11039 LA SFIDA

20140214 15:49:00 guglielmoz

-L’azzardo del l’uomo solo al comando
-CAMBIALE IN BIANCO PER MATTEO NO DI CIVATI: «SEMBRA SHINING» Fassina alla fine si astiene; «Incredibile per noi votare sì, nel discorso del segretario non c’è nessuna svolta anti rigorista, per ora» / Sinistra/(SEL): E CHIARO CHI SE NE VA MA NON CHI STA ARRIVANDO…..
-QUELLA FERITA CHE SI DOVEVA EVITARE. E’ certo, la lotta politica non è mai un pranzo di gala e molto spesso è «merda e sangue», come diceva un vecchio socialista della Prima Repubblica
-La base è «DELUSA» I circoli sono vuoti. Il pomeriggio più atteso è vissuto dai militanti i sui social network: «Siamo arrabbiati, che fate?»

1 – L’AZZARDO DEL L’UOMO SOLO AL COMANDO / Per profumare l’odore acre della manovra di palazzo, per dissimulare la brutalità di uno scontro fratricida, per coprire la gravità di una crisi extraparlamentare decisa da un solo partito che smentisce le primarie e si fa beffe del drammatico distacco tra eletti e elettori, nel conclave del Pd la parte del leone l’hanno fatta gli incolpevoli poeti. A segretario-sindaco-futuro premier ne ha tirati in ballo due o tre, per fargli dire che ambizione smisurata e coraggio sono due virtù, proprio quelle che lo spingono a cogliere "l’attimo fuggente" per disarcionare Enrico Letta dalla poltrona di palazzo Chigi.
L’atto finale è durato un paio d’ore e pochi minuti dopo la votazione di un ordine del giorno della direzione che gli dava il benservito, il presidente del consiglio ha annunciato la formalizzazione delle proprie dimissioni, oggi, nelle mani del Capo dello Stato.
Una maggioranza che un tempo si sarebbe definita bulgara ha applaudito la scelta di una crisi a prescindere (anche Totò era un poeta ma non ha avuto l’onore della citazione). A prescindere perché non una parola è stata spesa per i contenuti di questo governo renziano (e tantomeno del pro-gramma offerto da Letta alla discussione). A prescindere perché niente è stato detto sullo schieramento alternativo che dovrebbe sorreggere e giustificare questo cambio della guardia con incorporata garanzia di blindatura fino al 2018. Tanto che la sinistra dei Cuperlo e dei Fassina ha messo agli atti che se la discontinuità rivendicata da Renzi per la sua ascesa al comando è quella ascoltata da alcuni interventi in direzione, «siamo più a destra» del governo che oggi se ne va Ma solo Civati (con i sedici che hanno votato contro) non si è unito al coro. Denunciando il rischio che tutto il Pd, e quel che più conta il paese, affondi definitivamente nella palude. Dove solo un animale può sopravvivere: il caimano.
In realtà l’unica vera discontinuità del governo renziano sta nella sottolineatura della natura non più tecnica, emergenziale, ma politica e di legislatura dell’operazione in corso. In altre parole non più un "governo del presidente", con Napolitano ispiratore della sua missione e di alcuni ministri-chiave, come è avvenuto per il governo Letta. Proprio l’ipotesi più invisa ai diversamente berlusconiani che ieri, con Alfano, hanno scartato questa ipotesi («accetteremo solo un governo d’emergenza»), e chiesto, come anche Berlusconi, di parlamentarizzare la crisi, mettendo sul tavolo la carta delle elezioni anticipate.
Per il condannato resuscitato da Renzi al ruolo di padre costituente delle riforme si apre una fase politica promettente. Poter sparare non su un traballante governicchio di piccole intese ma sul bersaglio grosso. Oltretutto avendo dalla parte del manico quella maggioranza per le riforme di cui è sempre stato un esperto affossatore.
Dieci mesi dopo la disastrosa scelta delle larghe, poi piccole, intese la fase che si apre è figlia naturale di quel peccato originale, ne porta addosso tutti i segni, a cominciare dal modo, dalle forme in cui si è prodotta la crisi. In confronto, la repubblica delle banane è un faro di democrazia.

