovanilismo futurista dei rottamatori sia l’unico fragile motore del Governo Renzi. La tesi è affascinante ma per¬de di vista una questione importante che riguarda il tratto fondamentale del Gabinetto Bim Bum Barn. E da questo punto di vista l’immagine della scuola occupata ci torna utile se pensiamo che la vera missione della Gioventù Renziana è quella di ricucire una storica ferita aperta nel nostro Paese durante il ’68.
«Se ci pensate bene – racconta Andrea Guiso, docente di Storia contemporanea presso l’Università Luiss e autore di numerosi libri sull’evoluzione culturale della sinistra italiana – l’Italia, a differenza di quasi tutti i Paesi simili al nostro in cui si sono registrate profonde mutazioni culturali innescate dalle proteste dei movimenti studenteschi, è l’unico Paese in cui il ’68 non ha coinciso con un rafforzamento del ruolo dei partiti nella vita pubblica, ma con un rafforzamento dei movimenti antipolitici. Da quel momento in poi, tra un girotondo con Nanni Moretti, un sit-in con Luca Casarini, un caffè con Barbara Spinelli, una passeggiata con Antonio Ingroia, è diventato un dogma, un mantra, l’idea che l’u-nico modo per ridare legittimità alla politica sia servirsi di strumenti esterni alla politica. Da questo punto di vista, la Gioventù Ren-ziana ha il compito di ricucire quella ferita, dimostrando l’inciviltà della società civile e affermando quello che nessuno è incredibilmente riuscito a fare negli ultimi vent’anni: la superiorità della classe politica, la rottama-zione della società civile, la riconquista di uno spazio politico».
La pista che suggerisce il professor Guiso è suggestiva, consente un passo avanti rispetto alla mozione Marinetti e fa osservare la carta d’identità dei ministri con una logica diversa. Con la logica di una classe politica che non condivide solo l’essere quelli del «Noi siamo i giovani / i giovani più giovani ‘ siamo l’esercito / l’esercito del surf», ma che vede un suo punto di forza nell’essere una sorta di "Governo WhatsApp", e nell’essere cioè una squadra che vede nella propria anagrafe la carta giusta per inviare messaggi con mezzi di comunicazione non convenzionali.
MARSHALL MCLUHAN diceva che il medium è il messaggio e in effetti nel Governo Renzi l’età è il messaggio in un senso preciso. Non nel senso della nostra «straordinaria inesperienza» (deliziosa frase che Marianna Madia regalò ai cronisti ai tempi della campagna elettorale di Veltroni) messa a disposizione del Paese. Ma nel senso che la generazione arrivata al Governo, per l’Italia, è una generazione particolare che per la prima volta arriva in Aula Magna senza essere costretta a imitare le vecchie occupazioni del passato. Che se pensa a Berlino non pensa al Muro, e pensa più ai locali del Mitte e alla stralunata voce mondiale di Fabio Caressa che al violoncello di Rostropovich di fronte al Checkpoint Charlie. Che se sente nominare la parola "Picei" pensa più al personal computer che al Partito comunista. Che se sente nominare la parola "De" pensa più ai libri di storia che alle pagine dei giornali. Che se pensa a Milano pensa più a una sfilata di moda che a una sfilata in procura. Che se pensa a Palermo pensa più al presidente Maurizio Zamparini che al presidente Salvo Lima. Che se pensa alla Prima Repubblica pensa più alla Repubblica di Eu-genio Scalfari che alla Repubblica di Oscar Luigi Scalfaro. Una generazione insomma cresciuta più con Bini Bum Barn che con Un giorno in pretura. Una generazione, per capirci, che in Berlusconi non vede solo l’incarnazione del male assoluto, ma vede anche l’inventore di una tv che ha offerto all’adolescenza di molti ministri un’alternativa valida ai soporiferi caroselli di mamma Rai. Una generazione che, infine, i politologi con molte pipe in bocca non faticherebbero a definire – che Dio ci perdoni il termine – post-ideologica: maturata cioè all’interno di «esperienze aggregative» diverse dalle sezioni e dai circoli di partito, e che non si trova in sintonia solo con l’età media della Leopolda, ma si trova in sintonia anche con l’età media degli elettori italiani (che è 51 anni).
