10837 COSÌ SIAMO ARIVATI ALLA FINE. ALITALIA, TELECOM, ANSLADO, FIAT ecc. La teoria di M. Friedman

20130925 01:54:00 guglielmoz

LA SVENDITA AI FRANCESI E i «patrioti» abbandonarono Alitalia/ ALITALIA 3 Air France 0 Mercato finanziario 16 Economia 82 di Sergio RIZZO.
ITALIA IN VENDITA.
IL MERCATO DECIDE, L’ITALIA RESTA AL PALO,diOsvaldo De Paolini
AIR FRANCE, CONDIZIONI DURE PER LA CONQUISTA DELL’ALITALIA
POSIZIONE PIÙ RIGIDA DEGLI OLANDESI NEL CDA DI IERI A PARIGI

LA SVENDITA AI FRANCESI E i «PATRIOTI» abbandonarono Alitalia.
Alitalia 3 Air France 0 Mercato finanziario 16 Economia 82 di SERGIO RIZZO
Il tricolore dell’Alitalia sarà dunque ammainato, al modico prezzo di cinque miliardi per gli italiani. Le indiscrezioni che circolano da settimane portano a una sola conclusione:
L’AVVENTURA DEI NOSTRI «PATRIOTI», COME IL CAVALIERE DEFINÌ QUEGLI IMPRENDITORI CHE CINQUE ANNI FA SI MISERO AL SERVIZIO DELL’OPERAZIONE DI «SALVATAGGIO» DELLA COMPAGNIA DI BANDIERA DALLE GRINFIE FRANCESI, È AVVIATA AL CAPOLINEA.
L’Alitalia finirebbe all’Air France-Klm per un piatto di lenticchie decisamente più misero di quello che ci avrebbero offerto allora. E a sentire i giornali parigini, dovremmo perfino ringraziare la compagnia franco-olandese di prendersi questa rogna. Per capire che sarebbe andata così, purtroppo, non ci voleva la palla di vetro. La storia dell’Alitalia è costellata d’incredibili errori manageriali, spesso conseguenza delle spregiudicate incursioni d’una politica totalmente disinteressata all’azienda e al Paese. Ma di tutti gli infortuni, l’ultimo è senza alcun dubbio il più clamoroso. Nel 2008 la nostra compagnia di bandiera, reduce dai trattamenti cui abbiamo accennato, era sull’orlo del fallimento. Air France-Klm si offrì di rilevarla pagando lo Stato italiano in azioni, con una quota di minoranza del grande gruppo nel quale sarebbe confluita, per un controvalore di 140 milioni. Avrebbe quindi investito un miliardo di euro nell’azienda, accollandosi pure 1,4 miliardi di debiti. Si sarebbero per giunta evitati il fallimento e la liquidazione, presumibilmente infinita, dell’Alitalia, con costi forse altrettanto infiniti per le pubbliche casse. Il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, dopo aver inutilmente fatto il giro delle sette chiese per trovare qualche imprenditore italiano disposto a rilevare la compagnia, s’era rassegnato alla soluzione francese. Da italiano, senza fare salti di gioia. Confessò di sentirsi «come il guidatore di un’ambulanza che sta correndo per portare il malato nell’unica clinica disposta ad accettarlo». La campagna elettorale però infuriava e a Silvio Berlusconi non sembrò vero che gli venisse consegnata su un piatto d’argento un’arma tanto affilata per la sua offensiva propagandistica contro la sinistra accusata di voler «svendere» l’Alitalia ai francesi. Sappiamo com’è andata: il centrodestra vinse le elezioni, la vendita sfumò, la compagnia fu messa in liquidazione e si diede vita ad un’Alitalia bis guidata da Roberto Colaninno. Berlusconi non poteva venir meno alle promesse fatte prima delle elezioni e impegnò a fondo l’apparato (e il portafoglio) pubblico. Niente debiti, cassa integrazione per ben cinque anni, bonus per le assunzioni, deroghe alla concorrenza… Il disegno però non sarebbe andato a buon fine senza l’appoggio determinante del futuro ministro Corrado Passera, che collocò la sua Banca Intesa-San Paolo in prima fila fra gli azionisti. Alcuni dei quali, perfino concessionari dello Stato. A cinque anni di distanza, ecco l’inevitabile resa dei conti. Magra consolazione per chi fin dall’inizio avvertiva (e temeva) che il conto dell’operazione «patrioti» lo avrebbero pagato gli italiani. Su questo giornale, Antonella Baccaro ha calcolato che il presunto salvataggio dell’Alitalia ci sia già costato 3,2 miliardi. Senza considerare il mancato incasso per la vendita, la liquidazione della vecchia compagnia, i maggiori oneri per gli utenti causati dal monopolio triennale sulla tratta Milano-Roma, gli scioperi del personale… E la bolletta per i contribuenti sarebbe stata ancora più salata se l’amministratore delegato d’Invitalia Domenico Arcuri e l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, non avessero resistito alle pressioni di Palazzo Chigi che voleva far intervenire accanto ai «patrioti» la società pubblica. Ma anche senza quel supplemento, s’è arrivati a una cifra non troppo lontana dai 5 miliardi. Somma ben superiore, va ricordato, al gettito Imu per la prima casa. Noi ce ne ricordiamo. Però vorremmo che se ne ricordassero anche i responsabili di quell’immane spreco. E magari chiedessero scusa, prima di pretendere l’abolizione dell’imposta su tutte le case di residenza e il blocco dell’aumento Iva. Perché ad appesantire il macigno di quelle tasse c’è una pietruzza che hanno messo loro