2 – CAMBIALE IN BIANCO PER MATTEO NO DI CIVATI: «SEMBRA SHINING» Fassina alla fine si astiene; «Incredibile per noi votare sì, nel discorso del segretario non c’è nessuna svolta anti rigorista, per ora» / Sinistra/(SEL): E CHIARO CHI SE NE VA MA NON CHI STA ARRIVANDO ( di Daniela Preziosi da Il Manifesto)
Il capolavoro, per il bimbaccio che prende la rincorsa per Palazzo Chigi saltando a pie pari il voto, che ammette di tentare un doppio carpiato con avvitamento, e di «essere cresciuto» – e infatti per la prima volta indossa la giacca sopra la camicia bianca, dress còde della rottamazione – è quando dice «questa discussione nasce da una richiesta della minoranza». È un capolavoro di perfidia scaricare su Cuperlo e compagni la responsabilità politica, forse persino morale, della scena che va in onda nella direzione Pd, l’assassinio sull’Orient Express o «una via di mezzo tra la Prima repubblica e Shining», come la descrive Pippo Civati, chiedendo un vo-to per immortalare i colpevoli. Civati e i suoi votano no, due gli astenuti, valanga di fogli di via per Letta. «Un episodio che potrebbe avere dei precedenti forse solo in Romania», ha previsto Massimo D’Alema all’ora di pranzo quando, a sorpresa, ha partecipato alla riunione in cui la minoranza decide di partecipare alla congiura?, defenestrazione? eliminazione politica?, del premier. Che in molti avevano persino agitato come futuro candidato anti-Renzi in primarie immaginarie che non si svolgeranno mai. .
Gianni Cuperlo cerca di scansare la responsabilità. «Arriviamo a questa discussione nei tempi che avevamo richiesto, ma non nelle forme che sarebbero servite». In effetti alla direzione di una settimana fa la sinistra ha chiesto il chiarimento del rapporto fra Pd e governo, per costringere Renzi a fare il salto. Ma Renzi ha giubilato Letta da par suo: senza nessuna cortesia all’uscita. Prendendo la palla al balzo per il colpaccio. Che non era U suo piano A, ma è la conseguenza obbligata di una strategia pasticciona che vagheggiava o un voto immediato (impossibile con il ‘consultellum’ ma anche a ottobre con l’Italicum) o un anno di logoramento al sostegno-opposizione del governo.
Così la sinistra di osservanza bersaniana si consegna all’incognita Renzi. Forse il leader ora ne chiederà un rappresentante in segreteria, come fa da tempo, di certo manterrà il ‘turco’
ministro Orlando all’ambiente. Cuperlo archivia le divisioni del congresso chiedendo di «l’unità su scelte strategiche». Ma nella relazione Renzi non autorizza questa pia speranza.
