10929 NOTIZIE dall’ITALIA e dal MONDO 16 novembre 2013

20131115 15:02:00 guglielmoz

ITALIA – PENSIONI, IL 5% PIÙ RICCO PESA COME IL 44% PIÙ POVERO
ROMA/NASSIRIYA/BAGDAD/KABUL. Ancora quanti morti… LA CIVILTÀ DELLA GUERRA CHE IL MINISTRO MAURO CHIAMA «PACE
VATICANO –
EUROPA – Parigi . 74 miliardi, la cultura fattura più dell’auto.
AFRICA & MEDIO ORIENTE – CAPE TOWN / Congo/ ENNESIMA SCONFITTA DELLA POLITICA INTERNAZIONALE POST COLONIALE . Non c’è la firma sugli accordi di pace tra il governo e i ribelli.
ASIA & PACIFICO – FILIPPINE / HAIYAN – Sempre più morti, danni incalcolabili. A pieno regime la macchina degli aiuti
AMERICA CENTROMERIDIONALE – Argentina. Quando la destra va al potere. – Volevano eliminare Mercedes Sosa / La celebre cantante Mercedes Sosa, gli scrittori Ernesto Sábato e Julio Cortazar, l’attrice Norma Aleandro, l’autrice di libri per bambini Maria Elena Walsh, una leggenda del tango come Osvaldo Pugliese.
Venezuela – Caracas . Maduro ai commercianti: basta rapine al nostro popolo
AMERICA SETTENTRIONALE – NYC DIRITTI UMANI. Seggio all’Onu per Cina, Russia, Cuba e Arabia Saudita – di Simone Pieranni

ITALIA
ROMA
UN POPOLO DI POETI E CONSULENTI e….. Ma come si può andare avanti….
IL TOTALE DEI COMPENSI erogati per incarichi conferiti a consulenti e collaboratori esterni nell’anno 2011, misurato al 15 ottobre 2012 nell’Anagrafe delle prestazioni, ammonta a un miliardo e 292 milioni di euro. Un aumento del 3,92% rispetto all’anno precedente. I settori che utilizzano maggiormente le consulenze, dopo le Regioni (575 milioni) e i Comuni (334), sono il Servizio sanitario nazionale (306), l’Università (168 milioni) e gli Enti pubblici non economici (70). A spendere di più tra le regioni, invece, è il Nord. Al primo posto troviamo la Lombardia con 245 milioni di compensi nell’anno 2011. Segue il Lazio, molto distanziato con 138 milioni e subito dopo, a pari merito, il Veneto e l’Emilia Romagna con 131 milioni. Più lontane le regioni del Sud con la Sicilia a 50 milioni, la Campania a 59 e la Puglia a 44. L’incremento annuo maggiore spetta al Molise: + 30% rispetto al 2010.
MAGNA PARS La parte del leone nella gestione di collaborazioni e consulenze esterne all’amministrazione la fanno le regioni italiane. La Regione che spende di più è la Lombardia, seguita da Lazio, Emilia Romagna e Veneto.
MEDICINA AMARA Nel comparto pubblico, sotto gli enti locali, a spendere di più per consulenze e collaborazioni è il Servizio sanitario nazionale anche per l’effetto della parcellizzazione delle funzioni.
AL LAVORO Non tutti gli oltre 20 mila incarichi nei consigli di amministrazione pubblici sono retribuiti. Anche se tutti generano spese di vario tipo. Diverse migliaia guadagnano più di 5000 euro annui.

ROMA
PENSIONI, IL 5% PIÙ RICCO PESA COME IL 44% PIÙ POVERO / L’Istat rivela che nel 2011 il 5,2% dei pensionati è nella fascia più ‘ricca’, sopra i 3 mila euro di reddito da pensione al mese. Si tratta di 861 mila persone, che assorbono 45 miliardi di euro l’anno, il 17% della spesa totale, poco meno di quanto sborsato (51 miliardi, 19,2%) per i 7,3 milioni, il 44% dei pensionati, sotto i mille euro. Insomma meno di un milione di teste che, in termini di spesa pensionistica, pesa quasi come più di sette milioni di persone, quasi la metà del totale. Forte è il divario tra donne e uomini, quest’ultimi rappresentano il 76,3% dei pensionati over tre mila euro al mese, quasi otto su dieci. Se si fa il confronto con l’anno precedente, sempre in base alle ultime tavole pubblicate dall’Istat a fine ottobre, si scopre che nel 2011, anche se il numero dei pensionati in Italia è diminuito di 38 mila unità, il gruppo che percepisce più di tre mila euro mensili è salito di 85 mila (+10,9%), con un aumento della spesa di 4,6 miliardi di euro. In generale c’è una tendenza alla ‘migrazione’ dei pensionati verso classi d’importo maggiore, spiegabile sia con la perequazione annuale, sia con il fatto che il valore medio delle nuove pensioni è maggiore di quello delle cessate. Infatti sempre nel 2011 si è verificata anche una diminuzione dei pensionati sotto i mille euro (di quasi 250 mila teste, -3,3%). Occorre ricordare come si stia parlando di pensionati e non di pensioni, e una persona può essere titolare di più trattamenti (pensioni di vecchiaia, invalidità, sociali e altro). La distribuzione dei pensionati per classe d’importo risente infatti della possibilità di cumulo di uno o più trattamenti sullo stesso beneficiario. Sempre nel 2011 risulta che quasi un quarto dei pensionati è destinatario di un doppio assegno. Probabilmente con il blocco dell’indicizzazione e gli altri cambiamenti che hanno toccato il mondo delle pensioni dalla fine del 2011 qualcosa oggi è cambiato, ma si tratta comunque di dati consolidati, riflesso di situazioni che permangono negli anni.
ROMA
LEGGE ELETTORALE / La commissione affari costituzionali del senato martedì voterà sul doppio turno di coalizione e sul ritorno Mattarellum. Le proposte sono contenute in due ordini del giorno presentati da Pd, Scelta Civica e Sel e, quello sul Mattarellum, dalla Lega. Secondo il leghista Calderoli, padre del Porcellum, sarà un’«operazione-verità». Anche per il relatore del Pdl Donato Bruno «è giusto votare, così usciamo fuori dall’equivoco. Sul doppio turno la nostra posizione è chiara, siamo contro». L’odg sul doppio turno è stato illustrato dal senatore Pd Maurizio Migliavacca ed è firmato anche dai senatori De Monte, De Petris, Della Vedova, Gotor, Maran, Mineo, Pagliari, Pizzetti e Zanda
STUDENTI
ULTIMATUM AL GOVERNO: «300 MILIONI PER IL DIRITTO ALLO STUDIO» / «I tanto strombazzati investimenti sul diritto allo studio nel decreto istruzione approvato ieri dal Senato – afferma Alberto Campailla, portavoce degli studenti del coordinamento universitario Link – sono del tutto insufficienti per raggiungere la copertura totale delle borse di studio». Si parla di 137 milioni di euro a cui bisogna sommare il 3% delle risorse provenienti dal Fondo Unico di Giustizia (emendamento proposto da Sel su indicazione dell’associazione Dasud). Gli studenti chiedono invece altri 300 milioni di euro. E non li convincono le voci secondo le quali il governo potrebbe aggiungere alla cifra stanziata per il Fondo nazionale per le borse di studio altri 40 milioni di euro intervenendo sulla legge di stabilità. In un’intervista rilasciata a «Il Messaggero» il ministro Carrozza ha ammesso l’esiguità della cifra e ha promesso di scrivere «una lettera» al presidente del Consiglio Enrico Letta. A suo dire sarebbero necessari altri «150 milioni di euro» (e altrettanti per la ricerca). In attesa della risposta scritta (ma non potrebbero parlarsi in Consiglio dei ministri o in una telefonata congiunta a Saccomanni?) gli studenti di Link e dell’Uds (ci saranno anche Udu e rete degli studenti) annunciano manifestazioni in tutte le città italiane venerdì 15 novembre. Le priorità politiche: rigetto delle leggi di stabilità imposta dalla Troika, sblocco del turn-over nella scuola e nell’università, esenzione della Trise per i fuorisede, finanziamento del diritto allo studio dalle grandi opere come la Tav.

