10713 L’EUROPA tedesca

20130708 16:55:00 guglielmoz

Il 22 settembre l’attenzione di tutta Europa sarà concentrata sul responso delle urne tedesche. Sapremo allora cosa è maturato nel popolo della grande Germania, che sta dettando le scelte di fondo all’insieme della Unione, ma non per questo appare meno inquieto e appagato del proprio dominio. Di Paola Giaculli e Roberto Musacchio

Già in questo c’è una delle grandi contraddizioni di questo stranissimo essere che è l’Ue. Da una parte ha proceduto, a ritmo intensissimo nell’ultima fase, alla costruzione di una governance unificata che ha addirittura aspetti tetragoni ben incarnati nell’immagine della Troika, d’altro canto la dimensione e la capacità di coscienza di sé del demos è rimasta sostanzialmente circoscritta ai vecchi confini.
Quando dunque si esprime nelle competizioni elettorali, che sono rimaste formalmente quelle della realtà precedente, gli umori sono quelli che scaturiscono da un vecchio contesto sociale e culturale, ma risultano profondamente alterati dall’irrompere di una dimensione nuova che resta per gran parte alienata ed alienante.
Non è difficile ritrovare questo effetto di spiazzamento già nelle ultime tornate di elezioni che hanno riguardato alcuni dei Paesi dell’Unione.
In Grecia, luogo tragicamente simbolo dell’impatto devastante delle politiche di austerità sugli assetti democratici e sulla vita concreta delle persone, l’irrompere della Troika ha determinato un vero e proprio sommovimento dei rapporti di forza politici, in particolare a sinistra. Il Pasok, storico e dominante partito del socialismo europeo, ha pagato a caro prezzo la sua incapacità di rinunciare a essere parte di quella sorta di equipaggio d’accompagno del pilota automatico in cui si sono trasformati i grandi partiti politici in Europa. E, al contrario, Syriza ha rappresentato forse il primo vero tentativo di rifondare una prospettiva di sinistra dentro il contrasto apertosi con quella che può ben chiamarsi la fase costituente di un’Europa post-democratica.
Hollande, in Francia, ha invece cercato di costruire un argine di difesa nazionale, naturalmente ambiguo e contraddittorio già a partire dal fatto che nella diarchia con Parigi, ha storicamente prevalso prima Bonn e, a Germania riunificata, Berlino. Sta di fatto che ciò che aveva consentito la raccolta dei consensi necessari a vincere le elezioni, riassumibile nella parola d’ordine della rinegoziazione del Fiscal Compact, alla prova del governo reale, e della sostanziale accettazione delle politiche di austerità, si è rapidissimamente trasformato in fattore di calo vertiginoso di consensi, a cui si è cercato di controbattere con una sorta di crociata antitedesca, ancor meno credibile. D’altronde, essendo la Francia uno dei Paesi in cui c’è almeno una discussione pubblica, ha buon gioco chi richiama Hollande alle proprie responsabilità, e anche a quelle “storiche” del socialismo francese, antesignano già nel 1983 con il secondo governo Mitterand, e con il suo ministro delle finanze Delors, delle politiche di liberalizzazione della finanza e di varo dell’austerità.
In Italia poi la parabola della coalizione di centrosinistra è veramente clamorosa. Ha messo al centro della propria carta d’intenti il rispetto degli impegni europei già sottoscritti. Lo ha fatto addirittura sottoscrivere a milioni di persone che votavano per le primarie, pensando magari di costruire una sorta di consenso plebiscitario sostitutivo delle pratiche democratiche che sono state negate nel processo di assunzione di scelte legate alla governance dell’austerità. Ha condotto una campagna elettorale sostanzialmente “filo-tedesca”, con tanto di viaggi in Germania.
Il risultato è stato che ciò che era buono per essere riconosciuti affidabili al governo da parte degli establishment, non lo è stato per nulla dal punto di vista del consenso popolare che è sceso ai minimi storici. Anzi, per la prima volta, non ha funzionato neppure il classico meccanismo del voto utile per il governo su cui si era edificata la seconda repubblica italiana. C’è da dire che un tale smarrimento nella capacità di comprendere lo stato complessivo della “nazione” non ha precedenti nella storia delle sinistre italiane. L’esito finale, e cioè quello delle larghe intese, ci dice però che neanche la constatazione della perdita del consenso può indurre un ripensamento in partiti come il PD su quella che, si veda l’esempio del Pasok, è diventata la loro vera natura: cioè quella di strumenti di gestione della governance.
Addirittura ciò avviene in Italia anche a costo di far saltare quella sorta di vero e proprio tabù costituito dall’alleanza con Berlusconi. Un tabù che è, a ben vedere, assai più fittizio che reale, data la sostanziale condivisione di gran parte delle scelte di questo ventennio, non a caso culminato già nel governo costituente di Monti.