L’obiezione che si potrebbe fare a questo piccolo affresco è scontata e non ci vuole molto a capire che molti dei giovani chiamati al Governo sono arrivati a Palazzo Chigi con molti abiti vintage e molti pantaloni a zampa d’elefante. I percorsi delle Mogherini, dei Martina, degli Orlando e delle Madia sono tutto che post.ideoligici e la vera particolarità del GOVERNO BIM BUM BARN è che, al netto dei giubbini alla Fonzie, i rottamatori scelti per rottamare la prima e la seconda Repubblica si sono spesso formati con il calco di molti campioni della Prima e della Seconda repubblica (Piero Fassino, Pier Luigi Bersani, Walter Veltroni, Enrico Letta, Massimo D’Alema). La qualità della Gioventù Renziana, e il rischio di trasformare la leggerezza non in un punto di forza ma di debolezza, è il principale ostacolo che l’Occupatore del liceo di Firenze potrebbe incontrare sulla sua strada per evitare che il preside della Repubblica chiami rapidamente la pula per sgomberare l’aula. La storia però dice che l’unico modo per non dare forza ai teorici della mozione Marinetti, e non trasformare le aule concesse in una succursale dell’asilo Mariuccia, è mettere la straordinaria inesperienza del Governo al servizio di una missione storica. Berlusconi, con una squadra non giovane ma che per la prima volta era arrivata in Aula Magna senza voler imitare le vecchie occupazioni del passato, ci provò a modo suo nel 1994, ma poi anche per lui arrivò la pula. Renzi oggi lo fa con molti pantaloni a zampa e molte camicie vintage ma non ha scelta. E il successo del Go-verno Bim Bum Barn passa dalla capacità di ricucire la ferita aperta nel nostro Paese una cinquantina di anni fa. L’unico modo per non farsi rottamare. E l’unico modo per non ritrovarsi una mattina con il preside della Repubblica che come ogni autunno, dopo un paio di settimane di autogestione, si riprende le chiavi della scuola e guarda gli occupanti con quello sguardo li: «Ah regazzi’, il tempo è finito, mo vedi ‘n po’da levatte de mezzo». (di Claudio cerasa)

3 – IDEE, ESENTASSE PER I GIOVANI TALENTI SOTTOPAGATI.
CULTURA È UNA PAROLA CHE CHIAMA TEMPI LUNGHI, la coltivazione dei frutti della terra, che impiegano mesi a nascere e pochi minuti perché una grandinata li spazzi via o qualcuno se li unni gi. In questo momento, per la lenta coli iva/io ne di idee nuove, lo Stato ha pochi soldi. Se in passatoi! pubblico s’indebitava serenamente, e tra i vantaggi della cattiva pratica c’era la sicurezza che almeno qualche buon progetto trovasse il modo di svilupparsi, ora quella certezza è molto debole e non sappiamo con che cosa avvicendarla.
Teatri, giornali, case editrici, spazi per la musica… Perché un Paese ritrovi la forza delle idee, queste devono potersi sviluppare, senza restare schiacciate dal contesto: l’assenza di denaro pubblico, la latitanza di investitori e sponsor. Un sito letterario che cerchi di aggiornare l’alfabeto della critica non ha soldi per proseguire, i più talentuosi vanno a scrivere su un grande giornale rinunciando all’idea originale. Un teatro d’avanguardia crolla sotto i debiti, gli attori si riciclano, la visione si perde. In mancanza di soldi pubblici, le piccole incubatrici di idee nuove faticano a trovare denaro privato. Quelli che resistono lo fanno gratis, il che significa far viaggiare l’innovazione al minimo delle sue possibilità.
Sembrerebbe il momento di formulare una strategia per trovare investitori. Il problema è che nell’arte e nella cultura non si può contare sul concetto di startup, secondo cui un illuminato danaroso dovrebbe credere all’idea di un genio, e un audace investimento portare a profitti incredibili. Non è difficile che idee e visioni nuove in ambito culturale fioriscano senza portare grossi guadagni a chi ha investito del denaro (basti pensare alla scena delle "cantine" degli anni Settanta da cui emerse Carmelo Bene, il rinnovamento del teatro europeo, e qualche debito).
La cultura deve allargare l’immaginazione e continuare a regalarci la civiltà. Il che è certamente redditizio, ma di solito nel lungo periodo e secondo parametri diversi da quelli a cui si ispirerebbe non solo un’azienda automobilistica, ma anche una maison di Slow Food. Che in certi casi ci si arricchisca con la cultura è vero, ma non può essere calcolato a priori.
