10974 NOTIZIE dall’ITALIA e dal MONDO 14 dicembre 2013

20131214 23:25:00 guglielmoz

ITALIA – Crisi, Landini accusa il ministero dello Sviluppo: "ACCOMPAGNA LA DELOCALIZZAZIONE".
Secondo il bilancio sociale dell’INPS, 11,5 milioni di pensionati percepiscono un reddito medio di 10.000 euro lordi annui, pari a 700 euro al mese. Con buona pace di quelli che ci raccontano del conflitto generazionale, sarebbe forse allora il caso di tornare a parlare di classico contrasto fra ricchi e poveri
EUROPA – RUSSIA / PUTIN CHIUDE LA RIA NOVOSTI. Il presidente russo Vladimir Putin ha chiuso per decreto l’agenzia di stampa Ria Novosti, una delle fonti di notizie più usate dai mezzi d’informazione esteri
AFRICA & MEDIO ORIENTE – QUNU I FUNERALI SOLENNI DI NELSON MANDELA SI CELEBRERANNO DOMENICA 15 DICEMBRE A QUNU. LO HA ANNUNCIATO OGGI IL PRESIDENTE DEL SUDAFRICA, JACOB ZUMA.
ASIA & PACIFICO – GIAPPONE / II 6 dicembre il parlamento ha approvato una legge sulla protezione dei segreti di stato che rischia di limitare la berta d’informazione.
AMERICA CENTROMERIDIONALE –
AMERICA SETTENTRIONALE – PRETORIA/ WASHINGTON / SOWETO / LA MEMORIA CORTA. Nelson Mandela è «un gigante del XX secolo», che «mi ha reso un uomo migliore», anche se «la tentazione è di ricordarlo come una icona, ma Madiba ha resistito a questo quadro privo di vita»: l’atteso discorso elogio-funebre del presidente americano BARACK OBAMA non è stato inferiore alle aspettative

ITALIA
ROMA
Crisi, Landini accusa il ministero dello Sviluppo: "ACCOMPAGNA LA DELOCALIZZAZIONE". Guardando ”alle delocalizzazioni in atto, come nel settore elettrodomestico, siamo di fronte a un ministero dello Sviluppo economico che invece accompagna quei processi”. Così il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini, in un’intervista al Fatto Quotidiano.
Rivolgendosi al dicastero guidato da Flavio Zanonato, sottolinea: ”Quel ministero, oggi, e’ il luogo in cui le imprese impongono il loro punto di vista. Non ha una politica industriale e svolge un ruolo mai visto prima”. Insomma, per Landini ”il governo rischia di favorire le delocalizzazioni, la vendita dei pezzi migliori del nostro paese e quindi un processo di deindustrializzazione”. Alla domanda se oggi andrà a votare per le primarie del Pd, il leader delle tute blu della Cgil risponde: ”No, non ci sono mai andato. Non e’ quello il mio ruolo”.