ROMA/NASSIRIYA/BAGDAD/KABUL. Quanti morti…
LA CIVILTÀ DELLA GUERRA CHE IL MINISTRO MAURO CHIAMA «PACE» – di Michele Giorgio
Il ministro della difesa Mario Mauro ne è sicuro: a dieci anni dalla strage di Nassiriya, l’Italia ha capito che quella in Iraq non è stata una missione di guerra ma una missione di pace. Gli iracheni lo avranno capito? Non lo crediamo. L’invasione anglo-americana e le successive «missioni di pace» hanno aperto la strada in Iraq al bagno di sangue in cui l’Iraq è ancora immerso da dieci anni. Ovvio, l’Italia non ha le responsabilità maggiori di quella situazione, tuttavia sostenere, come fa il ministro Mauro, che i soldati italiani in Iraq andarono per portare la pace fa quanto meno sorridere. Facevamo parte di uno schieramento dei volenterosi con i quali si mobilitò subito il governo Berlusconi ossequiente a George W. Bush, per una guerra inventata di sana pianta per armi di distruzione di massa che non c’erano.
L’Iraq post Saddam Hussein «costruito» dagli americani e dai governi occidentali è costato la vita di 460.800 persone, secondo ricerca pubblicata sul giornale Plos Medicine che tiene conto anche delle morti figlie di cattive condizioni igieniche, della fame, delle malattie non curate per mancanza di strutture adeguate. Un precedente studio del gruppo Iraq Body Count aveva invece calcolato in 115.000 i morti, facendo riferimento solo ai decessi avvenuti nelle violenze. Dall’inizio dell’anno la guerra civile è ripresa a ritmo sostenuto e al Qaeda è tornata a dettare legge nelle strade. Dall’inizio del 2013 inoltre hanno perduto la vita almeno 5.500 persone, in maggioranza civili. Il mese di ottobre ha segnato un altro tragico record negativo: 964 morti, il numero più alto in un solo mese dall’aprile del 2008. Dov’è la pace che avremmo portato?
Ma a proposito dell’Iraq, così come dell’Afghanistan, ci ripetono che i militari occidentali, inclusi quelli italiani, hanno contribuito alla civiltà (ma il ministro Mauro si ricorda di Abu Ghraib?),alla ripresa del Paese, all’istruzione, al progresso sociale e all’attuazione dei diritti delle donne. Nel 2004 il presidente americano George W. Bush, dichiarò durante un incontro alla Casa Bianca che le donne in Iraq vivevano in condizioni migliori grazie alla chiusura delle «stanze della tortura di Saddam Hussein». In realtà dieci anni dopo, le donne irachene sono colpite duramente da ogni tipo di violenza. La prostituzione e gli abusi in famiglia stanno diventando la regola, l’analfabetismo cresce e migliaia di donne rimaste vedove sono prive di protezione sociale. Il loro ruolo nella vita pubblica è marginale. Un tempo all’avanguardia nel mondo arabo per i diritti assicurati alle donne, oggi l’Iraq è 21esimo su 22 Paesi in questa particolare classifica. E le cose vanno sempre peggio. Se nel primo governo del dopo Saddam Hussein figuravano sei ministre, nell’esecutivo attuale, guidato da Nour al Maliki, c’è soltanto una donna. Va meglio nel Kurdistan dove il governo regionale nel 2011 ha avviato una legge contro la violenza domestica, i delitti d’onore e le mutilazioni genitali; ma è ancora poco per parlare di svolta, dicono le attiviste che chiedono l’adozione di politiche più incisive e l’approvazione di nuove leggi. Il male che sta uccidendo l’Iraq è il settarismo e il premier Maliki non sembra avere tempo per i diritti delle donne. Non ha favorito l’apertura di un vero dialogo tra sunniti e sciiti. Da oltre un anno la minoranza sunnita protesta contro il governo, sull’onda anche di ciò che accade in Siria. La risposta di Baghdad sino ad oggi è stata la repressione di qualsiasi forma di opposizione. La polizia lancia raid continui nei quartieri sunniti, alimentando la tensione, e i centri per i diritti umani accusano le autorità di fa uso della tortura per ottenere confessioni su cui si basano sentenze di condanna a morte. Senza dimenticare che accanto alle stragi di al Qaeda ci sono i crimini commessi dalle milizie legate al governo che «proteggono» gli sciiti dagli attacchi degli estremisti sunniti. Di fronte a tutto questo l’Occidente chiude gli occhi e non mancano occasione per vendere armi al governo iracheno

VATICANO

EUROPA
RUSSIA
MOSCA
PUSSY RIOT, AMNESTY: "MOSCA VUOL FAR TACERE NADIA" / Gli avvocati della Pussy Riot Nadia Tolokonnikova hanno inoltrato un nuovo appello per la sua liberazione alla Corte Suprema russa. Lo riferisce l’agenzia Ria Novosti. L’appello arriva in un momento di incertezza sull’ubicazione della ragazza – si è parlato nei giorni scorsi di un trasferimento in Siberia, una dei due membri della band musicale Pussy Riot condannati nel 2012 a due anni di prigione per una «preghiera punk anti Putin» nella cattedrale di Mosca. Se ne sono infatti perse le tracce dopo la decisione delle autorità carcerarie il 21 ottobre di trasferirla dalla Mordovia in un’altra prigione, in seguito alle dichiarazioni della ragazza di aver ricevuto minacce da funzionari delle carceri. Il Commissario russo per i diritti umani Vladimir Lukin ha promesso di dare il proprio sostegno al reclamo.
Sulla vicenda è tornata anche Amnesty International, secondo la quale il continuo rifiuto di rendere noto dove si trovi Tolokonnikova, è la prova «dell’intento delle autorità russe di ridurla al silenzio».
MOSCA
PER PROTESTA INCHIODA TESTICOLI AL SUOLO Arriva dalla piazza Rossa a Mosca la protesta contro Putin e contro la sua totale indifferenza verso i diritti civili di diverse categorie. A protestare è stato Pytor Pavlensky, artista russo, che ha deciso di inchiodarsi i testicoli proprio sul selciato della piazza. L’uomo si è prima spogliato in pubblico poi si è trafitto lo scroto e l’ha fatto sul ciottolato della piazza. Pavlensky è rimasto a terra vari minuti, senza cedere alla sofferenza, poco dopo è intervenuta la Polizia per portarlo in ospedale. In un comunicato che Pavlensky ha pubblicato prima della “performance” con il video che pubblichiamo l’artista ha spiegato che sta cercando di attirare l’attenzione della società russa sullo “stato di polizia” che vige attualmente nel paese. Pavlensky già in passato si è mostrato con la bocca cucita per protestare contro l’arresto e l’incarcerazione delle Pussy Riot, poi, sempre contro il Cremlino si è fatto trovare nudo, per strada, e avvolto del tutto nel filo spinato.