ITALIA IN VENDITA
Ormai i nodi stanno venendo al pettine. Telecom Italia sta per diventare Telecom Spagna, con il controllo che sta per passare agli spagnoli di Telefonica, mentre nei prossimi giorni Alitalia dovrebbe infine cadere nelle mani di Air France, con qualche anno di ritardo, qualche spesa per il contribuente e qualche manovra di potere per i soliti noti capitalisti italiani. E poco dopo anche Ansaldo, sbriciolata in tre pezzi, rischia di finire sotto controllo estero, come spiegato oggi dal Sole24ore.

Nulla di nuovo, si potrebbe dire. Ed in effetti del declino del capitalismo italiano abbiamo parlato più volte, mentre il governo e la politica in generale si ostina a non fare nulla. La posizione del precedente esecutivo era chiara: è il mercato, bellezza. In parole povere, se stiamo in Europa, se privatizziamo, è chiaro che il controllo delle nostre compagnie possa finire anche in mano straniera. Il mercato, si sa, porta efficienza, quindi se compratori stranieri sono interessati alle nostre aziende non potremmo altro che ricavarne benefici per i nostri consumatori. Questa è la storiella. Senza capo né coda, purtroppo.

Per prima cosa è certo vero che Telecom sia in difficoltà, con un indebitamento altissimo. Peccato che Telefonica non abbia conti migliori, anzi. E questo dovrebbe dar da pensare parecchio, quando parliamo di un settore dove gli investimenti – costosi – sono indispensabili per migliorare la qualità del servizio. Servizi non futili, tanto per capirci. Internet in Italia funziona decisamente peggio che nel resto d’Europa, la banda larga raggiunge solo una minoranza della popolazione, il collegamento fuori città è quello che è. Parliamo di un settore strategico per lo sviluppo industriale e dei servizi – un bene pubblico. Lasciato in mano a privati, per di più stranieri, senza interessi strategici nello sviluppo economico del Paese. Le conseguenze sono facilmente immaginabili.

Non va tanto meglio per le altre aziende coinvolte. Il trasporto aereo, in un mondo globalizzato, è ovviamente strategico, ed è un veicolo per la politica industriale del paese, non proprio una priorità di Air France. Chiaro che non era una priorità neanche per la cordata di capitalisti italiani, che non avevano alcun interesse nel settore, salvo rinsaldare quel pessimo legame politica-imprenditoria fatto di marchette e appalti. Mentre Ansaldo, società leader del settore, verrebbe di fatto scorporata, con conseguenze immaginabili per investimenti e ricerca.

Il problema vero, però, non è tanto il passaggio di queste aziende a concorrenti stranieri, quanto il marcio che permea quasi tutto il grande capitalismo italiano. Telecom, Alitalia e Ansaldo vivono una stagione di grande crisi, senza piani strategici di sviluppo ed investimento. Le privatizzazioni sono state fatte favorendo amici ed amici di amici. Non sono state create vere public company, ma società che venivano controllate attraverso scatole cinesi, quote di minoranza e patti di sindacato. Piccoli o relativamente piccoli esborsi per i nuovi padroni del vapore, in cambio di controllo totale, senza neanche dover ricorrere a delle OPA, senza tutela per i piccoli azionisti. Telecom, per esempio, era un colosso del settore negli anni 90, passata di mano due volte in pochi mesi tra fine dei governi D’Alema-Amato ed inizio del governo Berlusconi, e si è ora ridotta ad una società indebitata senza un capitale sufficiente a confrontarsi con le sfide dei prossimi anni. Ed ora pronta per essere presa, a prezzo di saldo, da Telefonica, nuovamente non attraverso un OPA ma semplicemente controllando la cassaforte del gruppo, Telco.