ROMA
CROLLA IL POTERE D’ACQUISTO DELLE FAMIGLIA / Noi, come suol dirsi, ce lo sapevamo già. Adesso lo certificano i dati dell’Inps e resta solo da sperare che qualcuno, a Palazzo Chigi, prenda in considerazione questi numeri: quasi la metà dei pensionati Inps (il 45,2%) ha un reddito da pensione inferiore ai 1.000 euro al mese; in totale si tratta di circa 7,2 milioni di italiani. Di questi, il 14,3 per cento – ovvero 2,2 milioni – non arriva nemmeno a 500 euro di pensione. Solo 650 mila persone possono contare su un contributo che supera i tremila euro mensili.
In generale, sono i pensionati pubblici i più “fortunati”. Il loro reddito da pensione nel 2012 è stato – in media – di 1.948 euro al mese, superiore di oltre 700 euro rispetto ai 1.223 euro medi portati a casa da coloro che hanno lavorato come dipendenti nel settore privato. La differenza dipende anche dal numero di anni lavorati e si amplia tra le donne, con 826 euro medi di pensione per le donne del fondo lavoratori dipendenti e i 1.613 di quelle del settore pubblico. Per artigiani e commercianti il reddito da pensione si ferma in media sotto i 1.000 euro.
Se i pensionati stanno male, non va meglio per le famiglie, il cui potere d’acquisto è crollato di ben 9,4 punti percentuali tra il 2008 e il 2012. Solo tra il 2011 e il 2012 il calo è stato di quasi il 5%. Nel 2012 oltre 4 milioni di persone hanno usufruito di ammortizzatori sociali. Oltre 1,6 milioni di persone hanno usufruito di cig e mobilità a fronte dei 1.250.000 lavoratori nel 2011 (+28,5%) con una permanenza media pro capite in cassa di due mesi e 2 giorni lavorativi.
Nel complesso, a beneficiare del sussidio di disoccupazione (ordinaria, agricola e quelle a requisiti ridotti) sono stati 2,5 milioni di persone a fronte dei 2,26 milioni dell’anno precedente.
Quanto ai dipendenti pubblici, a causa del blocco dei turn over e dei numerosi pensionamenti, c’è stata una vera e propria emorragia. Nel 2012 ci sono state 130.000 unità (-4%) in meno, passando da 3,23 milioni a 3,1 milioni, mentre le entrate contributive ex Inpdap sono calate di 4,78 miliardi (-8,2%).
ROMA
SECONDO IL BILANCIO SOCIALE DELL’INPS, 11,5 MILIONI DI PENSIONATI PERCEPISCONO UN REDDITO MEDIO DI 10.000 EURO LORDI ANNUI, PARI A 700 EURO AL MESE. CON BUONA PACE DI QUELLI CHE CI RACCONTANO DEL CONFLITTO GENERAZIONALE, SAREBBE FORSE ALLORA IL CASO DI TORNARE A PARLARE DI CLASSICO CONTRASTO FRA RICCHI E POVERI
L’Inps ha presentato giovedì a Roma il suo bilancio sociale 2012. Un rapporto ricco e aggiornato, di un ente che, dopo l’assorbimento dell’Inpdap, gestisce ormai la quasi totalità delle prestazioni pensionistiche (previdenziali e assistenziali) e degli ammortizzatori sociali, oltre ad amministrare le principali banche dati nazionali in materia. Nel 2012, in un paese con un Pil di 1500 miliardi, l’Inps ha pagato prestazioni per quasi 300 miliardi, di cui 261 miliardi di pensioni (237 miliardi di natura previdenziale e 41 miliardi di natura assistenziale), 13 miliardi di ammortizzatori sociali e 10 miliardi di assegni familiari. Nello stesso periodo, ha raccolto 208 miliardi di contributi sociali e ricevuto trasferimenti dallo stato per 94 miliardi. Fra i possibili spunti che emergono dalla lettura del rapporto, proviamo a fare qualche ragionamento focalizzandoci sul valore delle prestazioni pensionistiche erogate.
Le pensioni previdenziali (vecchiaia, invalidità e superstiti) in essere offrono in media 1.029 euro lordi al mese, con una forte differenza di genere: 1.365 euro per i maschi, 822 euro per le femmine. Le prestazioni assistenziali (assegni sociali, pensioni di invalidità civile, indennità di accompagnamento) valgono in media poco più di 400 euro lordi al mese. Fra i peggio messi nel comparto previdenziale sono i lavoratori parasubordinati, che, anche escludendo quelli che hanno un’altra pensione da lavoro, arrivano a percepire un beneficio di appena 308 euro al mese, mentre nel comparto assistenziale spiccano gli invalidi civili, con una pensione di appena 273 euro al mese. Se ragioniamo in termini di pensionati, anziché di pensioni (lo stesso individuo può percepire più di una pensione) scopriamo che, su 16,8 milioni di pensionati, 11,5 milioni sono nel gruppo dei più poveri, con un reddito pensionistico medio di 10.000 euro lordi annui (netti, 700 euro mensili), mentre altri 3,8 milioni sono nel secondo gruppo, con un reddito medio annuo lordo di 23.800 euro, ovvero una pensione netta mensile di 1.500 euro.
Sono dati che non mostrano certo una generalità di pensionati ricchi e benestanti, anzi, con tali valori moltissimi pensionati finiscono sotto la soglia della povertà. Con buona pace di quelli che ci raccontano del conflitto generazionale, sarebbe forse allora il caso di tornare a parlare – in termini, bisogna ammetterlo, meno glamour – di classico contrasto fra ricchi e poveri, piuttosto che fra giovani e vecchi. In effetti, esistono 166.000 pensionati con pensioni medie fra 10 e 17 volte il minimo e 20.000 con un reddito pensionistico superiore a 17 volte il minimo, senza contare, per mancanza di dati, le pensioni erogate da Parlamento, Presidenza della Repubblica e altri organi costituzionali. Ma, se il problema è di tipo distributivo (ricchi e poveri) e non generazionale (giovani e vecchi), allora la giusta sede per intervenire sarebbe non il disconoscimento delle passate regole pensionistiche – peraltro di dubbia costituzionalità –, quanto l’adeguamento delle aliquote Irpef sugli scaglioni di reddito più adeguati (1).
Se il valore medio delle prestazioni pensionistiche erogate è basso, deve destare preoccupazione anche il fatto che, contrariamente a quanto era solito, le nuove pensioni liquidate nel 2012 hanno valori medi bassi e in calo, sia pur leggero, rispetto all’anno precedente (1.133 euro lorde al mese, escludendo le pensioni assistenziali), malgrado corrispondano a periodi contributivi molto lunghi (almeno 39 anni le pensioni di anzianità, fra i 27 e i 37 anni le pensioni di vecchiaia). E’ probabilmente l’avvisaglia di un calo che diventerà via via più forte di anno in anno; sia perché ancora per molti anni le pensioni liquidate ai parasubordinati saranno estremamente contenute (perché associate a bassi contributi e anzianità contributive), sia perché iniziano ad andare in pensione sempre più lavoratori che nel 1995 avevano meno di 18 anni di contributi, e che perciò si ritrovano, a differenza di quelli andati in pensione finora, già con più di metà della loro pensione calcolata con il sistema contributivo.
Certo, gli ulteriori aumenti dell’età di pensionamento e degli anni di contribuzione necessari per accedere al pensionamento previsti per i prossimi anni dalla riforma pensionistica del 2011 dovrebbero servire anche contrastare la riduzione delle prestazioni. D’altro canto, i dati contenuti nella parte del rapporto Inps sugli ammortizzatori sociali suggeriscono l’intempestività della stretta sui pensionamenti e alimentano scetticismo sul futuro: sono 4,4 milioni i lavoratori che hanno beneficiato di ammortizzatori sociali nel 2012 (contro i 3,8 del 2011), con 2,5 milioni di trattamenti di disoccupazione e 1,6 milioni di trattamenti di Cig. Solo questi ultimi hanno comportato nel 2012 un miliardo di ore di lavoro in meno. È evidente che, se nei prossimi anni il mercato del lavoro non sarà in grado di accogliere tanto i giovani quanto l’aumento dell’offerta di lavoro degli anziani, ovvero se la crisi economica si prolungherà, tanto i conti del sistema pensionistico quanto il livello dei benefici sono destinati a diventare sempre più problematici.
Per chiudere, vale la pena di segnalare un’omissione. È opportuno che la tematica degli stranieri che vivono e lavorano in Italia sia considerata nel rapporto solo per indicare la nazione di provenienza dei lavoratori domestici? Eppure i 5 milioni di stranieri residenti in Italia, ormai il 7% della popolazione complessiva, costituiscono una componente importante, oltre che dell’economia nazionale, anche del sistema di welfare, con un apporto netto largamente positivo (cfr. in proposito il recente rapporto di Lunaria http://www.lunaria.org/wp-content/uploads/2013/11/i_diritti_non_sono_un_costo-tot..pdf ). L’Inps è l’ente che più di ogni altro si interfaccia con i lavoratori stranieri e dispone di dati dettagliatissimi, che purtroppo utilizza solo in minima parte, producendo un rapporto peraltro piuttosto difficile da trovare sul suo stesso sito. Non sarebbe lecito aspettarsi che un bilancio che vuole essere sociale integri al suo interno anche qualche informazione su tale dimensione?
(1) CON QUALCHE SPECIFICA ECCEZIONE LEGATA SOPRATTUTTO AI TRATTAMENTI PARTICOLARMENTE PRIVILEGIATI DEI QUALI GODONO, O HANNO GODUTO FINO A TEMPI RECENTISSIMI, I DIPENDENTI DEGLI ORGANI COSTITUZIONALI E ALCUNI FUNZIONARI DELLO STATO O DI ALCUNI ENTI LOCALI, OLTRE CHE ALLE SPECIFICHE MODALITÀ CON LE QUALI SI È INTERVENUTI IN SALVATAGGIO DI ALCUNI FONDI DISSESTATI (AD ESEMPIO L’INPDAI), OGGETTIVAMENTE ECCESSIVAMENTE ONEROSE PER IL SISTEMA PUBBLICO. SU TALI SITUAZIONI SAREBBERO AUSPICABILI INTERVENTI AD HOC.

EUROPA
RUSSIA
PUTIN CHIUDE LA RIA NOVOSTI
Il presidente russo Vladimir Putin ha chiuso per decreto l’agenzia di stampa Ria Novosti, una delle fonti di notizie più usate dai mezzi d’informazione esteri. Le sue strutture confluiranno in una nuova agenzia che si chiamerà Russia Oggi. "Il direttore sarà Dmitrij Kiselev (nella foto), un funzionario del partito al potere considerato molto vicino a Putin", scrive Gazeta.ru. Il motivo ufficiale della mossa di Putin è la necessità di riorganizzare i mezzi d’informazione statali per renderli economicamente più solidi. "Ma dato che la Ria Novosti non era in perdita", conclude il giornale online, "probabilmente il vero motivo è che Putin non era soddisfatto di come l’agenzia ha trattato la crisi in Ucraina".
RUSSIA
II presidente Vladimir Putin ha annunciato il 10 dicembre l’aumento della presenza militare russa nell’Artico

ROMANIA
CHEVRON SOTTO ACCUSA
Il 7 dicembre centinaia di persone si sono scontrate con la polizia durante una manifestazione a Pungesti, in Romania, per protestare contro un progetto di esplorazione dei giacimenti di gas di scisto dell’azienda statunitense Chevron. I manifestanti hanno abbattuto la recinzione che circonda il terreno dove sa-ranno effettuate le trivellazioni. Quindici di loro, tra cui uno dei capi ultra della squadra di calcio locale, sono stati arrestati. Il comune, scrive Adevàrul, è stato dichiarato "zona speciale per la sicurezza pubblica". Una manifestazione di solidarietà con gli abitanti di Pungesti si è svolta nella capitale Bucarest.