GRECIA
ATENE
10NGR Migliaia di dimostranti in Piazza Syntagma mentre in parlamento si discute la mozione di sfiducia di Syriza / Migliaia di dimostranti hanno raccolto l’appello della sinistra radicale e si sono radunati in Piazza Syntagma davanti al parlamento dove si sta discutendo la mozione di sfiducia presentata da Syriza contro il governo di "LARGHE INTESE" di Samaras. Duro attacco di Alexis Tsipras al premier in parlamento. "abbiamo proposto una mozione di censura, perché avete fallito su tutto. Il popolo viene trattato come spazzatura".
TSIPRAS HA DETTO CHE UN GOVERNO DI SYRIZA CANCELEREBBE TUTTE LE MISURE DETTATE DAI MEMORANDUM DI UNIONE EUROPEA E FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE.
Una deputata del Pasok ha votato a favore della mozione di Syriza ed è stata espulsa dal partito. La mozione è stata bocciata ma il successo della mobilitazione dimostra che Syriza è sempre più il punto di riferimento della Grecia che resiste e si ribella. Nella piazza piena si alternano discorsi e musica.
ATENE
Syriza vuole ridare tv pubblica a popolo, scontri con polizia. / Si sono rergistrati scontri tra polizia e centinaia di persone, tra cui deputati dell’opposizione, sabato sera davanti ai locali dell’ex tv pubblica, Etr, alla periferia di Atene. La polizia ha respinto i deputati della sinistra radicale Syriza, principale partito di opposizione. I manifestanti volevano entrare nell’edificio, evacuato giovedì della polizia dopo una occupazione iniziata a giugno, quando la tv è stata ‘spenta’ nel piano dei tagli del governo.
ATENE
LAURA BOLDRINI INCONTRA IL PORTAVOCE DI SYRIZA SU MIGRANTI E SINISTRA EUROPEA . La presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini ha incontrato nel corso della visita istituzionale in Grecia il principale leader dell’opposizione e il Presidente di Syriza Alexis Tsipras. Lo rende noto l’ufficio stampa di Syriza.
Alla riunione hanno partecipato Rena Douro, responsabile della politica estera e di difesa e Stathis Panagoyls, membro del gruppo parlamentare di amicizia tra Italia e Grecia. La presidente della Camera era accompagnata dall’ambasciatore italiano in Grecia Claudio Glaentzer e da una delegazione del Parlamento italiano.
L’incontro si e’ svolto in un’atmosfera cordiale e positiva. "Tema dominante che ha preoccupato entrambe le parti – spiega Syriza- e’ stata l’immigrazione, uno schiaffo in faccia per tutta l’Unione europea, com’e’ accaduto il mese scorso sulle coste di Lampedusa, con immigrati africani vittime della tragedia che si verifica quotidianamente nelle acque del Mediterraneo. Migliaia di vite umane perse, a causa dell’assenza di una politica di immigrazione coerente, ma anche per l’assenza di solidarieta’ dei paesi del nord a quelli del Sud". La discussione ha anche affrontato la situazione in Grecia, che la presidente Boldrini ben conosce, avendo visitato dispensari, ricoveri sociali e organizzazioni non governative, come quella di Me’decins du monde. Tsipras ha sottolineato la necessità di iniziative che deve prendere la Grecia in una piu’ ampia alleanza di paesi provati dalla crisi europea ed ha ricordato l’insensibile assenza di una politica dell’ immigrazione da parte dell’Unione europea. Il presidente Tsipras ha anche ricordato che a tal fine Syriza e lui personalmente in qualita’ di vice-Presidente del partito della Sinistra europea, sostengono ogni sforzo a livello nazionale ed europeo. Questo, spiega Syriza, "e’ un tipico caso di vedute comuni ai due presidenti: l’esistenza di un’altra Unione europea rispetto a quella che hanno conosciuto e sperimentato i greci, gli italiani e altri popoli negli ultimi tre anni". Syriza fa parte, insieme a tante altre formazioni comuniste e di sinistra, tra cui Rifondazione Comunista in Italia, del Partito della Sinistra Europea.

GRAN BRETAGNA
LONDRA
Austerity, i comuni spengono le luci nelle strade: protesta degli automobilisti / Due terzi dei municipi in Inghilterra hanno abbassato o spento del tutto le luci nelle loro strade. Non è per un possibile bombardamento, ma a causa della “spending review”. Il Sunday Telegraph parla di un Paese che sta ripiombando nelle tenebre, col conseguente timore di un aumento del crimine e degli incidenti stradali. Il domenicale cita i risultati di una ricerca, pubblicata dall’ex ministro all’Ambiente laburista, Hilary Benn, secondo cui i provvedimenti presi dalle autorità locali riguardano 750 mila illuminazioni pubbliche in tutta l’Inghilterra. Sui 122 municipi che hanno risposto all’indagine, ben 81 hanno spento i lampioni o ridotto le ore di accensione, limitandola solo a quando e’ buio pesto. Ci sono poi aree che sembrano tornate a quando l’illuminazione elettrica non esisteva.
Meta’ delle luci che rientrano sotto il controllo della contea del Devon sono state spente, mentre si raggiunge il 61% nel Warwickshire e il 66% nel Nord Somerset. L’anno scorso sempre il Sunday Telegraph aveva denunciato il fatto che oltre cinquemila chilometri di autostrade e altre strade principali non fossero illuminate.
Fra queste l’esempio della M1, una delle maggiori arterie stradali del Paese, nel tratto tra Luton e Milton Keynes, che e’ lasciata al buio fra la mezzanotte e le cinque di mattina, le ore piu’ pericolose.
Il governo di David Cameron, spesso criticato per l’austerita’ imposta al settore pubblico, ha affermato che e’ un diritto dei municipi, laddove possibile, tentare di ridurre la propria ‘bolletta’. Ma l’iniziativa ha suscitato non poche polemiche, con l’associazione degli automobilisti, la AA, che chiede uno stretto controllo del numero di incidenti dopo questo ‘oscuramento’, temendo un aumento delle vittime sulle strade. Le polemiche sono ben presto diventate uno scontro politico. Il deputato laburista autore della ricerca, oltre a puntare il dito sulle responsabilita’ del governo, ha rilevato che il 27% delle luci sono state spente nelle zone gestite dai conservatori di Cameron, mentre solo il 7% in quelle con una amministrazione del Labour. Immediata la risposta del sottosegretario per le autorita’ locali, Brandon Lewis, che ha accusato l’esponente laburista di ipocrisia. Quando era ministro nel governo di Gordon Brown, lo stesso Benn avrebbe chiesto di spegnere i lampioni per ridurre le emissioni di anidride carbonica.