Cuperlo ammette che risolvere un problema di governo in una sede di partito non ha molti precedenti in una democrazia parlamentare, chiede un passaggio alle camere, prova a evitare il penoso voto in direzione contro il premier sostenuto fino al giorno prima. Ma il vero problema, spiega Matteo Orfini, che invece a Renzi chiede di andare a Palazzo Chigi sin dallo scorso aprile, è che «abbiamo bisogno di una discontinuità vera. Non si tratta di cambiare un premier con un altro: se ha un senso un cambio di go-verno è nella capacità di affrontare la crisi e politicizzare l’esecutivo», n dispositivo finale viene aggiustato e anche i giovani turchi votano sì.
Della sinistra si astiene in solitaria Stefano Fassina, l’ex sottosegretario dimesso proprio per un frontale con il futuro premier. «Non abbiamo spiegato questo passaggio a chi sta fuori da queste stanze», dice, e alla fine prende atto che nel dispositivo di cambiamento «radicale» non c’è traccia. Votare sì, ragiona in serata, «è incomprensibile per noi, è consegnare una cambiale in bianco a Renzi. Anche perché fra i renziani c’è chi chiede altri tagli di spesa e ri-gore», lo hanno fatto Serracchiani. Genti-Ioni, Burlando, «e non è quello che serve al paese». Sull’Unità di giornata Fassina descrive un Letta «prigioniero dell’insostenibile europeismo liberista» e stila il programma di una svolta anti rigorista che si fatica a immaginare nelle corde del futuro premier. Fuori dal Pd anche Sel resta con la sporta vuota. In molti, in direzione, chiedono l’allargamento della maggioranza. Renzi non lo fa. «È una tipica manovra di Palazzo, con un copione anche molto triste dal punto di vista dei rapporti umani», twitta Vendola. Renzi «ha liquidato senza nessuna analisi di merito l’esperienza del governo Letta Ha parlato di un cambiamento che non ha alcuna relazione con le ragioni della crisi sociale, di quel che c’è fuori dal Palazzo». «È chiaro chi se ne va, ma non chi arriva», commenta Gennaro Migliore, l’ufficiale di collegamento fra vendoliani e il leader Pd. «L’unica cosa chiara è che il premier che avrà la stessa maggioranza di prima. E questo non è un problema di Sei ma del paese. E di Renzi». Ma il dibattito in Sei è un travaglio, c’è già chi parla di «scissione». Domani l’assemblea che deve pronunciarsi sulla lista europea pro-Tsipras verrà investita dal ciclone Renzi I. Vendola prova a tenere uniti i suoi. Alfano esclude di stare in maggioranza con Sei? «Per una volta sono d’accordo con lui», ripete. Ma sono molti i parlamentari che chiedono «che non si dica un no preventivo a Renzi».