REGNO UNITO
REGOLE DA CAMBIARE
Il 5 dicembre la ministra dell’interno britannica Theresa May (nella foto) ha annunciato a Bruxelles una proposta per modificare le regole dell’Unione europea sulla libera circolazione dei cittadini. Londra, scrive il Daily Telegraph, punta così a evitare l’ingresso di massa dei lavoratori bulgari e romeni dopo l’abolizione delle restrizioni, che scatterà il 1 gennaio 2014. La vicepresidente della Commissione europea e responsabile della giustizia, Viviane Reding, ha risposto che la libera circolazione è un principio fondamentale dell’Unione europea e non può essere messo in discussione. Il mese scorso il premier britanni-co David Cameron aveva an-nunciato un piano per limitare i sussidi di disoccupazione per gli immigrati stranieri per scoraggiare i potenziali arrivi. Tra le misure previste ci sono il blocco dei sussidi nei primi tre mesi dal loro arrivo e un limite massimo di sei mesi per l’erogazione delle prestazioni, oltre al divieto di accedere all’edilizia popolare.

GERMANIA
II 12 dicembre si so-no concluse le operazioni di vo-to del referendum tra gli iscritti del Partito socialdemocratico (Spd) sull’accordo di coalizione con la cancelliera Angela Mer-kel. I risultati saranno annunciati il 14 dicembre.

SPAGNA
II 4 dicembre otto agenti della polizia catalana sono stati rinviati a giudizio per la morte di un uomo in custodia cautelare a El Vendrell, una località a sud di Barcellona.

BELGIO
POPULISTI DELUDENTI
Un anno dopo aver vinto le elezioni amministrative nelle Fiandre, conquistando quasi un comune su due, è arrivata per la Nuova alleanza fiamminga (N-Va), il partito nazionalista di Bart De Wever, "l’ora di fare un primo bilancio", scrive LE VIF/L’EXPRESS. "Il partito ha esibito la sua forza, come fanno i nuovi ricchi con la loro improvvisa fortuna, ma in realtà ha fatto poco". Per un partito arrivato al potere con lo slogan "la forza del cambiamento" è un paradosso, aggiunge il settimanale francofono. "Anche tenendo conto del contesto economico difficile, si può dire che il partito di De Wever non ha convinto. Rimarrà sicuramente forte a livello regionale, ma ha dimostrato di non incarnare il tanto annunciato rinnovamento. Una volta al potere, la N-Va, come tutti i partiti populisti, ha dovuto accettare dei compromessi: con i vincoli di bilancio, con le diverse correnti che la compongono (nazionalista, di estrema destra, liberale, populista), con le personalità dei vari leader, con gli avversari e con i mezzi d’informazione fiamminghi, molto meno concilianti di prima. E, soprattutto, ha dovuto fare i conti con la realtà".

GRECIA
ATENE – IL PARLAMENTO SI PIEGA ANCORA ALLA TROIKA: OK A BILANCIO RIGORE / Il Parlamento greco ha approvato la legge di bilancio per il 2014 che prevede misure di rigore e una contrazione della spesa pari a 3,1 miliardi di euro. La maggioranza conservatrice-socialista guidata da Antonis Samaras, che dispone di 154 voti su 300, ha ottenuto l’approvazione poco dopo l’annuncio dello slittamento a gennaio della troika internazionale e il congelamento di un prestito da 1 miliardo di euro. Insomma, continua il massacro sociale nonostante il popolo sia già in condizioni drammatiche, in povertà, disoccupazione, senza i più fondamentali diritti sociali. Ma è il mercato che comanda e tutto il resto non conta!

AFRICA & MEDIO ORIENTE
SUDAFRICA
QUNU
I FUNERALI SOLENNI DI NELSON MANDELA SI CELEBRERANNO DOMENICA 15 DICEMBRE A QUNU. LO HA ANNUNCIATO OGGI IL PRESIDENTE DEL SUDAFRICA, JACOB ZUMA.
Commemorazione il 10 dicembre
MANDELA SARÀ RICORDATO IN SUDAFRICA CON UNA COMMEMORAZIONE NAZIONALE SOLENNE MARTEDÌ 10 DICEMBRE NELLO STADIO DI CALCIO DI JOHANNESBURG. Lo ha precisato il presidente Jacob Zuma, confermando inoltre la cerimonia funebre di sepoltura per domenica 15 a Qunu.
Bandiere a mezz’asta alle istituzioni europee per i prossimi tre giorni in segno di cordoglio per la morte di Nelson Mandela. Intanto non è stato ancora deciso chi rappresenterà la Commissione Ue ai funerali, e per questo si attende di conoscere la data delle esequie. In una nota già ieri sera i presidenti dell’esecutivo Josè Manuel Barroso e quello del consiglio Herman Van Rompuy avevano ricordato Mandela come un simbolo nella lotta al razzismo e "una delle più grandi figure politiche dei nostri tempi".
Il presidente americano, Barack Obama, in ricordo di Nelson Mandela ha ordinato le bandiere a mezz’asta in tutti gli edifici pubblici degli Stati Uniti, a partire dalla Casa Bianca. ”Il nostro Paese ha perso un grande amico”, afferma Obama, ”e onorera’ per sempre la sua memoria”.
Resteranno a mezz’asta oggi le bandiere britanniche, per tutto il giorno fino alle 8 di questa sera, in segno di rispetto per la scomparsa di Nelson Mandela.
IL PRESIDENTE FRANCESE FRANÇOIS HOLLANDE ha ordinato le bandiere a mezz’asta nel paese per onorare la memoria dell’ex presidente sudafricano Nelson Mandela, secondo quanto ha annunciato a Pechino il Presidente del Consiglio Jean-Marc Ayrault. ”Il Presidente della Repubblica François Hollande ha voluto che questo messaggio sia condiviso da tutti i francesi” ha dichiarato Ayrault, in visita ufficiale in Cina.
IL PAPA, esempio impegno dignità umana e giustizia – "L’esempio" di Mandela ispiri "generazioni di sudafricani a mettere la giustizia e il bene comune avanti nelle loro aspirazioni politiche". Così il Papa in un telegramma in cui di Mandela ricorda "l’impegno nel promuovere la dignità umana di tutti i cittadini" e un nuovo Sudafrica basato sulla "non-violenza e la riconciliazione". "E’ con tristezza – scrive Papa Francesco in un telegramma che porta la sua firma diffuso dalla sala stampa vaticana – che ho appreso della morte del presidente Nelson Mandela e invio le mie condoglianze a tutti i membri della famiglia, ai membri del governo e a tutto il popolo del Sudafrica". "Nell’affidare l’anima del defunto all’infinita pietà di Dio – prosegue il Papa nel telegramma originariamente in inglese -, chiedo al Signore di confortare tutti coloro che piangono questa perdita. Riconoscendo l’impegno dimostrato da Mandela nel promuovere la dignità umana dei cittadini di tutte le nazioni e nel forgiare un nuovo Sudafrica costruito sulle solide basi della non-violenza, della riconciliazione e della verità, prego che l’esempio dell’ex presidente ispiri generazioni di sudafricani affinché mettano la giustizia e il bene comune avanti a tutto nelle loro aspirazioni politiche". "Con questi sentimenti – conclude il Papa – invoco su tutto il popolo del Sudafrica doni divini di pace e prosperità".
NAPOLITANO, dimostrò possibile mondo più equo – "Ho appreso con commozione e grande tristezza della scomparsa dell’ex-Presidente e premio Nobel per la pace Nelson Mandela". Lo scrive Giorgio Napolitano in un messaggio a Jacob Zuma. "Ha dimostrato che un mondo più equo e solidale, dove diversità è sinonimo di ricchezza, è possibile". "Il suo insopprimibile anelito alla libertà, alla dignità umana e all’uguaglianza – scrive Napolitano – ha avuto ragione della barbarie dell’apartheid". Con la sua vita ha dimostrato che un mondo più equo e solidale, dove diversità è sinonimo di ricchezza, è possibile. Aver saputo presiedere a una transizione pacifica del suo paese – nel segno della verità e della riconciliazione – dall’apartheid alla convivenza democratica, resta suo merito incancellabile. E’ un esempio che gli sopravvive, insieme con i suoi ideali e la sua straordinaria eredità morale. Essi passano alle generazioni future e a quanti, in Sud Africa e nel mondo, lottano per costruire una società più giusta ed inclusiva rifuggendo la violenza".
OBAMA SI COMMUOVE, e’ stato esempio mia vita – ”Non posso immaginare la mia vita senza l’esempio di Nelson Mandela”: lo ha detto il presidente americano, Barack Obama, commuovendosi in diretta Tv. ”Sono stato uno dei milioni di persone che e’ stato ispirato da Mandela. Non posso immaginare la mia vita senza il suo esempio” afferma Obama, sottolineando che il giorno in cui Mandela ”e’ uscito dalla prigione mi ha dato l’idea di cosa si puo’ raggiungere quando si e’ guidati dalla speranza”. Mandela ha ”raggiunto piu’ di quanto ci si possa aspettare da ogni uomo. E oggi e’ tornato a casa. Fermiamoci e ringraziamo del fatto che sia vissuto’
SOVETO
LE PAROLE CHE HANNO FATTO LA STORIA
– 1964: Discorso al processo per sabotaggio
http://www.guardian.co.uk/world/2007/apr/23/nelsonmandela
– 1990: Discorso post-liberazione
http://www.anc.org.za/show.php?id=4520
– 1993: Discorso in occasione della consegna del Premio Nobel per la Pace
http://www.nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/1993/mandela-lecture.html
– 1994: Discorso per la vittoria dell’ANC
http://www.anc.org.za/show.php?id=3658
– 1994: Discorso come presidente del Sudafrica all’ANC
http://www.africa.upenn.edu/Articles_Gen/Inaugural_Speech_17984.html
– Pubblicazione delle Nazioni Unite in occasione del Mandela day
http://www.un.org/en/events/mandeladay/pdfs/Mandela%20In%20his%20words%20WEB.pdf
ARABAIA SAUDITA / ETIOPIA
RIMPATRIO FORZATO
Nell’ultimo mese l’Arabia Saudita ha espulso un milione di immigrati irregolari, tra cui 5omila etiopi, scrive Afrik. Il 4 novembre è finito il periodo di sette mesi in cui quattro milioni di immigrati hanno potuto mettersi in regola. Chi non c’è riuscito è stato deportato {nella foto, un gruppo di migranti a Riyadh, il 20 novembre 2015). Gli immigrati dall’Etiopia sono in gran parte donne, costrette a lavorare in condizioni terribili. L’esodo forzato rischia di inasprire le relazioni tra Riyadh e Addis Abeba, che dovrà pagare 2,6 milioni di dollari per il rimpatrio.