GERMANIA
BERLINO
EURO E MERKEL, NON SONO I SOLI COLPEVOLI Il crescente malessere sociale che colpisce le popolazioni europee ha trovato nell’euro un capro espiatorio unitamente al ruolo giocato da Bruxelles nel tenere in ostaggio le economie nazionali. In questi cinque anni di crisi sono cresciuti vistosamente in tutta la Ue i movimenti politici anti-euro, spesso cavalcati da forze di destra, anche estrema, ma pure da intellettuali che si collocano nell’area della sinistra radicale. A questo risentimento si è associato, negli ultimi tre anni, quello contro Angela Merkel.
L’accusa al governo tedesco è di dettare la linea dell’austerity, a vantaggio della Germania e con il conseguente impoverimento dei paesi del Sud Europa. Ed è proprio in quest’area europea affacciata sul Mediterraneo che cresce vistosamente un vero e proprio rancore contro la Merkel e l’euro, come una coppia malefica, sadica, mai sazia del sangue alle popolazioni europee più povere, a cominciare dalla Grecia.
Nel biennio dolente, 2012/2013, ci sono state grandi manifestazioni popolari contro le politiche di austerity: dagli indignados in Spagna, occupanti Plaza del Sol per più di un mese, a quelle più cruente in Grecia (con morti e centinaia di feriti), a quelle meno eclatanti in Portogallo, Italia e, sia pure in tono minore, in Francia. Risultati? Zero. I governi delle "larghe intese" ormai prevalenti in quasi tutta l’Ue hanno continuato con ostinazione ad adottare ricette velenose capaci di produrre solo una prolungata recessione e di aumentare il rapporto debito/Pil.
Alle critiche e alle manifestazioni di protesta hanno risposto in coro: ce lo chiede l’Europa! Con questo ritornello non hanno fatto altro che accrescere la rabbia contro Bruxelles e fatto riemergere oscure forze nazionalistiche che potrebbero causare in breve tempo la fine della stessa Unione europea.
Ma, è proprio vero che l’euro e le politiche di austerity decise dalla Merkel sono la causa esclusiva dei nostri mali? Andiamo per ordine. Da quando i titoli di stato dei paesi del sud – Europa, e dell’Irlanda, sono entrati nell’occhio del ciclone della speculazione finanziaria, Bruxelles è intervenuta con forza, richiedendo – in cambio del sostegno finanziario – misure drastiche che vanno dal taglio alla spesa pubblica, ai dipendenti pubblici, accelerazione dei processi di privatizzazione, ecc. La Grecia è il paese che ha subito i tagli più feroci alla spesa pubblica e le politiche di austerity/privatizzazioni più draconiane, ma anche il paese a cui è stato accordato un "dono" di 137 miliardi di debito che è stato cancellato! Poco meno dolorose sono state le ricette europee per gli altri paesi – Spagna, Portogallo… – "aiutati", con risultati ugualmente catastrofici.
Viceversa, l’Italia, che non ha chiesto aiuto a Bruxelles – unico merito di Monti – è stata sottoposta ad una sola clausola fondamentale: un tetto al deficit/Pil non superiore del 3% per quest’anno, da azzerare nei prossimi anni, fino ad arrivare ad una riduzione del rapporto debito/Pil del 60%. Attualmente è del 173% per la Grecia, del 134% per l’Italia, e decisamente più basso negli altri paesi del sud- Europa. Gli inviti a tagliare la spesa pubblica o a privatizzare fanno parte della moral suasion degli ideologici neoliberisti di Bruxelles, ma non costituiscono nessun diktat, come invece ci hanno raccontato finora i governi "tecnici".
Ora, di fronte a questi vincoli la domanda è : possiamo restare sotto il tetto del 3% del rapporto deficit/Pil creando posti di lavoro e rendendo meno sperequata la nostra società ? In altre parole: chi ci impedisce di avere una seria patrimoniale, una progressività fiscale che colpisca il redditi medio-alti, un taglio netto alla spesa militare ed alle megaopere inutili e dannose che ci costano svariati miliardi ? La risposta è: nessuno ce lo impedisce. Come dimostrano diversi studi e proposte nel merito, come quella di Sbilanciamoci o il "Piano per il lavoro" del Prc, si possono creare centinaia di migliaia di posti di lavoro tagliando spese inutili e dannose, distribuendo diversamente il carico fiscale, restando dentro questa compatibilità del deficit al 3%. Cosa c’entra Bruxelles , l’arcigna Merkel , con tutto questo? Niente. Se i governi tecnici di Monti e Letta non hanno sostanzialmente modificato il carico fiscale, spostandone il peso sui ceti medio-alti, se non hanno voluto varare una patrimoniale, se hanno continuato a sprecare miliardi in opere inutili e dannose (a partire dal Tav), se hanno incrementato i finanziamenti alla spesa militare, è solo perché sono ideologicamente e materialmente legati alla borghesia finanziaria, parassitaria (e criminale), che gestisce il potere in questo paese. Se quest’anno, ancora una volta, non riusciamo a spendere i 6,7 miliardi di Fondi europei ( Fesr e Fse) utilizzandone, male, solo il 55%, se abbiamo un sistema di corruzione capillare che ci costa, secondo alcune stime, circa 60 miliardi di euro l’anno, se abbiamo una giustizia civile che è tra le più lente del mondo e rende incerto il diritto, non è certo perché l’ha deciso Frau Merkel. Per non parlare delle gravi infrazioni in cui siamo incorsi in merito alla tutela ambientale, sovraffollamento carceri, accoglienza immigrati, ecc., con ben 103 procedure aperte con tanto di multe che pesano sul bilancio statale, come hanno ben documentato su questo giornale Canetta e Milanesi. In breve, possiamo ben dire che in Italia l’alibi europeo – ce lo chiede l’Europa! – ha funzionato per far passare politiche neoliberiste che hanno impoverito il paese, sotterrato il movimento sindacale, smantellato il welfare. In effetti, i nostri "tecnici" per fare della buona macelleria sociale sono stati molto bravi sul piano della comunicazione, riprendendo una tradizione radicata tra i politici meridionali : la colpa è sempre di Roma che non finanzia, che si mangia i soldi, mai loro! C’è sempre un nemico esterno che giustifica le nefandezze del potere che governa un paese o una regione. Non è un caso che i movimenti nazionalisti anti-euro siano spesso cavalcati dalle forze economiche più oscure dei singoli paesi. Forse è arrivato il momento di finirla, di dare al Cesare quel che di Cesare. L’Unione europea va rifondata, le politiche economiche radicalmente cambiate, ma non dimentichiamoci le responsabilità gravissime di chi sta governando questo paese da molto, troppo, tempo.

FRANCIA
PARIGI
S&P taglia rating Francia. Governo furioso: Giudizio inesatto / S&P taglia rating Francia ad AAStandard and Poor’s ha tagliato il rating sovrano della Francia da AA+ a AA. L’outlook passa da negativo a stabile. Secondo l’agenzia le riforme varate in campo fiscale, dei servizi e del mercato del lavoro non aumenteranno le stime di crescita. Il rallentamento dell’economia sta limitando inoltre il consolidamento dei conti pubblici. Il governo francese non ci sta e reagisce furioso al declassamento. Il giudizio sulla Francia "rimane tra i migliori al mondo", ha detto il premier, Jean-Marc Ayrault, aggiungendo che l’agenzia di rating americana non prende in considerazione "tutte le riforme". Prima di lui aveva parlato il ministro dell’Economia, Pierre Moscovici, che aveva definito il giudizio di S&P "critico e inesatto".
PARIGI
74 MILIARDI, LA CULTURA FATTURA PIÙ DELL’AUTO / Dall’arte ai videogiochi, dal cinema all’editoria: un rapporto commissionato dalla Saicem (la Siae francese) all’agenzia Ey (l’ex Ernst & Young), fotografa lo stato di salute della cultura francese: l’intero comparto fattura 74 miliardi di euro l’anno, il 4% della ricchezza nazionale prodotta, con 7,1 milioni di persone impiegate nel settore, il 5% della popolazione attiva. Il settore auto si ferma a 60,4 miliardi di fatturato, tanto per fare un paragone. E i francesi, nonostante la crisi, continuano a spendere in cultura: l’8,4% del reddito. Le arti visive e plastiche (dalla grafica al design all’architettura) sono al vertice con un fatturato di 19,8 miliardi, segue la televisione con 14,9 miliardi, al terzo posto (10,7 miliardi) l’informazione tra giornali e newsmagazine, quindi musica (8,6 miliardi), spettacolo dal vivo (8,4 miliardi), libri (5,6 miliardi), videogiochi (5 miliardi), cinema (4.4 miliardi) e radio (1,6 miliardi)

SPAGNA
MADRID
DICIASSETTE PARTITI VERSO LA BANCAROTTA / Diciassette partiti politici hanno chiuso gli esercizi dal 2009 al 2011 in bancarotta tecnica, con un «patrimonio netto negativo», secondo il rapporto della Corte dei Conti spagnola. A fronte di 850 milioni di euro di finanziamenti pubblici. Il 2011, anno delle elezioni, è stato il peggiore. Il maggiore deficit patrimoniale è del partito nazionalista catalano di Unio Democratica de Catalua (Udc), con 11,2 milioni di euro, seguito dalla coalizione della quale fa parte, Convergència i Unió, con un saldo negativo di 10,1 milioni. Al terzo posto per debiti, Izquierda Unida, con un saldo negativo di 8,5 milioni, seguita dal partito galiziano BnG (3,4 milioni) e Izquierda Unida dell’Andalusia (3,2 milioni). Nei rendiconti del 2012 pubblicati a fine ottobre, il Partido Popular al governo ha dichiarato un saldo positivo di 9,5 milioni di euro, il maggiore dal 2008 e quadruplo rispetto a quello del 201
VALENCIA
EMITTENTI LOCALI A RISCHIO, IL CASO DI VALENCIA / Dopo la chiusura della tv pubblica regionale valenziana, Ràdio Televisió Valenciana, sono a rischio altre 12 catene televisive finanziate dalle autonomie regionali spagnole, che accumulano complessivamente debiti per oltre 3 miliardi. Fra queste, la tv catalana, con un deficit di 1 miliardo, nonché Telemadrid, con 250 milioni di debiti e un ricorso pendente al Tar per i licenziamenti previsti dal piano di ristrutturazione. Il governo della Generalitat di Valencia ha deciso la chiusura della tv dopo 24 anni di attività, in seguito all’annullamento da parte del Tar di mille licenziamenti, su 1.670 lavoratori in organico, previsti dal piano di ristrutturazione. Accusate di manipolazione informativa, censura e ingerenze politiche, le emittenti finanziate dai governi regionali hanno ricevuto solo quest’anno un’iniezione di 882 milioni di euro di fondi pubblici, per continuare la programmazione. Complessivamente non superano l’8,6% dello share, nove punti in meno dello scorso anno, secondo i dati della Forta, la Federación de Organismos de Radio y Televisión Autonómicos, che coordina le attività dei media delle comunità regionali
MADRID
SOMMERSA DAI RIFIUTI DOPO SCIOPERO SPAZZINI CONTRO LICENZIAMENTI / Madrid sommersa dai rifiuti A una settimana dall’inizio dello sciopero di spazzini e addetti ai giardini, indetto dai sindacati per esigere il ritiro dei 1.134 licenziamenti dei 6.000 impiegati nel settore, annunciati da tre imprese che hanno in appalto il servizio comunale, Madrid si presenta sommersa dai rifiuti. Sarebbero decine di contenitori di spazzatura bruciati nei falò notturni in centro e nella periferia di Madrid.