Oggi le nuove idee nell’arte e nella cultura sono affidate allo sviluppo di giovani pagati poco, aiutati dai genitori, costretti per sopravvivere a occuparsi al novanta per cento di altro rispetto a ciò su cui la loro forza innovativa produrrebbe effetti: sceneggiatori costretti a fare i vice di chi scrive Don Matteo per ritagliarsi il tempo di scrivere i True Detective che gli stessi committenti tremano all’idea di produrre fuori dall’etica delle buone intenzioni; nuove generazioni di ottimi scrittori che riscontrano l’assenza di riviste come Harper’s che commissionò a Wallace oltre 15 anni fa! – Una cosa divertente che non farò mai più.
Le nuove idee sono insomma soffocate sul nascere dall’assenza di denaro. C’è chi cambia lavoro, chi emigra, chi trova occupazione in templi del mainstream (giornali, tv, radio) che non hanno l’innovazione tra le proprie priorità. Di questo ci lamentiamo tutti noi che amiamo la cultura, e facciamo le vittime perché «l’Italia non è Parigi».
Il critico Daniele Giglioli, nel suo libro Critica della vittima (Nottetempo), scrive: «La vittima è nel vero per definizione. Non deve diffidare di sé. Non ha bisogno di vagliare e interpretare nulla». Le vittime del vuoto culturale italiano sono le persone che non possono formarsi o sviluppare il proprio talento. E sono quelli che non hanno i soldi per andare a vedere le mostre a Parigi e New York. Ma siccome, dice Giglioli, «chi desidera crisma di verità per il proprio discorso sarà sempre tentato dalla menzogna di spacciarsi per la vittima che non è», per estensione si sentono vittime anche i facoltosi di buona cultura che non trovano film italiani di proprio gradimento
to al cinema, coloro per i quali i supplementi culturali del nostro Paese non sono stimolanti e «ci vorrebbe un New Yorker italiano». «La mancanza di una verità, così come di un bene, indicabile in positivo e non via negationis (Roma non è Parigi…) fa del nostro un tempo di paralisi…».
Per far uscire i ricchi sensibili alla cultura da questa passiva condizione di vittime, abbiamo una proposta.
Mentre lo Stato prova a ricostruirsi, proviamo ad avviare un rinascimento culturale con un po’ dei soldi che abbiamo. Immaginiamo un mondo in cui lo Stato faciliti l’accesso di chi fa cultura al denaro di quegli amanti della cultura che vogliano diventare mecenati.
Perché mecenati e non investitori? Perché il tentativo di guadagnare da una singola impresa culturale – invece che, a livello complessivo, dalla cultura -, ne compromette il funzionamento.
L’anno scorso il Corriere scriveva che il patrimonio medio di una famiglia tedesca ammonta a 51.400 euro, quello di una famiglia italiana a 163.900: è vero che gli stipendi e il potere d’acquisto sono più bassi, ma ricchezza ne abbiamo. Bisognerebbe dare a chi può permetterselo uno strumento agile per partecipare alla sussistenza della cultura. Rendere il mecenatismo semplice come la solidarietà.
In Italia manca il concetto di legacy, l’eredità, il ricordo di sé che lascia nella comunità chi ha avuto tanto. Facendo donazioni, finanziando borse di studio, creando fondazioni: per la ricerca e la cultura. Ma guardando so lo in Italia: con il supporto di grandi famiglie sono nate Feltrinelli ed Einaudi, e Olivetti ha fatto le Edizioni Comunità, che pubblicavano Simone Weil e che oggi sono di nuovo in vita grazie agli eredi. Sono esempi grandi, ma facendo un po’ i copywriter potremmo adattare la cosa ai nostri tempi, allargarla a famiglie meno illustri e chiamarla mecenatismo cloud, oppure cloud funding, e immaginare che in cinquanta persone (e non in cinquemila, come fa il crowd funding, ma ne parliamo dopo) si possa rifare una Feltrinelli.
Allora immagina di avere un buon reddito e di doverci pagare parecchie tasse. Immagina di poter fare un’offerta detraibile dalle tasse a qualunque impresa culturale individuale o di gruppo che ti piaccia.