YEMEN
LUTTO NAZIONALE / Al Thawra, Yemen
L’attacco del 5 dicembre al ministero della difesa di Sana’a, che ha causato più di 56 morti e 215 feriti, è stato "uno shock senza precedenti per lo Yemen", scrive il quotidiano Al Thawra. L’assalto di una banda armata, preceduto dall’esplosione di un’autobomba, ha dimostrato che lo stato non è in grado di proteggere i suoi cittadini. Ancora più grave è il fatto che la maggior parte delle vittime è formata da civili, tra cui molti medici e infermieri che lavoravano nel vicino ospedale militare. Secondo alcune fonti, i dodici terroristi, morti durante l’assalto, sarebbero tutti di nazionalità saudita, anche se per ora la responsabilità dell’attentato non è stata accertata. Hanno rivendicato – e poi rinnegato – l’attacco sia il gruppo Al Qaeda nello Yemen sia Al Qaeda nella penisola araba (Aqpa), giustificandolo come una rappresaglia per l’uso dei droni statunitensi sul suolo yemenita. Altre fonti parlano invece di un’organizzazione yemenita che vuole il ritorno dell’ex presidente Ali Abdallah Saleh. Il 9 dicembre tre presunti terroristi di Al Qaeda sono stati uccisi con un drone nella regione di Hadramaut.

ERITREA
L’INDUSTRIA DEI RAPIMENTI
Il rapporto The human trafficking cycle: Sinai and beyond, pubblicato il 4 dicembre, accusa i militari eritrei di arricchirsi con i rapimenti di giovani connazionali. Basandosi sulle testimonianze di 230 persone, gli autori del rapporto, svedesi e olandesi, hanno stabilito che tra il 2007 e il 2012 sono state rapite almeno 25mila persone e sono stati estorti seicento milioni di dollari. Le vittime vengono minacciate di essere cedute ai trafficanti di esseri umani se non riescono a pagare decine di migliaia di dollari di riscatto. Al centro delle operazioni, scrive il Guardian, c’è l’Unità eritrea di sorveglianza delle frontiere, al co-mando del generale Teklai Kifle. Le vittime sono soprattutto studenti che frequentano l’ultimo anno delle scuole superiori nel campo militare di Sawa. Una volta rapiti, i giovani sono tenuti prigionieri in Sudan, torturati e in alcuni casi ceduti ai trafficanti beduini del Sinai anche dopo il pagamento del riscatto.

KENYA
II 7 dicembre alcune ong hanno annunciato che decine di persone sono morte negli scontri tribali nel nord del paese. Libia Un insegnante statunitense di una scuola internazionale di Bengasi, Ronnie Smith, è stato ucciso il 5 dicembre.

SIRIA
L’11 dicembre Washington e Londra hanno sospeso gli aiuti non letali per il nord della Siria, dopo che i ribelli islamisti hanno assunto il controllo di depositi di armi dell’Esercito siriano libero.
Il 10 dicembre Razan Zeitou-neh, attivista per i diritti umani, è stata rapita a Douma.

SOMALIA
Una vittima di stupro è stata condannata il 9 dicembre a sei mesi di prigione con la condizionale. Due giornalisti che avevano denunciato il caso sono stati incarcerati.

Da RAMALLAH Amira Hass
Giovedì 5 dicembre sono andata al matrimonio del mio amico Eitay a Tel Aviv. È raro che io partecipi a questi eventi, ma ero curiosa. Eitay è gay e religioso, mentre il suo partner è laico. Anche il matrimonio è stato laico, ma molti invitati appartenevano alla comunità gay religiosa. Con i miei compagni di tavolo ho discusso gli ultimi eventi accaduti a sud di Hebron, soprattutto gli attacchi dell’esercito e dei coloni. Eitay è un giovane avvocato che difende i palestinesi. Naturalmente i suoi "clienti"
non hanno potuto partecipare alle nozze, a causa delle restrizioni alla mobilità ma anche perché il suo orientamento sessuale non è una cosa che può condividere con loro.
Sabato sono rimasta a casa a scrivere un articolo per Haaretz sulle similitudini e le differenze tra l’apartheid sudafricano e quello israeliano.
Domenica ho visitato il campo profughi di Jalazun, a nord di Ramallah, perché il giorno prima un ragazzo di 15 anni, Wajih Ramahi, era stato ucciso da un soldato. Nel campo vivono 14mila persone provenienti da 36 villaggi distrutti o espropriati da Israele dopo il 1948. Nella vicina colonia di Beit El 5.700 persone vivono in case dai tetti rossi con giardino. Tutti i terreni sono stati rubati dai villaggi vicini. I ragazzi palestinesi lanciano pietre. È l’unico modo che hanno per dire ai coloni e ai soldati che non sono ospiti ma invasori. Anche domenica hanno tirato le loro pietre. Uno di loro è stato colpito alla schiena da una pallottola israeliana. Stava scappando.

