10913 IMMIGRAZIONE

20131029 14:30:00 guglielmoz

TRA I DIMENTICATI DELLE ARANCE
IL RAPPORTO – C’È LA CRISI, GLI IMMIGRATI LASCIANO L’ITALIA
LA CITTÀ DELL’UTOPIA A scuola di italiano per costruire la cittadinanza
Senza luce, senza acqua, senza riscaldamento: così vivono centinaia di immigrati nella tendopoli di San Ferdinando. Emergency apre un ambulatorio: "Si rischia una epidemia", e che fa lo stato non perseguita il caporalato….

IL RAPPORTO – C’È LA CRISI, GLI IMMIGRATI LASCIANO L’ITALIA
Anche gli immigrati scappano dall’Italia, per colpa della crisi. A sostenerlo è il Rapporto annuale sull’Economia dell’immigrazione 2013 realizzato dalla Fondazione Leone Moressa. Nel 2011 hanno lasciato il Paese 32 mila stranieri, sottraendo alle casse dello Stato 86 milioni di euro. Non solo: i migranti iniziano a trovarsi in competizione con i disoccupati italiani, disposti ad accettare lavori e redditi finora rifiutati. In particolare, nell’ultimo anno si osserva una maggior afflusso di italiani tra gli operai addetti alla pulizia degli edifici, tra il personale non qualificato nelle miniere e nelle cave, tra i conduttori di impianti per la fabbricazione della carta, tra i venditori ambulanti, tra i vasai e soffiatori e tra il personale non qualificato addetto alla cura degli animali. In generale, dal 2008 al 2012 si è assistito in Italia a un aumento del tasso di disoccupazione straniera di 5,6 punti, passando dall’8,1% al 14,1%. Anche il volume delle rimesse si è ridotto, del 7,6% nel 2012.

TRA I DIMENTICATI DELLE ARANCE di Angelo Mastrandrea inviato A Rosarno.
È quasi l’ora che volge il disio e nell’antipurgatorio della baraccopoli di San Ferdinando bisogna affrettarsi. Quando andrà via il sole non si accenderà un lampione e sarà impossibile svolgere qualsiasi attività. Lavarsi, stendere i vestiti ad asciugare, mangiare o, perché no, leggere qualcosa prima di addormentarsi. Nella tendopoli costruita dalla Protezione civile nella zona industriale tra San Ferdinando e Rosarno all’indomani della rivolta del 2010, le condizioni di vita degli immigrati non sono cambiate rispetto a quei giorni, quando l’esplosione di violenza dei baraccati africani fece scoprire a tutta l’Europa il destino che attende chi ce l’ha fatta a superare le sue frontiere senza annegare nel Mediterraneo o essere respinto. Quello di San Ferdinando somiglia a uno dei tanti campi profughi che si possono incrociare ai margini di zone di guerra, uno spicchio di Africa italiana non dissimile da quella vera.
Settanta tende per 430 posti una media di sei persone a tenda che nei periodi di punta, quando il campo arriva a contenere fino a 1.500 persone, triplicano come la cella di un carcere sovraffollato – wc mobili e qualche lampione per rendere la notte meno cupa se solo la corrente elettrica fosse allacciata. I raccoglitori di arance di Rosarno non vogliono cibarsi degli agrumi che maneggiano per dieci ore al giorno, come il piccolo siciliano con la moglie bambina della Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. All’ingresso del campo, davanti alla baracca che funge da ristorante, si gettano sulla brace più sostanziosi pezzi di capra. Quest’ultima penzola, squartata, ai due lati dell’ingresso e chiunque ne ha voglia può staccarne un pezzo e metterlo ad arrostire. Entro nel tugurio, il ventre della capra mi verrebbe da pensare, quando il povero animale è già ridotto di un quarto. Nugoli di mosche provano a prender parte al banchetto.