In Italia pare che non si sia ancora capito come funziona davvero il capitalismo. Anche l’Economist ha scoperto che in tutte le economie emergenti lo Stato, con un chiaro piano di sviluppo, fa la parte del leone. In Francia la direzione politica dell’economia è da sempre una garanzia di difesa del sistema industriale del paese. Nella stessa America, il potere politico non esita a mettere il veto su cessioni di assett strategici ed il governo promuove con forza gli interessi dell’industria a stelle e strisce. In Italia, invece, i capitalisti preferiscono fare i rentiers e il capitalismo di sistema di MedioBanca e IRI si è trasformato nella difesa degli interessi di bottega del singolo, a tutto svantaggio del paese, con l’aiuto di una politica imbelle e collusa. Per ritrovarci, alla fine, con un pugno di mosche.

IL MERCATO DECIDE, L’ITALIA RESTA AL PALO L’analisi

Colpisce la coincidenza che unisce il road show avviato dal premier Enrico Letta nelle principali piazze economiche per presentare le eccellenze italiane – che nonostante la crisi fanno tuttora dell’Italia la seconda potenza manifatturiera d’Europa – e le notizie pro-venienti da Milano dove ieri sera si è compiuto il destino di Telecom Italia con la cessione della maggioranza relativa agli spagnoli di Telefonica nel mentre a poche centinaia di metri, presso le sedi di Lazard Italia e Medio-banca, si valutavano le carte che porteranno, probabilmente nel giro di poche settimane, nelle mani di Air France il controllo di Alitalia.
Sia chiaro, il mercato si muove entro proprie logiche e se gli azionisti di una grande impresa giudicano arrivato il momento di passare la mano, quali che siano le ragioni, se ciò avviene nel rispetto delle regole del mercato non saremo certo noi ad eccepire. Nondimeno, rattrista vedere due realtà portanti dell’architettura del Paese, quali sono Telecom e Alitalia, finire nel portafoglio di entità straniere perché l’Italia non ha saputo esprimere energie e visione sufficienti affinché potessero diventare quei campioni che ancora dieci anni fa sarebbe stato possibile plasmare. In ciò hanno sicuramente non poche responsabilità i cosiddetti «capitani coraggiosi», che invece di esaltare le prerogative industriali delle due aziende, hanno preferito in un caso spogliarne il patrimonio portando il debito oltre l’inverosimile, nell’altro speculare sulla possibilità che un investimento di poche centinaia di milioni potesse produrre di per sé laute plusvalenze senza valutare fino in fondo gli umori volubili di un mercato che si apprestava a vivere la sua tempesta perfetta. Se ciò è vero, è però anche vero che il responsabile primo di questa doppia sconfitta è la politica, che non ha saputo sostenere adeguatamente lo sviluppo di due cespiti fondamentali – come invece è accaduto in molti paesi europei – preferendo scaricare su privati deboli di cassa e di visione la responsabilità del loro fallimento (di Osvaldo De Paolini Il Messaggero 24 09 2013)