ASIA & PACIFICO
GIAPPONE
II 6 dicembre il parlamento ha approvato una legge sulla protezione dei segreti di stato che rischia di limitare la berta d’informazione.

SINGAPORE
IMMIGRATI IN RIVOLTA
La morte di un immigrato indiano, investito da un b to nel quartiere di Little Singapore, l’8 dicembre ha scatenato una rivolta da parte circa quattrocento cittadini stranieri che hanno incendiato auto della polizia e ambulanze ferendo diciotto persone tratta dei primi disordini cenni nella città-stato, d protestare in piazza è un punibile con il carcere. L zia ha arrestato 27 cittadini stranieri che rischiano di ni di prigione. Singapore 5,2 milioni di abitanti, è 1 paesi più ricchi del mondo dipende molto dalla man pera straniera, composta soprattutto da lavoratori de meridionale e spesso mal ti, scrive Asian Age.

FILIPPINE
L’8 dicembre il gì verno e il Fronte moro islam di liberazione (Milf), il principale gruppo ribelle musulmani hanno firmato a Kuala Lumpur un accordo di condivisione c potere che apre la strada a un accordo di pace. L’intesa prevede la nascita di una regione autonoma sull’isola di Mindanao Più di 150mila persone sono morte dall’inizio dell’insurrezione nel 1970.

TAILANDIA
BANGKOK
Dopo che per settimane i sostenitori dell’opposizione hanno manifestato per le strade di Bangkok chiedendo le dimissioni del governo, il 10 dicembre la prima ministra Yingluck Shinawatra ha annunciato che scioglierà il parlamento e indirà nuove elezioni. La decisione della premier, che il 10 dicembre in un discorso in diretta tv ha escluso di dimettersi prima del voto, segue le dimissioni in blocco dei deputati dell’opposizione, l’8 dicembre. La mossa di Shinawatra, tuttavia, non ha calmato i contestatori, guidati dall’ex deputato del Partito democratico Suthep Thaugsuban, che hanno promesso di continuare la protesta a oltranza finché non se ne andrà. La prima ministra è accusata di essere un fantoccio al servizio del fratello Thaksin, l’ex premier in esilio volontario con una condanna pendente per corruzione e abuso di potere. Lasciare la scelta ai tailandesi e andare alle urne – la data del voto potrebbe essere il 2 febbraio 2014 – non è però la soluzione ideale per l’opposizione, che ha poche probabilità di vincere contro il partito Pheu Thai, oggi al governo. I manifestanti, al contrario, chiedono l’istituzione di un "consiglio del popolo" scelto dal re. "È improbabile che l’idea sia venuta spontaneamente a Suthep Thaugsuban o gli sia stata suggerita dal suo partito. Qualcuno si chiede se non gli sia stata imposta da qualche potente fronda monarchica", scrive Asia Times che aggiunge: "Non sarebbe la prima volta che i monarchici si pronunciano a favore di un governo nominato per sostituire quello eletto". Non è ancora chiaro se il Partito democratico boicotterà o meno il voto, ma il Pheu Thai ha già annunciato che tra i suoi candidati ci saranno alcuni fedeli di Thaksin Shinawatra, banditi dall’attività politica per cinque anni per brogli e oggi riabilitati. Tra questi l’ex premier Somchai Wongsawat, scrive il Bangkok Post.

INDIA
SORPRESA NELLE URNE
I risultati delle elezioni che si sono tenute in quattro stati indiani nelle ultime settimane hanno segnato il trionfo del Bharatiya janata party (Bjp), il partito nazionalista indù che guida l’opposizione al governo centrale. Il Bjp ha mantenuto il potere nel Chhattisgarh e nel Madhya Pradesh e ha conquistato la maggioranza nel Rajasthan e nello stato della capitale New Delhi, guidati finora dal partito del Congress. In molti hanno dato il merito della vittoria a Narendra Modi, il candidato dell’opposizione alle elezioni generali del 2014, anche se alcuni analisti fanno notare che in questo caso sono stati i leader locali del partito ad avere maggior peso. Inatteso, inoltre, è stato il debutto positivo del neonato Aamaadmi (partito dell’uomo comune), guidato da Arvind Kejriwal ex attivista del movimento anticorruzione di Anna Hazare, che nello stato della capitale ha ottenuto 28 seggi su 70. Kejriwal, scrive Outlook, ha escluso di allearsi con il Bjp (31 seggi) o il Congress (8 seggi) ed è possibile che, non avendo il Bjp la maggioranza assoluta, si torni alle urne.
INDIA
L’11 dicembre la corte su-prema indiana ha ribaltato una sentenza del 2009 che depenalizzava i rapporti omosessuali, prima puniti con la prigione. La corte ha aggiunto che solo il parlamento può cancellare la legge.

CINA
PECHINO
LE BARBIE DELLO SFRUTTAMENTO MATTEL IN CINA / Una "Barbie operaia", con la bocca cucita e le braccia incatenate. Sono state denunciate così ieri a Parigi, le condizioni di lavoro negli stabilimenti cinesi che lavorano per Mattel, il marchio americano che produce la celebre bambola.
La protesta e’ stata organizzata dall’associazione Peuples solidaires e dall’organizzazione americana China Labor Watch (CLW) in uno dei grandi quartieri dello shopping parigino, nei pressi dell’Opera, nel periodo degli acquisti pre-natalizi. Davanti a una scatola rosa di oltre due metri di altezza, contenente una Barbie a grandezza naturale vestita da operaia, gli attivisti hanno vantato i suoi meriti: e’ ”facilmente manipolabile e sfruttabile: e’ capace di lavorare 13 ore al giorno per appena 12 centesimi di euro per bambola”. Sulla scatola, dove il marchio e’ stato ribattezzato ‘Matte’e’ (un’espressione gergale francese che in questo caso potrebbe tradursi in umiliata o sottomessa), una serie di adesivi elencavano i pregi della Barbie: ”Stipendio miserabile”, ”massima redditivita”’, ”funziona senza tutele sociali”.
”L’obiettivo e’ sensibilizzare piu’ persone possibile e fare pressione su Mattel”, ha spiegato all’agenzia France Presse, Benjamin Lemesle, dell’associazione Peuples solidaires. Per Kevin Slaton, responsabile di China Labor Watch, la ‘Barbie operaia’, rappresenta l”’assenza di diritti” degli operai cinesi rispetto alle condizioni di lavoro. E ancora: ”La nostra missione e’ fare in modo che Mattel rispetti gli impegni assunti nel 1997 di rispettare il diritto di lavoro cinese e di rispettare i diritti degli operai. Da 15 anni o piu’, Mattel non ha mai rispettato gli impegni. Mentono all’opinione pubblica”.
A ottobre, CLW aveva resa pubblica un’inchiesta condotta da inquirenti infiltrati in sei fabbriche cinesi. Le conclusioni rivelavano diverse violazioni del diritto del lavoro in materia di rispetto degli orari o degli stipendi. Secondo i dati di ‘Peuples solidaires’, nel mondo vengono vendute 152 Barbie al minuto. In Cina, sono circa 4 milioni le persone che lavorano nella produzione di giocattoli.