IL LIBRETTO ROSSO DELLA SANITÀ
Ousmane Thiam viene dal Senegal. Ha lavorato per un decennio in una fabbrica del nord Italia, poi ha conosciuto Emergency e si è dedicato all’impegno sociale, per un paio d’anni nei campi del foggiano e ora qui in Calabria. Ousmane è uno dei mediatori culturali del nuovissimo ambulatorio che l’associazione fondata da Gino Strada ha aperto dal 15 luglio scorso a Polistena, a una ventina di chilometri da qui. È il mio nocchiero in quest’anticamera di purgatorio i cui ospiti sognavano il paradiso occidentale ma confinano pericolosamente con l’inferno, e non è meno impressionato di me dalla faccenda della capra. Non riesce a capacitarsi dell’assenza delle istituzioni. «Se esplode un’epidemia di tubercolosi in questo campo, l’intera città rischia il contagio. Non è intelligente lasciarli così», afferma sconsolato. Dopo la rivolta dell’inverno del 2010, il governo è intervenuto a costruire la tendopoli per far fronte all’emergenza ma, come spesso accade in Italia, spenti i riflettori mediatici è tornato il disinteresse per la sorte dei migranti, le loro condizioni di vita e lo sfruttamento del lavoro, per quel che si agita nel ventre della capra. I lampioni non funzionano ormai da un anno, il campo è senz’acqua corrente, quella che i migranti bevono non è potabile e non c’è neppure un cassonetto per i rifiuti. Ad appena un centinaio di metri, i resti di un altro campo smantellato sono ancora lì, in brutta vista tra la scarsa vegetazione selvatica. Chiedersi perché Emergency ha deciso di aprire proprio da queste parti un ambulatorio potrebbe suonare pleonastico. È evidente che Rosarno è un pezzo di terzo mondo interno dove si riflette, come nello specchio di Caravaggio, un modello di sviluppo globale che condanna alla deriva i Paesi da cui provengono questi migranti: Burkina Faso, Ghana, Niger, più in generale l’Africa subsahariana. Invece, non è scontato chiedere ad Andrea Freda perché Emergency ha deciso di volgere lo sguardo al ventre della capra italiana. Per quale motivo, dopo aver aperto ospedali laddove la sanità è negata – in Afghanistan, in Sudan – ha deciso di impegnare le proprie risorse in un Paese dove questa è assicurata dallo Stato e non ci sarebbe bisogno di un intervento privato. Inoltre, l’Italia non è in guerra e Reggio Calabria non è Kabul. «Il nostro mandato è di dare assistenza non solo alle vittime della guerra, ma anche della povertà», dice il mio interlocutore. E di povertà qui ce n’è molta, estrema tra i migranti e in rapida avanzata pure tra gli italiani. Freda è il coordinatore dell’ambulatorio di Polistena, è un infermiere e viene da Treviso. Ci tiene a premettere che «noi non abbiamo intenzione di entrare in competizione con il pubblico, piuttosto vogliamo collaborare con esso». Il problema, trascrivo dal sito dell’associazione, è che, «nonostante sia un diritto riconosciuto, anche in Italia il diritto alla cura è spesso un diritto disatteso: migranti, stranieri, poveri spesso non hanno accesso alle cure di cui hanno bisogno per scarsa conoscenza dei propri diritti, difficoltà linguistica, incapacità a muoversi all’interno di un sistema sanitario complesso». Vuol dire che gli africani della tendopoli di San Ferdinando, o peggio ancora quelli che sfuggono a ogni censimento e dormono sotto i ponti, i rumeni impiegati nell’edilizia, le prostitute e le badanti dell’est spesso non vanno dal medico semplicemente perché non sanno come fare. Emergency ha portato da queste parti una cultura attiva dell’assistenza: non è il medico che aspetta che il paziente vada a trovarlo, ma è lui che va a cercarlo. «Abbiamo cominciato un paio d’anni fa, girando per le campagne con due polibus. Facevamo assistenza sanitaria di base e orientamento», spiega Freda. Da quest’esperienza è maturata la convinzione che la sanità non fosse poi così garantita anche nel terzo mondo italiano. E così, quando si è presentata l’occasione, sotto forma dell’assegnazione di uno stabile confiscato alla ‘ndrangheta, l’hanno colta subito.