Vai da una delle agenzie private che mediano fra mecenati e cervelli – e che sono sotto auditing dello Stato – e dici di voler paga re 3mila euro all’anno a X.Z., quel giornalista che scrive lunghi pezzi informatissimi su un sito (che lo paga 50 euro ad articolo per quattro giorni di lavoro), mentre sul grande quotidiano fa pezzi stringati e convenzionali per 250 euro perché non gli viene chiesto altro. Il giornalista ha fatto domanda per poter esse re finanziato, c tu puoi partecipare al sostentamento del suo lavoro, perché la sua ricerca non dipenda dal poco coraggio del quotidiano nazionale o dai pochi soldi del sito. Tu e una manciata di altre persone gli pagate un anno di lavoro. O più.
Oppure: sei stato in un teatro periferico che con la sua ricerca sta incubando qualcosa di interessante, sei disposto a offrire 1.000 euro all’anno. Vai nelle agenzie, cerchi gli artisti, li finanzi in cambio di niente, tranne la soddisfazione di aiutare un talento a sopravvivere. Puoi finalmente essere certo che qualcosa di piccolo e innovativo avrà una possibilità di svilupparsi e non soccombere di fronte alle vie già rodate e finanziate delle grandi produzioni. Perché l’ambizione solo da una parte? Perché se alcuni sognano di diventare Jackson Pollock, qualcun altro non dovrebbe aspirare al ruolo di Peggy Guggenheim?
Immagina di innamorarti di un artista, di un intellettuale, e di poter andare sul suo sito o sulla sua pagina Facebook, farti reindirizzare facilmente sulla pagina della sua agenzia e da lì pagargli una borsa di studio. Non una do
nazione: non 10 euro. Pensa se sul sito di una piccola rivista che ti piace esistesse la pagi¬na per diventare un sostenitore. Realtà piccolissime dal punto di vista economico – un teatrino, un giornale, un sito. Realtà che dieci persone con dei soldi da parte potrebbero personalmente tenere in vita. Dinamiche che altrove sono alla base delle iniziative più innovative. Conosciamo personalmente i fondatori dell’inglese White Review e dell’americana N+l, riviste che si sono imposte ultimamente nella vita culturale dei rispettivi Paesi e che fanno affidamento per lo più su donazioni private, con forme di fundraising, ma anche con la presenza di un numero definito di finanziatori che pagano gli stipendi (è il caso di N+l, dove i generosi benefattori non hanno alcun peso editoriale).
Che differenza c’è tra la nostra idea e il crowd funding? Il CF è bello, dà vita a iniziative lodevoli, è importante. Il CF è basato sul concetto di folla: per partecipare alla produzione di un documentario, io metto 10 euro, metto 100 euro, oppure 1.000, o 10mila. Insieme ad altri. E una folla, è anonima. Il cloud funding che abbiamo in mente è imparentato al crowd funding, ma parte dal riconoscimento che viviamo in un Paese diviso in classi. E la classe più abbiente sembra non aver maturato a sufficienza l’idea adulta di poter lasciare un segno attraverso la cultura. Meglio: se per la solidarietà esiste un’estetica del dono, per la cultura non c’è ancora, e quella del crowd funding non basta. Un altro motivo per cui il crowd funding non basta è che esistono progetti che hanno bisogno di pochi soldi, ma in modo stabile. Un progetto di due, tre, cinque anni. Un buon esempio sviluppatosi in Italia negli ultimi anni è Che fare: un bando che dona 100mila euro a un progetto culturale, aiutando nel frattempo gli altri finalisti a farsi conoscere. La giuria è competente, la direzione culturale è di Marco Belpoliti. Ci sono dentro la Regione Puglia, l’Enel, Il Sole 24 Ore, l’associazione culturale doppio zero, donazioni private e diversi centri indipendenti per la ricerca e l’innovazione. Se il modello di Che fare si estendesse, se vedessero la luce altri progetti simili, nell’ambito di una legge quadro, per raccogliere denaro per chi fa la cultura, non sarebbe ancora il paradiso terrestre, ma qualcosa si rimetterebbe in moto. Sogniamo per le arti un keynesismo di secondo grado: una grande spesa pubblica fatta dai privati, ma con la mediazione di uno Stato che offra gli strumenti per finanziare la cultura nella maniera più semplice e trasparente possibile. (Nicola Lagioia e Francesco Pacifico)
(Fonte: Il Sole 24 Ore)

 

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