10890 CREDIBILITÀ DEI PAPPAGALLI

20131015 10:39:00 guglielmoz

CHIUNQUE PUÒ dire o scrivere tutto e il contrario di tutto. In particolare sugli Stati uniti. In meno di sei mesi, questo paese è passato dallo status di fenice risorta (ripresa economica, indipendenza energetica, predominio delle multinazionali dell’informatica, ripresa dell’industria automobilistica) a quello di impero in declino, sminuito dai comportamenti del suo presidente, giudicati velleitari (1).

Oramai le dissertazioni sulla strana debolezza dell’America (2) sono diventate qualcosa come una piccola industria. Nel caso della Siria, il presidente Barack Obama avrebbe screditato il suo paese omettendo di lanciare, secondo i fervidi auspici di Parigi e di alcuni geniali strateghi (si legga qui sotto) una nuova operazione militare contro uno Stato arabo. Il termine prediletto dai pappagalli di turno è «credibilità» (3).

Vediamo allora alcuni fatti. La guerra del Vietnam fu decisa da John Kennedy e da Lyndon Johnson col pretesto di impedire un «effetto domino» a vantaggio dell’Urss e della Cina. Per gli Stati uniti si trattava allora di una questione di credibilità. Che costò la vita a tre milioni di indocinesi. Nel 1979, quattro anni dopo la sconfitta di Washington, Pechino e Hanoi si scontravano militarmente…

Nel 2003 la guerra contro l’Iraq, voluta e imposta da George W. Bush, avrebbe dovuto punire un regime accusato di appartenere, insieme all’Iran e alla Corea del Nord, alleasse del Male». Anche stavolta, per gli Stati uniti era una questione di credibilità. Oggi l’Iraq è distrutto, e il potere insediato a Baghdad dalle truppe americane non era mai stato così vicino a Teheran. «lo non sono contro tutte le guerre, ma mi oppongo a una guerra stupida», spiegava nell’ottobre 2002 un giovane senatore di nome Obama, ostile alla spedizione irachena del suo paese. Eppure, una volta eletto presidente,
ha intensificato un’altra guerra non meno stupida in Afghanistan, prima di essere costretto a battere in ritirata.

Nel caso della Siria, i guerrafondai gli hanno chiesto di andare alla riscossa. Secondo loro avrebbe dovuto violare il diritto internazionale ricorrer co alla forza senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza, esimersi dal consultare il Congresso, e infine, quando la Casa bianca lo avesse sollecitato, ignorare un suo eventuale voto contrario. E lanciarsi in un’operazione militare con l’appoggio di un numero di alleati molto inferiore a quelli della «coalizione dei volonterosi» d George W. Bush. Non solo: si pretendeva che il presidente degli Stati uniti si impegnasse in quest’avventura contro la volontà della maggioranza dei suoi concittadini, alcuni dei quali temevano che in Siria le forze armate americane fungessero da «forza aerea di al Qaeda»(4).

Barack Obama ha esitato; ma a quanto pare, ha finito per concludere che la sua credibilità non avrebbe faticato troppo a sopravvivere al rifiuto di impegnarsi in una nuova «guerra stupida» in Medioriente.

(di SERGE HALIMI Le Monde Diplomatique oct 2013)

(1) In «Les Etats Unis saisis par le polycentn. (Atlas del Monde diplomatique 2013) Benoît Bréville analizza la ripetitività del tema del declino americano.

(2) Dominique Moisi, «L’étrange faiblesse de l’Amérique face à Vladimir Poutine», Les Echos, Parigi, 16 settembre 2013. Nel 2003 Moisi si schierò in favore della guerra in Iraq, per pentirsene un anno dopo.

(3) Cfr. Mathias Reymond, «Conflit en Syrie, les éditocrates s’habillent en kaki», Acrimed, 23 settembre 2013, www.acrimed.org

(4) Come ebbe a dire Dennis Kucinich, ex deputato di sinistra dell’Ohio.

 

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