Questo ci porta anche a riflettere sul fatto che l’essere compartecipi dell’edificazione postdemocratica e dell’Europa (neo)liberale ha fatto sì che i principali partiti europei, il popolare, il socialista e il liberale, conoscessero una comune modificazione genetica verso l’essere strumenti funzionalistici della governance assai più che soggetti di partecipazione, di conflitto e di proposizione di idee alternative di società.
Questa constatazione ce ne consegna due altre, connesse. La prima, quella più di fondo, è che così sono mancati precisamente i soggetti fondamentali per la costruzione del demos europeo, e dunque di una vera democrazia dell’Unione. Il ragionamento vale naturalmente anche per altre realtà, come quella sindacale o dei mass media. L’esito è che l’Unione ha proceduto per via intergovernativa e tecnocratica, con un mutamento di fondo del senso della politica, deprivata dei connotati sociali e democratici. Con la conseguenza che la stessa armonizzazione è stata del tutto affidata ai dogmi neoliberali, ampiamente e drammaticamente smentiti dalla realtà, ma non per questo deposti, anche per l’assenza di una prospettiva altra.
La seconda è che, in questo quadro, la dominante della politica è sostanzialmente quella della cooptazione dall’alto verso larghe intese, in realtà sempre più stretta dal punto di vista del consenso sociale, ma ferrea dal punto di vista politico. Tutte le scelte fondamentali di questi decenni, e ora quelle dell’austerità, sono state scelte condivise, nelle sedi nazionali, in quelle intergovernative e anche nel Parlamento Europeo.
Addirittura, su alcune, i socialisti europei possono “vantare” una primazia. Abbiamo detto di Delors e possiamo ricordare il varo, alla fine degli anni 70, da parte del cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt delle politiche di consolidamento del bilancio, a chiusura del ciclo espansivo (1974-1982). Ed è stato il socialdemocratico Schröder (1998-2005) a rompere il vincolo solidale con le riforme dell’Agenda 2010 introducendo precarietà nel lavoro e abbattendo lo stato sociale, così cambiando radicalmente la sostanza del rapporto tra cittadini e stato: la Germania federale ne è uscita profondamente trasformata.
Se la vediamo così, capiamo che il problema non è certo circoscrivibile a Blair e al blairismo, ma è legato a un cambio morfologico, che riguarda anche la composizione organica dei gruppi dirigenti e il loro entrare nelle famose “revolving doors”, le porte girevoli della governance, come dimostra in modo esemplare il caso Schröder, ora presidente del comitato di sorveglianza di North Stream AG, di proprietà Gazprom.
Da qui la constatazione che la tanto decantata democrazia dell’alternanza, quella che doveva dare un assetto di normalità alle democrazie mature e al post-comunismo, in realtà si è trasformata in una mera variante del pensiero unico e della legge di “TINA” (there is no alternative). Per giunta con una iperfetazione degli elementi governistici a danno di quelli della rappresentanza e a totale mistificazione del fatto che le scelte si sono rese sempre più obbligate e trincerate.
E’ in questo quadro che si giunge al voto tedesco del prossimo 22 settembre. Quando si parla di Europa tedesca, bisogna pensare al percorso storico con cui si è arrivati all’attuale Unione. Un percorso che non ha visto le leadership tedesche imporsi con prepotenza sulle altre. Anzi. Il riferimento che abbiamo fatto a Delors, e dunque alla Francia e in particolare al socialismo francese, ricorda quanto entrambi, Francia e socialisti, siano stati determinati nella costruzione di questa Europa, e di questa idea di diarchia e di governance.
Anche nella fase dell’Unione, e della moneta unica, la spinta a dar vita al “calabrone”, cioè l’Euro e cioè quella moneta che, come il calabrone, vola senza averne i requisiti fisici, è stata assai più francese che tedesca, anche se in fatto di unificazione monetaria la Germania di Kohl poteva vantare una certa esperienza. Tutte le commissioni tecniche dicevano quello che poi si impara da un economista come Robert Mundell, e cioè che la zona euro era, ed è, tutt’altro che un’area ottimale per una moneta unica. Ma prevalse l’idea che occorresse controbilanciare l’unificazione tedesca inserendola nell’avanzamento dell’Ue. Questa la motivazione politica ufficiale della forzatura.
Ma poi sarà bene guardare a quegli elementi di destrutturazione del compromesso sociale che sono stati resi possibili dall’edificazione dell’Europa neoliberale, per trovare un’altra, concreta, ragione, di quella forzatura. Cosa utile anche a capire come poi l’insieme delle borghesie si sia ritrovato sotto l’egemonia di quella tedesca e abbia tratto le proprie convenienze anche a fronte di contraddizioni evidenti per i vari capitali.