NEL «PALAZZO DEI VERSACE»
L’ambulatorio di Emergency è proprio all’ingresso del paese. È meglio noto come «il palazzo dei Versace», la famiglia un tempo a capo del clan più temibile della zona. Dall’altro lato della strada sopravvive la vecchia insegna che aveva sostituito quella del Bar 2001 con un più kitsch Au petit bijoux . Risistemare la struttura, un palazzetto di quattro piani completamente rimesso a nuovo, imbiancato e con ampie vetrate al pian terreno, è stato come assestare uno schiaffo in pieno volto a quell’incompiuto calabro che costituisce un tratto caratteristico dell’edilizia locale: decine e decine di abitazioni in mattoni, non terminate, con il cemento armato che spunta dal tetto ad annunciare un ulteriore piano. La riappropriazione dell’edificio e l’intitolazione della piazza dirimpetto a Peppino Valarioti, segretario del Pci ucciso la sera stessa in cui aveva vinto le elezioni comunali, nel 1980, sono come un palo conficcato nel cuore malavitoso del rione Catena, considerato un santuario della ‘ndrangheta di Polistena, una delle più antiche e radicate nel tessuto sociale di Calabria – il primo grande processo, che vede alla sbarra oltre un centinaio di malavitosi del paese, risale al 1902. Il 17 settembre del ’91, davanti a questo palazzo che era il quartier generale del clan, da quattro auto scese un commando di sedici killer che aprirono il fuoco contro i fratelli Versace. Se ne salvò solo uno, solo perché si finse morto. Fu l’inizio della fine per la cosca, punita per aver tentato di espandersi troppo verso la costa. Oggi al posto del bar sta per nascere una "casa dei giovani": la sede di Libera con la vendita diretta dei prodotti coltivati nei terreni confiscati alle mafie, un auditorium, un ostello per ospitare turisti e volontari dell’associazione. Al secondo piano, sopra il salone in cui si celebravano i matrimoni dei rampolli della cosca, incontro Angelo Freda e lo staff di Emergency: un medico, una mediatrice culturale arrivata dalla Puglia e due africani. Uno di questi è Ousmane Thiam, che mi accompagnerà nell’antipurgatorio di San Ferdinando. L’ambiente è nuovo e ben curato, alle pareti immagini dagli ospedali di Emergency nel mondo e il testo integrale dell’articolo 11 della Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra». Non è l’unico ambulatorio che l’associazione ha aperto in Italia: dal 2007 ne è attivo uno a Palermo, un altro ha aperto a Marghera e, con gran sorpresa, medici e volontari si sono accorti che a usufruire delle prestazioni non erano solo stranieri, ma in un caso su cinque si trattava di italiani. I medici di Emergency sono presenti, in forme diverse, anche a Sassari e Siracusa, dove assistono i migranti che sbarcano in Sicilia. Nella sala d’attesa di Polistena, invece, ci sono solo immigrati. «È perché al momento forniamo solo assistenza di base, che gli italiani per fortuna hanno garantita. Ma siamo sicuri che quando introdurremo anche la specialistica ne arriveranno molti», dice Freda. Emergency rilascia ai migranti una propria tessera sanitaria, che dalle dimensioni e dal colore somiglia a un «libretto rosso» maoista, e li assiste nelle procedure per avere accesso alle cure specialistiche pubbliche. I mediatori vanno a prenderli dove vivono e li riaccompagnano a casa dopo le visite.