3 – QUELLA FERITA CHE SI DOVEVA EVITARE
CERTO, FORSE NON C’ERANO ALTRE POSSIBILI STRADE. IL BIVIO INDICATO DA RENZI – voto anticipato o governo di legislatura – non lasciava molte scelte. O l’Una o l’altra, tertium non datur. Certo, l’Italia ha bisogno come l’aria di una svolta radicale perché l’area del disagio è così ampia da mettere quasi a rischio la coesione nazionale. Certo, restare nella palude sarebbe stato il male peggiore ed è meglio essere trascinati dà un’«ambizione smisurata» che essere prigionieri di una modesta navigazione a vista.

E certo, la lotta politica non è mai un pranzo di gala e molto spesso è «merda e sangue», come diceva un vecchio socialista della Prima Repubblica. Tutto giusto. Però il disorientamento che questa strana guerra tra Renzi e Letta ha creato nel popolo del centrosinistra una ragione ce l’ha. E non per una questione di bon ton. Tocca invece l’idea stessa della politica che una forza come il Pd dovrebbe avere e quel senso di comunità, tanto evocato e troppo spesso soffocato, che dovrebbe essere il fondamento della sinistra. Qualcuno può chiedere: ma c’era un modo diverso per far nascere il nuovo governo? Sì, c’era. Si poteva- anzi, si doveva – evitare lo scontro diretto degli ultimi giorni (un duro faccia a faccia, una conferenza stampa con toni di sfida e una Direzione di totale sconfessione) e risparmiarci, ieri, il licenziamento del premier in diretta streaming. Era possibile seguendo – Renzi e Letta, ognuno per la sua parte – una strada più lineare, più trasparente, più sincera. L’uno avrebbe dovuto dire quel che pensava sin dal giorno dopo la vittoria delle primarie, evitando giri di parole e stop and go sul futuro del governo. E l’altro avrebbe dovuto prendere atto prima, molto prima, che il cammino dell’esecutivo era troppo incerto, i risultati non esaltanti e che il suo tempo stava per scadere. Si sarebbe evitata una ferita che, nonostante l’alto consenso ricevuto dal segretario in Direzione, comunque resta sul corpo del Pd e che non si rimarginerà tanto presto.
Ma ora siamo qui, all’inizio di un’avventura che lo stesso Renzi considera azzardata e rischiosa. Con le dimissioni di Letta si apre una nuova pagina che ha molte opportunità ma anche qualche pericolo. Però, una cosa deve essere chiara al di là di ogni ragionevole dubbio: la sfida lanciata dal segretario del Pd va sostenuta pienamente. Con forza, coraggio e soprattutto senza alcun retro pensiero. Togliendo via ogni amarezza e mettendo sul tavolo le idee giuste. Perché in discussione non c’è solo il destino di un partito così centrale nella vita nazionale, ma quello dell’Italia, che pagherebbe a caro prezzo un fallimento o un altro periodo di logoramento. Se la velocità che Renzi ha impresso alla politica in questi due mesi riuscirà a dare impulso a un cambiamento radicale del Paese sarà un bene per tutti. Ci sono alcuni problemini che vanno affrontati di petto: la crisi del lavoro, le disuguaglianze, le difficoltà delle imprese e la decadenza del nostro sistema industriale. Milioni di giovani che vogliono ritrovare il filo del loro futuro aspettano da tempo un segno. E il sistema democratico richiede da anni quella profonda revisione che lo possa rendere più funzionante ed efficiente.
È l’Italia che ha bisogno di forti innovazioni radicali. L’orizzonte dell’intera legislatura, da qui al 2018, offre il tempo adeguato per tentare di spezzare l’immobilismo che ci ha gettato negli ultimi posti in quasi tutte le classifiche europee e che spinge le cancellerie a guardarci ancora con qualche sospetto. È chiaro che Renzi ha sì davanti a sé quattro anni per centrare l’obiettivo, ma solo poche settimane per dimostrare subito al Paese che, nonostante gli strappi, la scelta compiuta è giusta e che il consenso ricevuto servirà davvero a voltare pagina.
Il segretario ha infatti qualche contraddizione da farsi perdonare. Aveva detto mai più larghe intese e ora governerà con una parte del centrodestra. Aveva detto mai a Palazzo Chigi senza un voto popolare e ora
entrerà a Palazzo Chigi senza un voto popolare. Aveva detto, invadendo Twitter con l’hastag enrico stai sereno che non voleva prendere il posto di Letta e oggi prende il posto di Letta. Certo, si dirà che questo è il realismo della politica. Ma per convincere gli italiani che ne è valsa la pena Renzi dovrà puntare subito in alto, molto in alto. Con un governo che abbia un profilo di alto livello nella scelta dei ministri, che dia l’immagine del rinnovamento e non sia solo il frutto delle inevitabili mediazioni tra i partiti. E con un programma dei «primi cento giorni» che faccia capire all’Italia, con tre quattro scelte chiare, che si cambia verso sul serio, e il verso è quello di un Paese che ritrova se stesso sulla via dell’equità, della ripresa e dell’innovazione. Non sarà facile visti i vincoli europei che tuttora legano le mani dei governi e sui quali Renzi dovrà battagliare presto a Bruxelles. Ma è una sfida obbligata: dalla palude si deve usare. Non dimentichiamoci che alle nostre porte premono i venti pericolosi del populismo che nella palude vogliono annegarci. ( di Pietro Spataro da L’Unità)