AMERICA CENTROMERIDIONALE
URUGUAY
LA MARIJUANA SARA’ LEGALE.
Il 10 dicembre, dopo dodici ore di dibattito, il senato dell’Uruguay ha approvato una legge che legalizza la produzione, la vendita e il consumo di marijuana nel paese. La nuova legge, unica al mondo, permetterà ai maggiorenni uruguaiani iscritti in un registro speciale di comprare nelle farmacie autorizzate fino a quaranta grammi di marijuana al mese. Secondo il presidente José Mujica, la norma è un’alternativa alla tradizionale politica di lotta alla droga e al narcotraffico. "Mujica ha il merito di aver collocato questo piccolo paese latinoamericano al centro dell’attenzione internazionale", scrive Milenio.
URUGUAY
PRODURRÀ E VENDERÀ MARIJUANA / Adesso è legge: i cittadini uruguayani potranno comprare la marijuana in farmacia e anche coltivarla in casa, entro un certo quantitativo. Con il voto favorevole del Senato, infatti, è diventata definitiva l’approvazione della legge che fa dell’Uruguay il primo Paese al mondo a liberalizzare e controllare la vendita delle droghe leggere. Una legge fortemente voluta dal presidente Josè Mujica, contro l’accanita opposizione dei proibizionisti (per lo puù la destra e i gruppi religiosi), ma anche di una larga fetta di opinione pubblica. Nel piccolo Paese sudamericano, dunque, parte una esperienza unica per debellare il narcotraffico e la violenza e la criminalità che esso si porta dietro.
La nuova legge prevede che i cittadini con più di 18 anni possono comprare una dose mensile di «erba» (si parla di 40 grammi) ad un prezzo relativamente basso, meno di un euro al grammo, circa il 30 per cento in meno degli attuali valori sul mercato illegale. La vendita avverrà nelle farmacie autorizzate e sarà controllata (con apposito registro dei consumatori), mentre la coltivazione sarà affidata a cooperative private, sempre sotto il controllo dello Stato. La legge permette anche ai cittadini di tenere un numero limitato di piantine di cannabis in casa: per i singoli massimo sei piante a testa; per le associazioni di consumatori massimo 45 soci e 99 piante. E per evitare la nascita di un turismo della marijuana, non è consentita la vendita agli stranieri.
Il governo sostiene che la regolamentazione andrà di pari passo con campagne pubbliche che mettano in guardia dagli eccessi del consumo, simili a quelle che avvengono con il tabacco. Il dibattito finale al Senato è durato ben dieci ore e alla fine i voti favorevoli hanno prevalso per 16 a 13. Il presidente José Mujica (ex guerrigliero Tupamaro ai tempi della dittatura) ha ribadito che l’obiettivo della riforma non è «diventare un Paese del fumo libero», ma piuttosto tentare un «esperimento al di fuori del proibizionismo, che è fallito» per riuscire a «strappare un mercato importante ai trafficanti di droga». Ora l’«esperimento» è atteso alla prova. Responsabili del governo hanno detto che la produzione e la vendita della marijuana di Stato sarà pronta verso giugno o luglio.