PORTOGALLO
LISBONA
Caritas: "Governo allenti l’austerità". 17% POPOLAZIONE A RISCHIO POVERTÀ / La Caritas del Portogallo chiede al Governo conservatore di Peddro Passos Coelho di "allentare" e dunque diminuire le misure anticrisi che ancora oggi stanno causando l’aumento del numero delle persone indigenti.
"In un anno gli assistiti dalla nostra associazione sono aumentati del 17 per cento" ha dichiarato il presidente della Caritas portoghese, Eugenio Fonseca.
"L’AUSTERITA’ – ha poi aggiunto Fonseca – non sta producendo nulla di positivo, ma solo nuova poverta’. Il popolo ha già dato tutto quello che poteva e ora merita un gesto di buona volonta’ dai politici che lo governano, attraverso la riduzione delle tasse e la salvaguardia dell’occupazione".
Fonseca ha spiegato che negli ultimi 12 mesi la Caritas ha assistito ben 48.450 persone (la popolazione è di 10 milioni di abitanti) mentre nel periodo precedente e sempre di crisi, sono stati 40 mila. i dati dimostrano dunque che l’austerita’ non ha migliorato le condizioni di vita dei portoghesi, ma le ha solo peggiorate.
IL 17,9 % DELLA POPOLAZIONE OGGI È A RISCHIO POVERTÀ.
Per soddisfare i parametri che sono stati imposti dalla Troika (UE-BCE-FMI) e a fronte di un prestito di 78 miliardi del 2011 il Governo portoghese sta mettendo in atto varie misure contestate. E’ la Troika a dire che proprio queste misure starebbero consegnando i frutti sperati.
LISBONA
MAGISTRATI , FORZE DELL’ORDINE ED ESERCITO IN SCIOPERO CONTRO L’AUSTERITY / Anche i magistrati portoghesi scendono in piazza contro il Bilancio 2014 dello Stato, approvato dal Governo conservatore. Il sindacato dei pubblici ministeri portoghesi (SMMP) ha proclamato uno sciopero per il 25 novembre contro le misure anticrisi contenute nella manovra finanziaria del Governo di Pedro Passos Coelho. Il sindacato, presieduto da Rui Cardoso, in una nota afferma che "e’ giunto il momento di porre fine al crollo dello stato sociale di diritto" e chiede che venga garantito "il rispetto per la Costituzione e le Corti di giustizia". I pubblici ministeri "non accettano la continuazione del deterioramento dello status socio-professionale dei Pm" e chiedono "un sistema di remunerazione dei giudici che garantisca la loro dignita’ e la loro indipendenza dai poteri legislativo ed esecutivo".
Negli ultimi giorni in Portogallo si sono svolti diversi scioperi e altri ne seguiranno, mentre le misure anticrisi vengono contestate anche dalle forze dell’ordine, con manifestazioni, a Lisbona, dei sergenti dell’Esercito (sono 4.500) e delle forze di polizia. Tra le altre misure impopolari figurano la riduzione dei salari nel pubblico impiego e l’aumento di 5 ore settimanali dell’orario di lavoro, l’aumento dell’età pensionabile a 66 anni, il blocco delle pensioni di reversibilità se il cumulo supera i duemila euro mensili e tagli per le pensioni superiori ai 600 euro. Il bilancio prevede una manovra di 3,9 miliardi (il 2,3% del PIL) per rispettare i paramenti imposti dalla Troika (UE, BCE, FMI) per la concessione di 78 miliardi nel 2011, e che per il 2014 prevedono un disavanzo del 4%.

AFRICA & MEDIO ORIENTE
ARABIA SAUDITA
RIYAD/GEDDA
Repressa la rivolta degli spazzini / La rivolta dei migranti contro le autorità saudite è finita ieri, con il ritorno al lavoro dei netturbini, quasi tutti stranieri, nella capitale Riyadh e a Gedda, e dopo due morti, 68 feriti, oltre 100 autoveicoli dati alle fiamme e centinaia di arresti. La settimana di «caccia all’immigrato» che le autorità saudite avevano lanciato il 4 novembre, allo scadere della proroga di sette mesi concessa ai lavoratori stranieri irregolari per lasciare il Paese, ha avuto il momento più drammatico sabato scorso con gli scontri violenti esplosi a Manfouah, quartiere di Riyadh dove vivono migliaia di etiopi, somali ed eritrei in condizioni durissime, in dieci in due stanze, in topaie che i proprietari si ostinano a chiamare appartamenti. A un certo punto è scoppiata una rissa, tra sauditi e immigrati, scatenata, pare, dal lancio di pietre degli stranieri arroccati nelle stradine del quartiere, decisi a resistere all’arresto. Negli scontri, un cittadino saudita e un etiope sono rimasti uccisi. Ma il governo di Addis Abeba accusa la polizia saudita di aver sparato senza motivo mentre le unità speciali penetravano nel quartiere per portare via gli immigrati con la forza.
E’ stata una sommossa, che per poco non è finita in strage, contro un Paese che dopo avere sfruttato il lavoro dei stranieri – milioni di persone alle quali sono destinate le briciole degli immensi proventi del petrolio – ora ne rispedisce una buona parte a casa.
I netturbini erano in sciopero perché la «società di collocamento» che li aveva portati in Arabia saudita non li ha mai regolarizzati, la stessa condizione di altre migliaia di lavoratori. Molti degli «irregolari» di fede islamica invece avevano usato il pellegrinaggio ai luoghi santi della Mecca e Medina per entrare in Arabia Saudita e rimanerci in cerca di un lavoro. Per anni è andata avanti così, con le autorità che fingevano di non vedere questa massa enorme di diseredati pronti a lavorare per pochi dollari al giorno. Stava bene a tutti, soprattutto agli imprenditori. Poi è arrivata la stretta, improvvisa e dura, ufficialmente per ragioni di sicurezza e per «alleviare» la disoccupazione tra i sauditi (al 12,5 per cento che tocca principalmente i giovani). La monarchia ora invoca la «saudizzazione» per nascondere il problema delle enormi spese che il Paese deve sostenere per portare avanti la sua politica contro Siria e l’Iran e per contenere i fermenti sociali che potrebbero tramutarsi in una nuova rivolta araba. Lo slogan perciò è il «lavoro ai sauditi». Eppure le autorità sanno bene che ben pochi disoccupati sauditi si abbasseranno a fare i lavori umili svolti per anni dai clandestini. Così negli ultimi sette giorni la polizia ha effettuato ispezioni ovunque, senza sosta, facendo terra bruciata intorno agli «irregolari». Centinaia di migranti ieri erano in fila per costituirsi al centro per il rimpatrio di Riyadh e per evitare le pesanti sanzioni previste dalla campagna anti-clandestini. Intere famiglie sono state caricate sui pullman verso un centro di detenzione prima di essere espulsi dal Paese. Circa un milione di stranieri – dalle Filippine, India, Pakistan e Yemen – hanno già lasciato l’Arabia saudita approfittando della proroga offerta sette mesi fa.
La maggioranza dei giornali si è schierata con la linea del pugno di ferro scelta dal governo. Ha applaudito all’intervento della Guardia nazionale in appoggio alle forze speciali della polizia. Ha avallato ispezioni e blitz contro il «pericolo alla sicurezza causato dai clandestini». Non la pensano così gli imprenditori abituati a sfruttare i manovali a basso costo, per accumulare fortune immense. Le ispezioni infatti hanno causato l’arresto dei lavori del 50% delle società di costruzione, 100 mila secondo il quotidiano Arab News. Molti negozianti hanno preferito chiudere non potendo registrare i loro commessi clandestini. In varie zone del Paese non è stato fatto e distribuito il pane per mancanza di lavoratori. Alcuni servizi pubblici sono bloccati e non si sa quando potranno riprendere. Un caos che secondo il governo rappresenta il prezzo da pagare per «il futuro dei giovani sauditi».