AIR FRANCE, CONDIZIONI DURE PER LA CONQUISTA DELL’ALITALIA
► POSIZIONE PIÙ RIGIDA DEGLI OLANDESI NEL CDA DI IERI A PARIGI
LE GARANZIE
ROMA «Dal nostro punto di vista non ci sono preclusioni». Cosi Ieri il ministro Maurizio Lupi sull’ipotesi che Air France-Klm salga al 50% nel capitale di Alitalia. Secondo il ministro, l’importante è che l’Italia non divenga solo luogo si saccheggio: 60 milioni di potenziali viaggiatori e un contesto culturale e turistico unico, sono uh valore che non può essere svilito. Il compito del governo, ha spiegato Lupi, «è perciò di ottenere garanzie su come verrà salvaguardato il ruolo del nostro hub, i livelli produttivi e la prospettiva di un’Italia che continui a svolgere un ruolo nel setto-re aeroportuale».
Una dichiarazione di tono rassicurante, quasi che già esista un dialogo aperto tra Roma e Parigi. La verità è che non solo non c’è alcun canale aperto, ma di fronte al-la dura prospettiva ventilata dalla stampa francese nei giorni scorsi c’è il rischio che le incomprensioni divengano più estese. L’ala dura del cda di Air France, in particola-re la componente Klm (che ieri pare abbia fatto sentire la sua voce durante il cda della compagnia transalpina), ritiene infatti che l’avventura in Alitalia possa continuare solo a patto che la governance finisca nelle mani di Air France, con libertà di determinazione delle rotte e degli organici. Perché ciò si realizzi, la compagnia franco-olandesi’ sta valutando se raddoppiali- la propria partecipazioni- nel capitale Alitalia, fermandosi però prima del 50% per evitare di consolidare il debito della compagnia italiana (quasi 1,1 miliardi tra esposizione bancaria, leasing sugli aerei e anticipi).
Insomma, dopo aver arguta-mente abbandonato la partita nel 200H in risposta all’intransigenza dei sindacati e in seguito alle peggiorate condizioni del mercato -una verità assai diversa da quella raccontata nei cenacoli che invece imputano alla cordata italiana e all’opposizione del governo Berlusconi l’uscita di scena dei francesi -ora Air France si prepara a tornare quale dominus proponendo condizioni capestro. Ciò anche grazie al fatto che, bene attenta a impedire che Alitalia finisse nell’orbita di altri vettori e approfittando di una certa miopia dei soci italiani, riuscì a infilare nel capitale sociale la «zeppa» del 25% che ora impedisce alla compagnia – a causa delle pesanti penali che comporterebbe re-scindere gli accordi commerciali -di imbarcare partner più in sintonia con le sue aspirazioni.
La stessa freddezza manifestata di recente dai vertici di Ethiad è figlia di questo stato di cose: anche un bambino capirebbe che dietro l’improvvisa retromarcia del vettore Emiratino c’è la mano di Parigi che suggerisce pazienza, per cogliere insieme il frutto ormai penzolante a prezzi di liquidazione. Del resto, se per disperazione i soci di Alitalia dovessero abbracciare le proposte estreme di Air France, i soldi che la cordata francese sborserebbe sarebbero davvero pochi. Se i numeri che circolano sono veri – e non dovremo attendere molto per verificarlo visto che il cda di Alitalia si riunirà giovedì 26 per deliberare le misure d’urgenza – Air France spenderebbe infatti non più di 100 milioni di euro per avere il controllo assoluto della compagnia italiana senza doversi sobbarcare un solo euro di debito.
Ora, non v’è dubbio che Alitalia, non sempre gestita al meglio an-che dopo la resurrezione del 2008 e sicuramente sfavorita da un mercato del trasporto aereo che peggio non si poteva, necessiti di una profonda manutenzione, non solo finanziaria. E tuttavia, nemmeno Air France-Klm può rallegrarsi delle sue performance. Se infatti ALITALIA nei cinque anni di gestione privata ha perduto 800 MILIONI A FRONTE DI UN FATTURATO DI CIRCA 14 MILIARDI E UN IMPEGNO FINANZIARIO A 1,2 MILIARDI, NELLO STESSO PERIODO LA COMPAGNIA TRANSALPINA HA REALIZZATO RICAVI PER 107 MILIARDI, INCASSATO PERDITE PER POCO MENO DI 5 MILIARDI e ACCRESCIUTO L’INDEBITA-MENTO LORDO FINO A 11 MILIARDI.
Certo, con quasi 5 miliardi in cassa e una potenza di fuoco di quasi dieci volte superiore un confronto tra Air France e Alitalia ha poco senso. Ma ciò non dà diritto ai francesi di alzare la voce a loro piacimento su organici e rotte. Co-me osserva Lupi, Alitalia non è so-lo una compagnia aerea, al suo attivo c’è un contesto territoriale che può fare la differenza nell’ambito di un trasporto aereo mondiale in cerca di nuovi parametri. E sappia il governo Letta che una volta ceduta, difficilmente tornerà indietro. Il fatto che gli advisor per Air France siano Lazard Italia e Mediobanca, vale a dire due Merchant Bank che vestono gli stessi colori di Alitalia, non è di per sé una garanzia che faranno buona guardia agli interessi generali del Paese.

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