ARANCE INSANGUINATE
Il mezzo di locomozione dei migranti africani è la bicicletta. Man mano che si avvicina il tramonto, l’ora che volge il disio ai navicanti e ‘ntenerisce il core di dantesca memoria, li vedi rientrare con i loro mezzi. Nel campo c’è perfino una piccola ciclofficina con gli attrezzi per l’autoriparazione. Alcuni tornano a piedi, altri ancora sono riportati a casa dai pick up dei caporali. Non è ancora la stagione degli agrumi e non c’è il pienone, ma c’è chi, senza lavoro, non sapendo dove andare ha preferito trascorrere l’estate nel campo. Può apparire paradossale, ma la disoccupazione è in aumento anche tra gli schiavi degli agrumeti. In questi giorni si raccolgono i mandarini verdi che saranno utilizzati per fare saponi e profumi, tra due settimane si comincia con i kiwi, tra un mese comincerà la raccolta degli agrumi ormai maturi e il campo si riempirà degli africani in arrivo dalla Sicilia e dal casertano. La crisi italiana si scarica anche su di loro, che sono l’ultimo anello della filiera produttiva. Le arance di Rosarno finiscono soprattutto alle multinazionali che producono aranciate e succhi, e queste pagano ai proprietari dei terreni non più di otto centesimi a cassa, ben al di sotto del costo di produzione. Il risultato è l’aumento del sommerso: la maggior parte dei migranti lavora AL NERO PER 25 EURO PER DIECI ORE di lavoro al giorno, 5 DEI QUALI VANNO AL CAPORALE. All’indomani della rivolta del 2010, l’associazione Da Sud produsse un dettagliato dossier intitolato "Arance insanguinate", denunciando come gli agrumi di cui la Calabria è il secondo produttore italiano dopo la Sicilia da qui arriva il 31,7% del raccolto di un Paese secondo, in Europa, solo alla Spagna – siano spesso rossi non per il loro colore naturale bensì per il sangue dei lavoratori. I primi immigrati uccisi dalla ‘ndrangheta risalgono al ’92: la notte dell’11 febbraio tre algerini salirono a bordo di un’auto per andare a lavorare in campagna. Furono portati in una zona isolata e massacrati. Solo uno, sia pur ferito, riescì miracolosamente a fuggire. Giuseppe Lavorato, storico sindaco comunista e poi parlamentare, animatore della cosiddetta "primavera rosarnese" degli anni ’90, ha denunciato «l’allontanamento violento di quei corretti commercianti che ad ogni inizio di annata agrumaria arrivavano nelle campagne e compravano gli agrumi a prezzo di mercato, conveniente e remunerativo per gli agricoltori. Con intimidazioni e minacce, la ‘ndrangheta li allontanò per rimanere unica acquirente ed imporre un prezzo sempre più basso al produttore. E nel corso degli anni si è impossessata di tutta la filiera agricola». Lavorato era con Peppino Valarioti la sera dell’agguato e ne raccolse l’ultimo sguardo e il testimone. È l’espressione di quella parte di società che non si assoggetta alla cultura e alle regole mafiose. Come lui don Pino de Masi, referente di Libera e a capo del movimento per la riassegnazione dei beni confiscati, a cominciare dal «palazzo dei Versace» di Polistena. O come i produttori associati a Sos Rosarno, che si sono impegnati ad assumere regolarmente i braccianti. Facendosi pagare gli agrumi cinque centesimi al chilo in più, dimostrano che è possibile produrre in maniera equa, biologica, senza sfruttare i migranti e senza cadere nelle braccia di mafiosi e caporali. Sono un piccolo esempio di come basterebbe poco per far funzionare il mercato in maniera differente. Nel frattempo, nell’antipurgatorio di San Ferdinando ci si prepara al nuovo raccolto. Da dicembre a marzo sarà il solito inferno.

LA CITTÀ DELL’UTOPIA
A scuola di italiano per costruire la cittadinanza – di Roberta Biasillo