VENEZUELA
IL VOTO MUNICIPALE CONFERMA LA VIA DEL PROCESSO BOLIVARIANO
Domenica scorsa in Venezuela, più di 19 milioni di cittadini sono stati chiamati al voto in elezioni municipali per scegliere 337 sindaci e 2455 consiglieri. Con una partecipazione di quasi il 60 %, secondo l’ultimo bollettino emesso dal Consiglio Nazionale Elettorale (97,52 % della trasmissione dati) si conferma la vittoria dei candidati del processo bolivariano riuniti nel “Gran Polo Patriottico” (GPP) e la netta sconfitta dell’opposizione.
Al momento in cui scriviamo il GPP ed al suo interno il principale partito, il Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), vince in 234 comuni, con un totale di 5.111.336 voti contabilizzati, (il 49,24 %). Di questi, almeno 13 sono capoluoghi (o capital) dei 24 Stati che formano il Paese.
La variegata opposizione di destra, riunita nella Mesa de la Unidad (MUD), si ferma a 53 municipi con 4.435.097 elettori, (42,7%).
Vi è quindi una differenza relativa del 6,52 % a favore del proceso bolivariano, sufficiente per uscire da una zona di immediato rischio politico.
Gli altri partiti minori, ottengono 833.731 voti, equivalenti all’ 8,03%. Tra questi il Partito Comunista con l’1,6%. Quasi tutte le formazioni minori hanno appoggiato i candidati bolivariani.
Mancano ancora i dati di alcuni comuni, ma il dato político è inequivocabile. Ancora una volta, il processo bolivariano esce vittorioso dalle urne. Fino a ieri del totale dei 337 comuni, 265 erano mano al PSUV ed alle forze che sostengono il processo di cambiamento iniziato dal Presidente Chávez e scomparso nel Marzo di quest’anno.
Dopo la scomparsa del Presidente Chávez , e prima di queste elezioni comunali, nello scorso aprile si erano tenute le elezioni presidenziali con la vittoria di misura del Presidente Nicolás Maduro.
E negli ultimi 14 anni, il processo bolivariano si è sottoposto a 19 processi elettorali, di cui finora ne ha perso solamente 1. Fin qui i numeri della strana “dittatura” venezuelana, che celebra più elezioni che qualsiasi altro Paese del continente latino-americano e di molti altri Paesi del mondo intero.
IL FLOP DELL’OPPOSIZIONE
La destra voleva trasformare queste elezioni in un plebiscito contro il processo bolivariano e per fare cadere il governo del Presidente Nicolás Maduro. Forti della risicata vittoria di Maduro nelle presidenziali di Aprile (che non ha mai voluto riconoscere), erano convinti di potere dare la spallata finale. Ci avevano provato scatenando i pistoleros in piazza e assassinando 11 persone la volta scorsa, aizzati dal candidato Henrique Capriles, già squadrista in prima fila nell’assalto all’ambasciata cubana nel tentativo di golpe del 2002. Da mesi il messaggio era chiaro: se Maduro aveva quasi perso in Aprile, adesso era la volta buona per sloggiarlo dal Palazzo di Miraflores. Con l’aiuto onnipresente e onnipotente degli Stati Uniti, l’opposizione ha adottato uno schema “alla cilena del 1973” con la “combinazione di tutte le forme di lotta”: guerra economica e finanziaria, accaparramento e scarsezza indotta di beni, sabotaggi nella rete elettrica, insicurezza con l’uso della criminalità organizzata ed una implacabile campagna mediatica interna. Si ripeteva fino all’ossessione che il chavismo senza Chávez era finito e che non aveva nessuna possibilità di sopravvivere. Dopo Chávez (un indio poi…), neanche Maduro era all’altezza, in fondo si trattava “solo” di un autista di metro, un ex-sindacalista non certo in grado di governare, etc. Una matrice di opinione amplificata e moltiplicata da tutti i megafoni dei media internazionale (CNN, RAI, La Repubblica, Il Corriere della Sera, El Pais, etc). Un livore di classe che traspare incessantemente dalle pagine patinate dei rotocalchi mondiali, insieme agli attacchi a quello che viene definito “l’autoritarismo del governo”.
ALCUNE CONSIDERAZIONI PER IL FUTURO
Un’analisi più attenta del voto permette alcune considerazioni. Dopo avere condotto una campagna feroce contro il CNE, la destra questa volta non ha potuto far altro che riconoscere i risultati e quindi, il suo ruolo di arbitro imparziale. Il sistema elettorale elettronico, perfezionato negli anni, è stato riconosciuto da tutte le parti come un sistema a prova di fraude. Ed anche in questa occasione migliaia di osservatori nazionali hanno partecipato a tutte le fasi del processo elettorale.
L’opposizione mantiene il bastione dei quartieri più benestanti della capitale (Baruta, Chacao, Sucre, El Hatillo) e tiene l’importante città petrolifera di Maracaibo. Ma in entrambi i casi è seguita a ruota dai candidati socialisti. Conquista Valencia, Barquisimeto, Barinas (città natale di Chávez ), San Cristobal, città in mano a sindaci “chavisti”. Vince in 8 capoluoghi (in uno grazie alle divisioni interne dei bolivariani). Sarebbe quindi un grave errore sottovalutare l’opposizione, che guadagna spazi di potere importanti in vari Stati del Paese.
A questo ci sono da aggiungere gli errori dello stesso governo, che non sono mancati. Tra questi, un certo trionfalismo.
Ma il saldo generale negativo per l’opposizione e la sconfitta dei sostenitori oltranzisti della tesi del “plebiscito per sfrattare Maduro da Miraflores” farà sentiré i suoi effetti nel campo oppositore e tra i suoi dirigenti. Gli stessi che , con questo risultato, perdono forza e prestigio, data l’incapacità di superare il voto bolivariano nonostante l’avanzata e la conquista di diverse capital del Paese.
In generale l’opposizione vince in città e perde nelle campagne. Viceversa il processo bolivariano consolida le posizioni nelle zone rurali. Ma sono ancora in disputa gli Stati alla frontiera con la Colombia, con una forte immigrazione colombiana ed una influenza dei paramilitari. La legge elettorale, che permette il voto agli stranieri che risiedono da più di 10 anni nel Paese, ha pesato nell’esito del voto a favore dell’opposizione, almeno in diverse città delle zone di frontiera.
Sul terreno elettorale persistono quindi zone geografiche di instabilità e di svantaggio da non sottovalutare.
Manca ancora una analisi ed una valutazione approfondita dell’astensionismo. Questa volta la partecipazione nelle elezioni municipali (58,9 %) ha superato quella delle regionali del 16 Dicembre 2012 (53,8 %), ma l’astensione continua ad essere alta, data la posta in gioco e gli obiettivi politici. Il dato dell’astensione, marca comunque distanza dalla politica e dalla “democrazia partecipativa”. A prima vista, come spesso accade, anche qui sono i quartieri popolari che stanno a casa, nonostante un parziale recupero, mentre gli abitanti dei quartieri benestanti e di classe media vanno a votare contro il governo.
Più in generale, il processo bolivariano ha centrato due obiettivi strategici: da una parte ha ottenuto un tempo politico supplementare cruciale, senza perdere grandi spazi di governo; dall’altra ha potuto mettere un freno alla strategia oppositora di farlo cadere in breve tempo, uscendo da un’area di rischio politico immediato. Non c’è dubbio che fosse importante superare una potenziale crisi politica a tempi stretti, a partire dai magri risultati elettorali dello scorso aprile e dalla “guerra economica”, in uno scenario di crisi economica mondiale. Un obiettivo parzialmente raggiunto.
Il “golpe de timòn” invocato da Chávez ha visto una prima concresione nelle misure sul terreno economico e sociale prese dal governo a partire da Ottobre (con l’ottenimento di nuovi poteri grazie alla “Ley Habilitante”) che hanno rimesso in sintonia il governo con il sentire popolare e l’eredità di Chávez . In termini gramsciani, si è parzialmente rinnovata la “connessione sentimentale” tra la rivoluzione ed il suo popolo. I colpi contro la speculazione sfacciata, l’arresto di alcuni funzionari e quadri intermedi corrotti, e soprattutto l’approvazione del Plan de la Patria, ideato dallo scomparso Presidente, sono passi in avanti che permettono di approfondire le trasformazioni in atto. Non è un caso che l’opposizione vi si sia opposta con tanto fervore. Di certo, per essere credibile, l’operato anti-corruzione deve andare fino in fondo e non guardare in faccia a nessuno, neanche tra le file del governo.
La prima sfida strategica è quella di saper articolare questa “svolta a sinistra” con criteri politici ed una maggiore coscienza ideologica, non solo da parte del PSUV, ma da parte di tutte le forze alleate nel Gran Polo Patriottico (GPP) che hanno contribuito al recupero del consenso ed alla vittoria bolivariana. Il GPP ha davanti a sè un compito a tutto tondo: superare le tensioni e le differenze interne, mantenendo l’unità e trasformandosi nell’ossatura per l’implementazione del Plan de la Patria, vero e proprio testamento politico di Chávez e bussola del cambiamento della società in senso socialista.
Non c’è dubbio che l’argine principale ai piani di destabilizzazione della destra è stata l’unità chavista, bolivariana, popolare attorno ai propri dirigenti. Una unità che ha posto il freno a coloro che la disprezzano e sottovalutano il protagonismo popolare organizzato, come soggetto della trasformazione. Se si consoliderà questa unità tra il protagonismo popolare, il prestigio della maggioranza dei dirigenti e l’eredità rivoluzionaria di Chávez, i rapporti di forza continueranno ad essere favorevoli al Presidente Maduro. Un dirigente sottovalutato dall’opposizione e da alcuni settori bolivariani che non sanno cogliere le sue capacità.
Una debolezza che si trascina da tempo: la comunicazione di massa dell’insieme delle forze bolivariane
Una mancanza che lo scomparso Chávez riempiva con la sua capacità di entrare in connessione diretta con il suo popolo. Oggi non basta ripetere i discorsi del Presidente Maduro e dei vari Ministri. Non basta fare propaganda. Nè, peggio ancora, scimmiottare il linguaggio ed il messaggio dell’avversario. C’è bisogno del massimo di fantasia e creatività per costruire e ricostruire un’ auto-immagine, per “vedersi con i propri occhi” e non con quelli dell’avversario. Per parlare al cuore ed alle coscienze di milioni di persone avvelenate quotidianamente dai codici e dai messaggi dell’avversario, aperti, simbolici e subliminali. Come diceva Simón Rodríguez, il maestro del libertador Simón Bolívar, “o inventiamo, o erriamo”. E’ questo il terreno della “guerra asimmetrica”, la decisiva “guerra di quarta generazione”.
C’è bisogno di una analisi più profonda dei rapporti di forza reali, delle dinamiche di flusso e riflusso del campo rivoluzionario, con la testa fredda, umiltà intellettuale e senza trionfalismi, tenendo conto delle prossime sfide elettorali per il rinnovo del Parlamento venezuelano e soprattutto della delicata fase economico-sociale del prossimo anno.