SUD AFRICA/CONGO
CAPE TOWN
Congo/ ENNESIMA SCONFITTA DELLA POLITICA INTERNAZIONALE POST COLONIALE . Non c’è la firma sugli accordi di pace tra il governo e i ribelli – di Rita Plantera
A un passo dalla china, i giochi si sono arenati ancora una volta e quella che sembrava la porta stretta verso nuovi e risolutivi scenari della crisi congolese, si è rivelata invece la naturale conclusione di un processo di pace mai avviato. La pantomima della firma di un documento d’accordo a cui le delegazioni di Onu, Ue, Usa e Unione Africana, riunite l’11 novembre nella sala del Palazzo presidenziale di Entebbe, in Uganda, non hanno assistito è solo un altro atto di una piece teatrale di cui nessun governo occidentale e africano ha interesse a scrivere l’atto finale.
La sala vuota in attesa dei firmatari che al cospetto di burattinai regionali e occidentali avrebbe dovuto ospitare la cerimonia per la ratifica della disfatta militare dei ribelli rappresenta, non il collasso di sedicenti negoziati di pace, ma l’ennesimo fallimento della politica internazionale post-coloniale nella Repubblica Democratica del Congo, il vuoto della politica che fa da framework alla recente azione militare. Dopo ore di battibecco su un documento in 11 punti già condiviso e siglato nelle passate settimane, i capi dei ribelli M23 (nella foto Reuters) e il capo della delegazione del governo congolese non hanno trovato l’accordo sull’intestazione. Così quello che per i ribelli sarebbe dovuto essere un accordo di pace, per il ministro degli esteri congolese altro non era che una più che vaga dichiarazione. Naturalmente, a scatenare la diatriba non è certo stato un wording invece di un altro, quanto ben altre richieste disattese. Il documento dovrebbe regolamentare il disarmo e la smobilitazione delle truppe ribelli, un eventuale inquadramento di alcuni ranghi nell’esercito governativo e la concessione di un’amnistia. Non è azzardato quindi presumere che la querelle si sia infiammata proprio su quest’ultimo punto. Essendoci, pare, la volontà di concederla per crimini come saccheggi e furti ma non per crimini di guerra, il capo militare degli M23 Sultani Makenga non ne beneficerebbe.
Il 5 novembre scorso un comunicato del leader dei ribelli M23 Bertrand Bisimwa annunciava la fine di una guerriglia durata circa 20 mesi. A contribuire alla resa finale erano state le ultime due settimane di offensiva serrata delle forze governative sostenute dalla brigata di intervento Onu – 3mila soldati – che avevano conquistato le ultime posizioni degli insorti al confine con l’Uganda e il Rwanda. In particolare tra il 25 e il 27 ottobre l’esercito di Kabila, più volte accusato dagli inviati Onu di stupri e violenze contro donne e minori, responsabile di saccheggi e traffico illegale di minerali e mal equipaggiato, riusciva a ottenere la sua prima vittoria contro i ribelli grazie al sostegno dei battaglioni Onu, che per l’occasione contavano sugli elicotteri d’attacco sudafricani Rooivalk. Un anno dopo la debacle di Goma, la capitale del Nord Kivu, che aveva scioccato persino l’Occidente e orientato l’Onu verso una politica più militarmente interventista di fronte al repentino avanzare delle truppe ribelli, furono cruciali la pressione internazionale senza precedenti contro ogni sostegno esterno ai ribelli e la sospensione degli aiuti di alcuni governi forti al Rwanda, accusata dall’Onu di essere con l’Uganda il principale sostenitore degli M23. Oltre a normative emanate dopo che il Congresso Usa ha approvato la legge sulla trasparenza, la Dodd-Frank, che obbliga compagnie petrolifere, multinazionali e produttori manifatturieri a rivelare se i loro prodotti contengono minerali provenienti da zone di conflitto come il Congo.
E il punto è proprio questo. La guerra che da due decenni mette a ferro e fuoco la regione orientale delle Repubblica Democratica del Congo è alimentata dall’interesse condiviso di governi, multinazionali, ribelli e trafficanti per mantenere il controllo delle immense risorse minerarie. Più di due milioni di chilometri quadrati di sottosuolo di lusso che gli è valso l’appellativo di "scandalo geologico": vale a dire più del 70% delle risorse mondiali di coltan, essenziale per le multinazionali della telefonia cellulare e dei portatili, il 30% delle riserve diamantifere del pianeta, oltre a vasti depositi di cobalto, rame, bauxite, uranio. In questa situazione di stallo, l’unico a uscire vincitore per ora è Joseph Kabila, l’attuale presidente congolese, grazie alla resa dei ribelli probabilmente studiata a tavolino e che altro non fa che redistribuire interessi e compiti al grido di "Grazie Kabila" per le strade di Kinshasa.

ASIA & PACIFICO
FILIPPINE
MANILA/HAIYAN – Sempre più morti, danni incalcolabili. A pieno regime la macchina degli aiuti / Continua l’attività di raccolta fondi e aiuti di molte ong e associazioni per aiutare la popolazione filippina, gravemente provata dal tifone Haiyan, che il 7 novembre scorso, viaggiando a 300Km all’ora è approdato sulla terra ferma, lasciando dietro di sé morte e devastazioni di proporzioni epiche. Si stima che i morti si aggirino intorno ai 10 mila, mentre il totale delle persone coinvolte sia di oltre 4 milioni, con 500 mila già costrette a sfollare. Secondo l’Unicef più del 40% sono under 18.
SOS VILLAGGI DEI BAMBINI GESTISCE OTTO VILLAGGI NELLE FILIPPINE, che accolgono 850 bambini e 221 ragazzi, e si occupa di 11 Centri di sviluppo sociale, in cui riesce ad aiutare oltre 6000 persone. A Tacloban, città che forse più di tutte è in ginocchio, anche il Villaggio Sos è stato danneggiato: "Alcune delle case del Villaggio SOS di Tacloban hanno subito gravi danni e i bambini e le loro educatrici sono stati trasferiti negli altri Villaggi SOS presenti nel paese" racconta Oscar Garol, direttore del Villaggio Sos di Tacloban. "Circa 150 persone, per lo più bambini, sono sfuggiti alla forza dell’acqua scappando sui tetti delle case di famiglia. L’area vicina al Villaggio SOS è devastata. C’è fango dappertutto, anche sui cadaveri. A nome dei bambini e delle famiglie ci appelliamo a chiunque nel mondo possa offrire sostegno!", conclude Garol. La risposta efficace data in occasione dello tsunami del 2004 permette all’associazione di sfruttare l’esperienza e la competenza accumulate, e che allora ha permesso di assicurare riparo e cure a centinaia di famiglie. Questa associazione per la raccolta di contributi rimanda ai siti della Croce rossa e Agire (Agenzia italiana per la risposta alle emergenze): www.cri.it e www.agire.it .
La fondazione Avsi ha lanciato in prima persona una raccolta fondi per assicurare alle popolazioni coinvolte beni di prima necessità, sempre più difficili da trovare. La campagna è già partita sui social network e, per mantenere un filo diretto con le Filippine e raccontare i bisogni e le operazioni di risposta all’emergenza, il sito www.avsi.org ospita un blog con informazioni e testimonianze dei volontari presenti sul campo. Avsi ha raggiunto al telefono Suor Margherita, che opera da più di vent’anni nella zona di Calabanga: “Il tifone è arrivato prima del tempo”, ha raccontato, “doveva abbattersi sulle coste della provincia di Summar alle 9 del mattino ed è arrivato alle 4. A quel punto non si è saputo più nulla: le comunicazioni sono state interrotte fino a lunedì, e 41 province sono rimaste totalmente isolate, raggiungibili solo con mezzi della protezione civile. Chi si trova nel luogo colpito fa fatica a procurarsi acqua e cibo. L’odore nelle strade è insopportabile e il blackout delle comunicazioni complica la ricerca degli scomparsi, nonostante un servizio organizzato sui social network dal governo filippino.
Gli estremi per effettuare donazioni sono: bonifico: CREDITO VALTELLINESE – Sede Milano Stelline, Corso Magenta 59, Iban: IT04D0521601614000000005000, c/c intestato AVSI FONDAZIONE – Causale: Emergenza Filippine.
Anche la Caritas italiana già da domenica si è attivata lanciando una raccolta fondi, in stretto collegamento con la Caritas delle Filippine e con l’intera rete internazionale. “La situazione è assolutamente caotica", ha confermato al telefono Fr. Edwin Gariguez, direttore di Caritas Filippine(NASSA) durante una teleconferenza organizzata per fare il punto della situazione. "Si tratta di una catastrofe che ha colpito tutta la parte centrale del Paese, e la situazione peggiore è quella delle piccole isole che si trovano sulla rotta del ciclone, con cui è difficile mettersi in contatto". Ieri alcuni operatori Caritas sono riusciti, faticosamente, a raggiungere Ormoc e Palo. "Attualmente, i bisogni più urgenti sono quelli di cibo, acqua e medicine – continua Fr. Edwin – e nelle parrocchie è già iniziata la distribuzione degli aiuti. Nelle zone colpite la maggior parte delle case sono completamente distrutte e la gente vaga senza meta alla ricerca di un riparo. I cadaveri delle vittime della furia del ciclone sono dappertutto, e si fatica anche soltanto a contarli”. In collaborazione con il CRS della rete Caritas sono già stati distribuiti aiuti, in particolare tende, a 18.000 famiglie sfollate nella zona di Cebu City ed è stato messo a punto un piano di interventi in favore di 100.000 famiglie, 500.000 persone, che prevede alloggi, di emergenza e permanenti, distribuzione di acqua, prodotti per l’igiene, attrezzature per la cucina e generi non alimentari di prima necessità. Inoltre si coinvolgeranno le comunità locali nella pulizia e nella rimozione delle macerie dalle aree colpite.
Per sostenere gli interventi in corso si possono inviare offerte a Caritas Italiana, via Aurelia 796, 00165 Roma, tramite C7C postale n. 347013, specificando nella causale: “Filippine”, oppure si possono fare donazioni online sul sito www.caritas.it .