Un progetto del Servizio civile internazionale per insegnare la lingua ai migranti
Cambiamo approccio. Raccontare l’esperienza di un corso di italiano per stranieri di cui faccio parte con colleghi, amici, studenti, cooperanti internazionali presso il Casale Garibaldi nel quartiere San Paolo di Roma mi impone un cambio di approccio e delle riflessioni personali. Per introdurre l’argomento spesso e volentieri si parte dal bisogno di rispondere alle esigenze dei migranti di ottenere una certificazione o dalla regolamentazione dei permessi e delle carte di soggiorno o dalla diffusione di scuole simili sul territorio. I dati sono importanti, le direttive legislative pure, ma la questione dell’integrazione linguistica è, dal punto di vista di chi scrive, soprattutto una questione umana. Chi viene per apprendere non è un numero a uso e consumo delle statistiche sull’immigrazione, chi viene per insegnare non è una persona che dedica semplicemente il proprio tempo agli altri, la nostra scuola non eroga alcun servizio assistenziale per conto terzi e per fini di terzi. La conoscenza dell’italiano non è un fine, ma un mezzo. La scuola di italiano è parte di un progetto più ampio del Servizio Civile Internazionale, La Città dell’Utopia , volto alla costruzione di un modello di cittadinanza attiva che proprio quest’anno ha compiuto dieci anni; è un esperimento di educazione e autoapprendimento alla partecipazione e alla discussione comune, un luogo fisico in cui la socialità e la solidarietà diventano pratica. Sentirsi cittadino attivo è l’orizzonte entro cui inscrivere l’insegnamento dell’italiano e verso cui, con percorsi diversi, si dirigono studenti e insegnanti. Cittadinanza e immigrazione sono termini che dialogano tra loro e non si escludono a vicenda se per cittadinanza si intendono i processi di decodificazione e di presa di posizione nei confronti della società di cui si è parte e di cui bisogna sentirsi parte. La lettura della realtà, la presa di posizione nei confronti di ciò che avviene nella realtà, il sentirsi parte di essa sono esigenze di tutti, non solo dei migranti, e questo è il motivo per cui chiunque decida di intraprendere questa esperienza, sia come insegnante sia come discente, deve mettersi in discussione e contribuire alla creazione di uno spazio di condivisione diverso da quelli abituali. La conoscenza della lingua del Paese in cui si vive è uno degli strumenti possibili per l’inserimento ed è uno dei possibili elementi di raccordo tra cittadinanza (intesa sempre a livello pratico e non formale) e immigrazione. Tradurre questo obiettivo nello specifico della pratica didattica richiede tentativi ed elaborazioni comuni, ma soprattutto capacità di ascolto e massima apertura al prossimo. I bisogni dei migranti non sono i nostri bisogni, le culture dei migranti non sono la nostra cultura, i loro interessi non sono i nostri interessi, le loro domande non sono le nostre domande. Riuscire a tenere insieme nelle lezioni necessità e curiosità, soddisfazione dei bisogni e nuovi stimoli è forse la sfida più impegnativa per chi prova da docente a intraprendere questo percorso. Se si ha davanti una classe con persone di tutte le età, di diversa estrazione sociale, con diverso grado di alfabetizzazione, di diversa provenienza non c’è preparazione o titolo professionale che tenga: l’insegnante è una persona tra le persone, semplicemente con un ruolo diverso. Non che non ci sia metodo, anzi, ma mai come in questo tipo di lezioni, gli insegnanti non sono libri e gli studenti non sono vasi vuoti da riempire. Insegnare agli stranieri è un’esperienza estremamente formativa a livello personale e professionale. È il momento in cui si è collettori di umanità, in cui si scopre l’altro simile a sé, in cui si tocca il fenomeno dell’immigrazione trovandoci storie di ogni genere, alcune delle quali straordinariamente vicine alle proprie. Ma è anche l’occasione migliore per interrogarsi sul ruolo dell’insegnante e, anche per spiegare questa affermazione, debbo ricorrere a un aneddoto personale. Ci misi un po’ a capire l’affermazione che Sara, una collega, usò per descrivere il nostro lavoro: «Insegniamo l’italiano per dare forza all’autonomia e all’indipendenza nostra e dei nostri studenti». Di qualsiasi argomento si parla, l’importante è che l’elemento linguistico fornito non sia fine a sé stesso, ma sia uno strumento utile per leggere altro, per riflettere su altro, per capire qualcosa di nuovo sul giornale o in televisione; l’importante è che si finisca la lezione avendo unito l’utile al dilettevole e, perché no, avendo dato un’immagine diversa del Paese che gli stranieri spesso vivono solo come lavoratori. Detto questo, alcuni dati ci sono ed è giusto darli per due motivi: mostrare quanto questi spazi di inclusione siano diffusi e socialmente utili e quanto la visione dell’apprendimento della lingua come dovere semplifichi estremamente un elemento chiave per l’integrazione. Stando ai dati dell’ultimo censimento (Istat 2011) la popolazione straniera residente a Roma è di circa 300 mila unità e rappresenta più del 10% della popolazione; stando a dati diffusi riguardo nell’anno scolastico 2011-2012 dalla Rete Scuolemigranti (riferiti soltanto a alcune realtà della Capitale) gli iscritti ai corsi gratuiti di italiano L2 nelle scuole del volontariato e del privato sociale sono stati 11.146 e quelli iscritti ai corsi gratuiti di italiano L2 nei Centri Territoriali Permanenti sono stati 8.064. Ma a questo appello mancano tantissime altre realtà. Ma perché l’insegnamento dell’italiano L2 è diventata un elemento così rilevante per la vita dei migranti? Il decreto 4 giugno 2010 del ministero dell’Interno ha introdotto l’obbligo per gli stranieri richiedenti il permesso di soggiorno (cioè per quelli soggiornanti a lungo termine nel nostro Paese) di attestare la conoscenza di base della lingua italiana, senza farsi carico di offrire alcun servizio o agevolazione ai migranti, senza mettere in campo una azione chiara al riguardo, ma limitandosi a gestire gli esami delle certificazione attraverso enti già esistenti. Gran parte del "sostegno" linguistico offerto è affidato alla libera scelta dei singoli e al volontariato, il più delle volte adeguatamente qualificato. Alla luce di ciò insegnare italiano diventa una scelta politica che individui e gruppi intraprendono supplendo alle mancanze statali o in opposizione alle normative che disciplinano l’immigrazione e la condizione dello straniero – si ricordi che la legge quadro in vigore è ancora la Bossi-Fini del 2002. Gli immigrati non regolari, i cosiddetti clandestini, sono nascosti solo nelle statistiche e nei censimenti ufficiali, ma frequentano i nostri corsi il cui unico requisito di partecipazione è l’essere umani.

 

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