A questo proposito forse è utile ripercorrere alcune tappe che hanno segnato la storia di questi rapporti partendo dal processo di riunificazione delle due Germanie, da cui prende le mosse l’Unione europea, con il conseguente allargamento a est.
Dà ancora un senso di vertigine ripensare a quegli undici mesi scarsi che separano il crollo del muro di Berlino (9 novembre 1989) all’unificazione a marce forzate avvenuta il 3 ottobre 1990. Il protagonista indiscusso di questa operazione è l’allora cancelliere e patriarca incontrastato del partito conservatore Cdu Helmut Kohl.
Mentre a cavallo tra ’89 e ’90 la Ddr, la Repubblica democratica tedesca, dopo il crollo del regime, cercava di darsi un assetto democratico, convocando le prime elezioni libere per il 18 marzo 1990, e dalle ceneri dal partito di regime (Sed) nasceva il Partito del Socialismo democratico (PDS) per riformare il Paese ripudiando cultura e pratica dello stalinismo, i poteri delle banche e del mercato si organizzavano in proprio. A ovest, il ministero federale delle Finanze di Bonn ipotizza l’unione monetaria con il marco occidentale e l’assunzione della Ddr nell’economia di mercato, mentre la Deutsche Bank si attiva rapidamente presso il vicepresidente della DDR-Staatsbank, la banca di stato della DDR. Questi, già membro del partito di regime, intende privatizzare l’istituto, coinvolgendo una cerchia di collaboratori con promesse di riassunzione nella nuova banca: un accordo sottobanco tra ex quadri di regime ancora stabili ai loro posti di comando dell’economia e la Deutsche Bank. Il gruppo assicurativo Allianz vanta addirittura contatti con la Staatliche Versicherung già a pochi giorni dal crollo del muro.
Anche i maggiori gruppi energetici vogliono assicurarsi in fretta il mercato dell’approvvigionamento e della distribuzione a est. Prima ancora che esistano decisioni politiche o una legislazione in merito, queste società si aggiudicano, con accordi segreti, il monopolio dei rispettivi settori della Ddr, tramite il takeover degli istituti di proprietà del ”popolo”. Nel caso della Deutsche Bank significa entrare in possesso dell’intera rete di filiali e gestire la totalità dei risparmi dei cittadini della Ddr, per Allianz l’insieme delle polizze assicurative gestite dalla Staatliche Versicherung.
Successivamente alle elezioni una legge dell’ultimo governo della Ddr istituirà, secondo le istruzioni del governo federale di Kohl, un ente ad hoc, la Treuhand, incaricata di liquidare l’intero patrimonio della Ddr, svolgendo un’operazione senza precedenti di svendita e privatizzazione di un’intera economia.
Invece, i movimenti per i diritti civili che avevano contribuito alla caduta del muro, sostenevano l’idea di istituire un ente che gestisse in modo democratico e partecipativo il patrimonio della Ddr che, sulla carta, apparteneva al popolo, tra cui le innumerevoli VEB (Volkseigene Betriebe), le imprese di “proprietà del popolo”. Secondo gli ideatori del progetto l’ente doveva fare una stima del patrimonio, per suddividerlo in quote da distribuire in modo equo tra la popolazione. Il coinvolgimento di imprese straniere – preferibilmente non tedesche occidentali per evitare il rischio di colonizzazione – doveva assicurare il capitale necessario a sostenere il progetto per una quota massima del 49%. La quota di maggioranza doveva rimanere in mano al popolo. Questa ambizione partecipativa, venne condivisa anche dal Runder Tisch, il Tavolo rotondo, costituitosi per decidere gli assetti futuri della Germania Est, Costituzione compresa, e fatta propria dal governo Ddr di Hans Modrow, in carica fino alle elezioni del 18 marzo.
Ma con la vittoria elettorale della Cdu cambia tutto: le speranze di costituzione di uno stato socialista democratico, federato, oppure di una riunificazione con la Rft con una nuova Costituzione condivisa, crollano di fronte alla potente macchina che organizza l’annessione, con l’assunzione della costituzione materiale e non, del paese il cui blocco di appartenenza aveva “vinto” sul socialismo reale.
Gorbaciov, in cui in molti a est avevano riposto le speranze, si mostrò impotente o almeno indifferente alle sorti della Germania dell’est, territorio di cui sembrò subito scontata l’integrazione alla sfera di influenza della Nato. Comunque, con la riunificazione, la Germania avrebbe riacquisito piena sovranità e libertà di decidere le proprie alleanze (intesa Kohl-Gorbaciov, 16 luglio 1990), come accade dopo l’accordo con le potenze alleate il 12 settembre 1990. Nelle prime settimane del 1990 Kohl avvia la sua campagna acquisti, una campagna elettorale durata quasi dieci mesi e culminata con le prime elezioni della Germania unita il 2 dicembre 1990, suo trionfo personale. A farne le spese sarà il candidato socialdemocratico Lafontaine, che si era opposto alla riunificazione, cogliendone i rischi economico-sociali, ma non il suo ruolo nella creazione di consenso.