CAMBOGIA
DONNA UCCISA NEGLI SCONTRI CON FORZE DELL’ORDINE DURANTE PROTESTA OPERAI / E’ rimasta uccisa in Cambogia, oggi, a causa di colpi d’arma da fuoco, una donna, durante gli scontri con le forze dell’ordine. Era in corso una protesta di operai di un’azienda tessile che rifornisce marche importanti occidentali. "Mia madre è stata colpita al petto", ha dichiarato la figlia, Vong Voleak. Ma anche Am Sam Ath, dell’ong Licadho in difesa dei diritti umani, ha poi confermato l’informazione vedendo il cadavere in ospedale. La manifestazione è degenerata quando diverse centinaia di operai hanno scelto di marciare verso la residenza del primo ministro Hun Sen. "Gli operai si sono scontrati con la polizia", ha dichiarato il portavoce delle forze dell’ordine, Kheng Tito, denunciando il lancio di pietre avvenuto da parte dei manifestanti.

AMERICA CENTROMERIDIONALE
ARGENTINA
BUE
Volevano eliminare Mercedes Sosa / La celebre cantante Mercedes Sosa, gli scrittori Ernesto Sábato e Julio Cortazar, l’attrice Norma Aleandro, l’autrice di libri per bambini Maria Elena Walsh, una leggenda del tango come Osvaldo Pugliese. Sono solo alcuni dei nomi contenuti in una vera e propria «lista nera» di artisti e intellettuali che secondo la giunta militare argentina andavano «eliminati». L’elenco è stato rinvenuto durante le operazioni di pulizia di un’ala sotterranea abbandonata della famigerata sede dell’Aeronautica militare a Buenos Aires. Ed è parte di uno stock ben più voluminoso, circa 1.500 file che svelano tra l’altro come la dittatura che insanguinò l’Argentina dal 1976 al 1983 avesse elaborato piani di governo che arrivavano addirittura all’anno 2000. Inoltre I documenti contengono anche istruzioni su come respingere le accuse internazionali sul rapimento degli oppositori e dei loro figli, e sulla loro scomparsa. ll ministro della Difesa argentino Agustin Rossi, nel presentare i documenti ritrovati in una conferenza stampa li ha definiti «di grande valore storico». Durante i 30 anni in cui sono stati custoditi segretamente, le famiglie dei desaparecidos hanno chiesto invano al governo e alla Chiesa locale di aprire i loro archivi. Anche perché delle circa 30 mila persone che si calcola siano state eliminate dalla giunta di Jorge Videla, solo poche centinaia sono state identificate. Nella «lista nera» figurano i nomi di oltre 300 intellettuali e artisti, divisi su quattro livelli di «pericolosità»

VENEZUELA
CARACAS
MADURO AI COMMERCIANTI: BASTA RAPINE AL NOSTRO POPOLO / Daka, Mundo Samira, Jvg, Pablo Electronics, Ivoo, Dorsay… In Venezuela, sulle serrande chiuse di molti grandi magazzini di elettrodomestici, è comparso questo cartello: «Gentili clienti, stiamo aggiustando i prezzi (al ribasso), riapriamo lunedì. Grazie per la vostra comprensione». Le ispezioni del governo hanno infatti riscontrato grosse irregolarità nelle vendite: «Il sovrapprezzo dei prodotti è arrivato al 1.000%, è una rapina ai danni dei consumatori», ha detto il presidente Nicolas Maduro commentando in televisione, domenica, i dati del governo: in una settimana, nei negozi Daka, una lavatrice si poteva pagare al 40% in più, un condizionatore si vendeva a 36.000 bolivar (700 dollari al cambio ufficiale), mentre nei negozi statali si vendeva a 7.000 (113 dollari). «Molti responsabili della rapina ai danni del popolo sono stati arrestati. Impediremo che i dollari della Repubblica bolivariana siano usati a fini speculativi», ha aggiunto Maduro. Il riferimento è a quei commercianti o imprenditori che per importare i prodotti mancanti sul mercato locale scambiano bolivar contro dollari al tasso ufficiale agevolato, previa autorizzazione della Commissione di amministrazione della moneta (Cadivi), l’organismo di protezione della divisa nazionale deputato al controllo dei cambi. Poi, però, gonfiano i prezzi e finanziano titoli da prima pagina sui grandi quotidiani (in mano ai privati, dunque all’opposizione) per accusare il governo di inefficienza: soprattutto prima delle scadenze elettorali. La prossima è quella dell’8 dicembre, si voterà per le comunali. La campagna, accesa come sempre, è in corso. Il leader dell’opposizione, Henrique Capriles, ha perso le presidenziali dello scorso aprile (le prime senza Hugo Chávez, morto di tumore il 5 marzo) con poco margine. E ora vorrebbe trasformare l’appuntamento con le urne in un referendum sulla gestione Maduro. Il presidente – l’ex autista del metro, deciso a proseguire sulla via del «socialismo del XXI secolo» come il suo predecessore – denuncia da mesi la «guerra economica» intentata dai poteri forti con la speculazione e l’accaparramento dei prodotti basici: razziati dagli scaffali delle catene statali e rivenduti a caro prezzo al mercato nero, dove il dollaro vale otto volte di più.
Gli imprenditori sostengono che non ci sono abbastanza divise a disposizione, mentre per il governo quest’anno sono stati distribuiti alle imprese private 33 mila milioni di dollari e a fine 2013 si arriverà a 40 mila milioni: ossia il 30% in più del denaro di cui ha bisogno il paese per far fronte alle proprie necessità. «Dobbiamo anche riformare Cadivi – ha dichiarato l’economista e deputato chavista Jesus Faria – perché il potere economico usa le sue risorse per corrompere il settore statale e con questo meccanismo ottiene maggiori risorse che si trasformano in un maggior potere». Il Venezuela bolivariano è infatti ancora un paese a economia mista – con un certo numerodi imprese a proprietà statale o controllate dai lavoratori – ma in cui il settore privato (abituato al parassitismo e all’evasione fiscale) controlla circa il 60% del Prodotto interno lordo (Pil), riceve finanziamenti dal governo e muove grosse masse di capitali pronti a cercare lidi migliori. In un paese che possiede le più grandi riserve petrolifere del mondo, questo significa lasciare il Venezuela in balìa della sua «maledizione», trascurando la produzione interna e la sovranità economica. «Siamo interessati allo sviluppo del settore privato se genera lavoro, risorse e benessere, ma non se attacca il popolo», ha detto Faria. Il continuo aumento del salario e del potere d’acquisto delle classi popolari, a seguito delle politiche sociali promosse dal governo dopo l’arrivo di Chávez (1999), hanno aumentato i consumi: molto più in fretta di quanto non abbia fatto la produzione nazionale. Per far fronte all’aumento di richiesta di alcuni prodotti, Maduro ha chiesto e ottenuto l’appoggio immediato dei partner del Mercosur, come il Brasile. Ha anche promosso incontri con commercianti e imprenditori per chiedere loro collaborazione. Ma, soprattutto, ha promesso il pugno di ferro contro «quelli che vogliono impedire al nuovo di affermarsi in Venezuela». Per questo, fidando sulla costituzione che lo prevede, ha chiesto al parlamento di autorizzare alcune Ley habilitantes, utilizzate dal suo predecessore per accelerare le misure sociali, e che gli consentirebbero di andare più in fretta contro corruzione e speculazione. Intanto, dopo la diminuzione dei prezzi, è iniziata la corsa all’accaparramento dei prodotti. Se finiranno in fretta, si ricomincerà a gridare contro «la scarsità», magari si scopriranno camion pieni diretti oltrefrontiera al florido mercato colombiano parallelo. «Le spese compulsive – ha affermato Faria – sono determinate dalle campagne di terrore psicologico promosse dai grandi media».