4 – LA BASE È «DELUSA» I CIRCOLI SONO VUOTI 7 IL POMERIGGIO PIÙ ATTESO È VISSUTO DAI MILITANTI I SUI SOCIAL NETWORK: «SIAMO ARRABBIATI, CHE FATE?» ( di MARCO BUCCIANTINI mbucdantini@unita.it)
La base in carne e ossa è un ragazzo con un pacco di fotocopie rilegate, le pagine marcate dal lapis, il suo tempo è l’Università. Daniele Piva studia un bellissimo libro di storia, L’età post eroica di James Sheehan, l’Europa e i suoi cittadini che escono dalle guerre e scoprono una possibile identità civile, fondata sullo Stato sociale e sui trattati commerciali, rinunciando al delirio di diventare (insieme) superpotenza in cambio di una sonnolenta «pace perpetua», direbbe Kant.
Ma questo non è un giorno di pace, forse è il primo o forse l’ultimo giorno di guerra, non si capisce. Un giorno nuovo? Un giorno antico come un fratricidio biblico? «Pensavo che Renzi cercasse la via delle elezioni. Lo pensavo e lo speravo perché vedere un partito mandare a casa il "suo" premier fa un certo effetto. E poi la maggioranza resta sempre quella: se era complicato per Letta lo sarà anche per Renzi». Daniele è il 25enne presidente del circolo Pd di San Paolo, a cento metri dalla basilica. È solo in una stanza disadorna, con le sedie impilate, nell’angolo ci sono due bottiglie d’acqua avviate. Qui votarono per Bersani, poi simpatizzarono per Cuperlo ma alle primarie vinse Renzi, in scioltezza. A Roma il circolo ha avuto notorietà per il voto dei fuori sede, che premio Civati.
Gli altri circoli della Garbatella sono chiusi, il rione dei partigiani e dei comunisti oggi ha una sede anonima in un sottoscala, che nessuno per strada o nei bar sa indicare con precisione, mentre la mitica, suggestiva Villetta – che fu riconquistata ai fascisti, che avevano messo la loro targa al posto di quella del Pei – è un condominio dei partiti della sinistra, con la bandiera di Sei che domina. A via del Gasometro numero 1 appendono ancora l’Unità in bacheca, ma l’inferriata è bloccata, le’ luci spente. Non c’è nessuno. Accanto, al numero 3, in un circolo ricreativo, pensionati e ragazzi si confrontano alle carte, i cinque tavoli sono pieni. A via dei Giubbonari, nella sede più "viva" del centro storico, il telefono suona a vuoto.
La base non ha vissuto insieme questo pomeriggio. Queste ore atte-se, intense e teatrali non hanno aggregato "fisicamente" gli appassionati della politica, non ci sono volti da raccontare, pugni sui tavoli, brindisi o bestemmie. È certamente una mutazione della partecipazione che diventa sostanza nel nuovo modo di pensare ai partiti, la gente di giovedì lavora, è vero, ma ormai la presenza è online, dove però è difficile distinguere il militante autentico dall’intruso (e naviga un esercito di professionisti della molestia). A leggerli in colonna nelle pagine facebook di Renzi o Cuperlo o del Pd sono tutti iscritti delusi, «non vi voterò mai più», è una frustrazione da setacciare e comunque il tono è quello, pochissimi si distinguono, qualche incoraggiamento ma bisogna cercarlo bene, come una conchiglia in una spiaggia di sassi.
Si accenta la repentina inversione di marcia di Renzi, in fiorentino acciarpato: «’aro Matteo Renzi, penso ‘he oggi te tu ha’ fatto una delle più grandi bischerate mai compiute da quando Jeppetto fabbrì’ò Pinocchio!». «Era meglio andare al governo con il voto» è il rammarico diffuso. «Democristiani», «vergognatevi», «è questo il cambiamento?», «roba da prima Repubblica…», «il peggior modo di fare», «Renzi sarà il terzo premier consecutivo che nessuno ha eletto…», e così via, spesso il tono è greve, altre volte colto: «Un partito serio – diceva Enrico Berlinguer a Enzo Biagi – non può permettersi di enunciare una linea e di comportarsi dopo in maniera opposta». Nemmeno Cuperlo può scorrere a cuor leggero la "sua" pagina Facebook, contestato per non aver fatto opposizione, per non esser stato «duro e tenace» come promesso. «Perché la minoranza ha votato quel documento, dopo essersi detta contraria a quel voto?». Anche con affetto: «Mi dispiace Gianni, siete stati assenti, siamo delusi». Anche con rabbia: «Ti ho votato, avete ammazzato la democrazia». Pippo Civati invece fa il pieno delle pacche sulle spalle, il suo indefesso "no" a quasi tutto è in fondo coerente, «bravo, ci hai reso orgogliosi, ma ormai sei come il Panda, sei una razza in via di estinzione».
Laura Catalisano, una pensionata che pubblica sul suo profilo la foto del Cristo morto del Mantegna, si domanda:
“MA LA DIREZIONE ASCOLTA LA BASE DEL PARTITO?». FORSE LA BASE, GLI ISCRITTI, GLI APPASSIONATI, LA GENTE CHE SI RADUNA ENORME NEI GIORNI DELLE PRIMARIE, E POI SI RITRAE A BATTERE I TASTI DEL COMPUTER, DEVE RITROVARE QUALCOSA.”

 

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