AMERICA SETTENTRIONALE
USA
PRETORIA/ WASHINGTON / SOWETO /
LA MEMORIA CORTA
Nelson Mandela è «un gigante del XX secolo», che «mi ha reso un uomo migliore», anche se «la tentazione è di ricordarlo come una icona, ma Madiba ha resistito a questo quadro privo di vita»: l’atteso discorso elogio-funebre del presidente americano BARACK OBAMA non è stato inferiore alle aspettative. L’approvazione grande, piovevano gli applausi dei sudafricani riuniti a Soweto, presi dalle parole dell’altro presidente nero della storia. Soprattutto quando ha par­lato dell’uomo «in carne ed ossa», che ammetteva le sue imperfezioni, una ragione in più per «amarlo così tanto» perché «condivideva con noi i suoi dubbi, le sue paure, i suoi calcoli sbagliati, insieme alle sue vit­to­rie. Diceva: non sono un santo». E poi, l’accusa: «Troppi leader che celebrano oggi Mandela, in realtà non tollerano il dis­senso dei loro popoli». E, subito dopo, il gesto storico: la stretta di mano con il presidente cubano Raul Castro, tra gli interlocutori dell’invettiva appena pronunciata.
L’autorevole discorso di Obama a Johannesburg, a largo spettro rivolto ad alcuni leader internazionali del cosiddetto Terzo Mondo, quasi come portavoce dell’Occidente, rischia però di seppellire la verità e di essere alla fine l’ennesima sua imbalsamazione, soprattutto perché appare largamente smemorato.
Il presidente americano dimentica di ricordare, in primo luogo a se stesso, che gli Stati uniti fino al 1988, hanno sostenuto e difeso per lunghi decenni il regime dell’apartheid. Con la motivazione — degli Stati uniti, della Gran Bretagna, della Francia (fino all’81) e d’Israele — che bisognava fermare il pericolo comunista. E se si ricorda che era l’epoca della Guerra fredda, questa non può essere presentata da Washington certo come giustificazione dei crimini che ha perpetrato e ha contribuito a perpetrare in nome della democrazia.
Nello scontro tra la maggioranza nera e la minoranza bianca, Washington aveva sostenuto Pretoria in Angola (e poi in Mozambico) nel 1975, dove l’esercito sudafricano tentava di instaurare il proprio predominio militare e la sua egemonia razziale. E non esitò ad aggirare l’embargo sulle armi e a collaborare strettamente con l’intelligence bianca sudafricana, rifiutando ogni misura coercitiva o sanzionatoria contro il régime dell’apar­theid, men­tre per la Casa bianca la maggioranza nera doveva «dare prova di moderazione». Ha ricordato Alain Gresh su Le Monde Diplomatique che Chester Crocker, l’uomo chiave della politica dell’“impegno costruttivo” del presidente Ronald Reagan in Africa australe negli anni Ottanta, scriveva su Foreign Affairs nell’inverno 1980–81: «Per la sua natura e la sua storia, l’Africa del Sud fa parte dell’esperienza occidentale ed è parte integrante dell’economia occidentale». Il 22 giugno del 1988 — siamo a soli diciotto mesi dalla liberazione di Mandela e dalla legalizzazione dell’Anc — John C. Whitehead, sottosegretario al Dipartimento di Stato, spiegava ad una commissione del Senato Usa: «Dobbiamo riconoscere che la transizione verso una democrazia non razzista in Africa del Sud richiederà inevitabilmente più tempo di quanto speriamo», insi­stendo sul fatto che le sanzioni, richieste in sede Onu dai leader sudafricani della lotta anti–apartheid e dall’allora “campo socialista” rischiavano un «effetto demoralizzante sulle élite bianche» penalizzando invece in primo luogo la popolazione nera.
Ronald Reagan concludendo il suo mandato, tentò con ogni mezzo, ma per for­tuna senza suc­cesso, di impedire che il Congresso punisse il regime dell’apartheid. Ancora duravano i tempi in cui alla Casa bianca si celebravano i Contras nicaraguesi, i combattenti per la libertà afghana, e si stendeva il tappeto rosso per le milizie della contro­rivoluzione armata angolana e mozambicana, mentre si denun­ciava il “terrorismo” dell’Anc e dell’Olp palestinese.
Quanto alla Gran Bretagna, il governo Thatcher rifiutò ogni incontro con l’Anc fino al febbraio 1990, quando Mandela fu liberato, e si oppose in ogni occasione – famoso il vertice del Commonwealth di Vancouver del 1987 – all’adozione di sanzioni antiapartheid. Era l’epoca in cui il primo ministro Cameron — solo tre anni fa ha chiesto scusa — andò in visita nel 1989 in Sudafrica invitato da una lobby filo–apartheid. Ad esser schierati con l’Anc erano i paesi “socialisti”, l’Urss, il Vietnam dove si addestrarono molti quadri. E Cuba. L’intervento militare dell’esercito cubano nel 1975, a fianco del fragile esercito della da poco liberata colonia portoghese dell’Angola, fu decisivo con la battaglia di Quito Canavale del 1988. Fu «una svolta nella liberazione del nostro Continente e del mio popolo», ha sempre sostenuto lo stesso Mandela. Il quale, non smemorato, invitò Fidel Castro alla sua proclamazione a presidente della repubblica sudafricana nel 1994. Di che dovrebbero vergognarsi dunque, su questo, i fratelli Castro?
Il fatto è che quando si nomina Man­dela non si parla solo di Guerra fredda e del fatto che, caduto il Muro di Berlino, non poteva più restare in piedi il Muro dell’apartheid. Parlano, anzi gridano ancora tutti i nodi rimasti aperti nel “secolo breve”. Certo, l’apartheid razziale è stato risolto grazie alla saggezza e, insieme, radicalità di Madiba, ma resta il grande apartheid economico e sociale, quello sudafricano (paese Brics) e quello mondiale. E sarà un caso se, mentre Obama parlava a Soweto, veniva confermato da Washington che il campo di concentramento di Guantanamo non chiuderà, come promesso?
(11/12/2013 12:48 | POLITICA – INTERNAZIONALE | Fonte: Il Manifesto | Autore: Tommaso Di Francesco)
STATI UNITI
LA SFIDA DEI REDDITI
"La disuguaglianza dei redditi è la vera sfida del nostro tempo", ha detto il 4 dicembre il presi-dente degli Stati Uniti Barack Obama in un discorso al Center for american progress. Secondo un’analisi di Bankrate condotta sui dati del Census bureau, la disparità è maggiore tra gli statunitensi dai 35 ai 54 anni. "A causa della recessione molte persone di mezza età hanno perso impieghi promettenti e ben pagati, proprio mentre il valore delle loro case crollava", scrive l’Huffìngton Post. Negli ultimi vent’anni il divario di reddito tra gli statunitensi dai 35 ai 44 anni è aumentato del 21 per cento, mentre è stato inferiore al 3 per cento per le persone di più di 65 anni e inferiore all’n per cento per quelle tra i 18 e i 24.
Aumento della disuguaglianza dei redditi negli Stati Uniti dal 1992 al 2012 per fasce d’età, percentuale
USA
Migliaia di lavoratori dei fast food hanno partecipato a uno sciopero il 5 dicembre per chiedere un aumento del salario minimo, che per molti è di appena 7,25 dollari all’ora.
Il 10 dicembre i rappresentanti democratici e repubblicani al congresso hanno annunciato un accordo di bilancio per i prossimi due anni che eviterà una nuova paralisi dello stato federale il 15 gennaio.
USA
UNA RICHIESTA INTERESSATA
Il 9 dicembre otto grandi aziende tecnologiche – Aol, Twitter, Yahoo, Microsoft, Facebook, Google, Apple e Linkedln – hanno chiesto in una lettera aperta al presidente degli Stati Uniti Barack Obama di riformare il sistema di sorveglianza di Washington, che dopo le rivelazioni di Edward Snowden è accusato di violare la libertà e i diritti dei cittadini. "Per questi colossi della tecnologia è importante che la gente si fidi di internet", spiega F Atlantic. Il congresso comincerà a discutere la riforma della sorveglianza a gennaio.

(articoli da: NYC Time, Time, Guardian, The Irish Times, Das Magazin, Der Spiegel, Folha de Sào Paulo, Clarin, Nuovo Paese, L’Unità, Internazionale, Il Manifesto, Liberazione, Ansa , AGVNoveColonne, ControLaCrisi e Le Monde)

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