AMERICA SETTENTRIONALE
USA
WASHINGTON
SENATO APPROVA STORICA LEGGE ANTI-DISCRIMINAZIONE GAY SUL LAVORO / Il Senato americano ha approvato una legge che vieterà di discriminare omosessuali, bisessuali e transgender nei luoghi di lavoro con 64 voti a favore e 32 contrari. Il nuovo provvedimento, l’Employment Non-Discrimination Act, rappresenterà la più grande vittoria per i diritti degli omosessuali a Capitol Hill dal 2010. Infatti, proprio nel 2010 il Congresso votò per abrogare il «don’t ask, don’t tell», la politica che vietava a gay e lesbiche nell’esercito di dichiarare apertamente la loro appartenenza sessuale. Adesso la decisione passa alla Camera controllata dai repubblicani, dove molti esponenti del Grand Old Party vorrebbero affossarla.
Il presidente degli Stati Uniti ha definito un "passo storico" il voto del Senato: "E’ una decisione che spinge l’America verso la realizzazione dei nostri ideali di libertà e giustizia. Chiedo alla Camera di votare quel testo e inviarlo alla mia scrivania in modo da trasformarlo in legge". Lo stesso Obama si era già espresso in favore della proposta di legge sul sito americano dell’Huffington Post: "Negli Stati Uniti, chi sei e chi ami non potranno mai essere due elementi per poter licenziare" una persona.
Cosa cambia? La legge federale in vigore proibisce la discriminazione sulla base di sesso, razza e religione, ma non può fermare un datore di lavoro che voglia licenziare o rifiutare di assumere un dipendente perché omosessuale. Con questo provvedimento si vieta alle aziende con più di 15 dipendenti di sfruttare l’orientamento sessuale come la base per prendere decisioni di tipo lavorativo. Insomma, un’altra vittoria in un anno che ne è stato pieno per i movimenti gay. Infatti, già lo scorso giugno la Corte Suprema ha confermato la validità dei matrimoni gay, concedendo benefici legali alle coppie sposate. Mentre appena due giorni fa l’Illinois ha approvato l’adozione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, diventando così il 15esimo stato americano a renderli legali.

NYC
DIRITTI UMANI
Seggio all’Onu per Cina, Russia, Cuba e Arabia Saudita – di Simone Pieranni

Una nuova infornata di Stati va a consolidare la struttura del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (nella foto Reuters). L’assemblea dell’organismo internazionale ha nominato Cina, Russia, Arabia Saudita, Cuba, Francia, Gran Bretagna, Algeria, Marocco, Namibia, Sudafrica, Maldive, Messico, Macedonia e Vietnam come membri per i prossimi tre anni del Consiglio per i diritti dell’uomo (il Sud Sudan e l’Uruguay hanno invece fallito la nomina). L’organismo – che non permette diritti di veto o risoluzioni vincolanti e che ad oggi ha avviato procedure speciali su tredici paesi tra i quali Corea del Nord, Cambogia, Israele e Sudan – sostituisce dal 2006 la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, fondata nel 1946. L’allargamento ha suscitato polemiche da parte delle organizzazioni di attivisti, soprattutto rispetto all’ingresso di Cina, Russia, Arabia Saudita e Cuba. Tutti i paesi che hanno superato il voto dell’Assemblea si sono detti completamente all’altezza della situazione; Cuba ha promesso di permettere una visita – è la prima volta in venticinque anni – di una delegazione della Croce Rossa per controllare lo stato delle carceri, mentre la Cina tramite il suo membro alle Nazioni Uniti, Wang Ming, ha specificato che la Cina «tiene in grande conto i diritti umani e merita la nomina all’interno del Consiglio». Diverso l’avviso degli attivisti di Human Rights Watch, organizzazione non governativa con sede a New York: «con questi paesi all’interno del Consiglio, i difensori dei diritti umani hanno davanti un lavoro molto duro», è stato il commento. L’ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Samantha Power ha commentato – senza nominare apertamente i paesi sospetti – che alcuni dei membri eletti nel Consiglio «commettono significative violazioni dei diritti». Soprattutto rispetto alla nomina cinese ci sono le proteste più importanti, con un gruppo di tibetani che fuori dal palazzo di vetro ha inscenato una dimostrazione delle torture subite dai tibetani ad opera dei cinesi (recentemente la Corte di cassazione spagnola ha riaperto un procedimento per genocidio in Tibet, contro alcuni tra i leader principali cinesi).
Non sono mancate critiche anche alla nomina di Arabia Saudita, finita sotto accusa per aver incarcerato lo scorso mese attivisti senza un giusto processo, oltre all’abuso dei diritti fondamentali per le donne saudite e i lavoratori stranieri e Russia, accusata anche dall’Unione Europea per processi ingiusti, repressione contro attivisti e mancanza di libertà di stampa.
In realtà le nomine includono all’interno del Consiglio alcuni paesi spesso accusati di violazione dei diritti umani, rispondendo a un doppio ordine di potenziali conseguenze: da un lato i paesi che sono tenuti sotto la lente di ingrandimento per quanto riguarda la violazione dei diritti umani e che ora sono all’interno del Consiglio, dovranno dimostrare attraverso passi decisivi la possibilità di essere all’interno di questi meccanismi in modo responsabile. Dall’altro quelli che sono paesi spesso «accusati» di violazioni, possono diventare anche osservatori degli altri Stati che in alcuni casi non si dimostrano meno colpevoli per quanto riguarda la violazione dei diritti basilari dell’uomo.

(articoli da: Huffington Post , Respekt, NYC Time, Time, Guardian, The Irish Times, Das Magazin, Der Spiegel, Folha de Sào Paulo, El National, Espectador, Clarin, Nuovo Paese, Al Jazeera, Africa Review, The Hindu, Bangkok Post, L’Unità, Internazionale, Il Manifesto, Liberazione, Ansa , AGVNoveColonne, ControLaCrisi , Le Point e Le Monde)

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