Il marco “forte” per tutti era diventato un potente strumento di propaganda politica. Intanto si era decretata la fine della cooperazione economica dell’est e l’obbligo reciproco di scambi commerciali, e l’Unione sovietica vende le sue forniture petrolifere solo in cambio di dollari. Il marco dell’est diventa carta straccia – si rischia il blocco totale. Il nuovo governo di larghe intese della Ddr a guida democristiana, deve confidare nell’ di Bonn: Kohl ha ormai la situazione in pugno e il suo governo detta le condizioni. Il 20 giugno si decide l’unificazione monetaria con il cambio paritario, che entra in vigore l’1 luglio, che provoca una rivalutazione delle merci dell’est del 400 percento e la rovina per molte imprese esportatrici.
Il primo e ultimo parlamento democraticamente eletto della Ddr sancisce, con l’adesione alla Germania ovest, la dissoluzione del proprio Paese in agosto e il 3 ottobre nasce la nuova Repubblica federale tedesca unita. Lo stato sociale della Ddr ne esce fortemente ridimensionato, come il sistema dell’istruzione, o la struttura di asili nido e scuole materne, sostegno dell’indipendenza economica delle donne, che contrasta il modello della Germania ovest in cui fino agli anni ’70 il marito poteva impedire alla moglie di lavorare – una vergogna cancellata dal governo del socialdemocratico Willy Brandt (1969-1974).
Ma, con il marco unificato, il potere d’acquisto a est, nonostante forti rivalutazioni di salari e stipendi, si riduce fortemente e rimane lontano dai livelli dell’ovest. Le retribuzioni a est sono tuttora mediamente inferiori di un terzo rispetto a ovest. Il “benessere” (consumistico), promesso da Kohl come alternativa al socialismo, appare presto un miraggio per molti, non in ultimo per i 2,5 milioni di disoccupati che le politiche di Treuhand lasciano dietro di sé.
Questo ente pubblico che gestisce il patrimonio della Ddr, con lo scopo di introdurre l’economia di mercato, si rivela una specie di grande magazzino self-service, in cui la ex Ddr è facile terreno di conquista sia per i grandi gruppi che per avventurieri senza scrupoli o imprenditori falliti. Alcuni promettono, sovente senza garanzie, la ristrutturazione di imprese e il mantenimento dei posti di lavoro, e incassano, a questo scopo, generose sovvenzioni dallo stato federale, che paga per disfarsi di un patrimonio: una colonizzazione che lascia dietro di sé spesso un deserto.
Gli alti dirigenti di Treuhand sono, a parte rare eccezioni, ex managers dell’ovest con un passato da “modernizzatori” di aziende in difficoltà, un curriculum quindi adatto all’operazione di svendita della Ddr. Il bilancio al termine delle attività (1994) è pari a circa 10.000 aziende privatizzate (95% a gruppi dell’ovest o stranieri) o chiuse e un indebitamento pari a 256 miliardi di marchi. Nonostante l’eccellenza della produzione ottica, siderurgica e cantieristica,“non c’era niente da salvare”, sostiene Thilo Sarrazin, all’epoca funzionario del ministero delle finanze di Bonn, socialdemocratico rimasto in carica durante l’avvicendamento tra i governi Schmidt (1974-1982) e Kohl (1982-1998).
Sarà Sarrazin, autore tra l’altro nel 2010 di un best-seller che accusa gli “inoperosi” migranti di minare le basi culturali ed economiche del Paese, a curare il progetto di unione monetaria e “l’adattamento del sistema” su incarico dell’allora ministro delle finanze, Theo Waigel (Csu) e del suo sottosegretario Horst Köhler, in seguito alla guida del FMI e poi presidente della Repubblica. Numerosi sono i casi di corruzione e immensa l’ambizione di arricchimento personale da parte degli ex quadri e degli amministratori di regime, cui la controparte a ovest non ha nulla da invidiare.
Si può ricordare in proposito una joint-venture franco-tedesca tra il gruppo petrolifero Elf Aquitaine e quello siderurgico Thyssen, che vede il coinvolgimento personale di Kohl e Mitterand. La posta in gioco è il complesso chimico Leuna e la rete di distributori di benzina Minol. Elf è impresa pubblica e all’epoca era diretta da Loïk Le Floch-Prigent, intimo di Mitterand. In seguito all’affaire si accertarono in Francia le responsabilità dei dirigenti tra cui Le Floch-Prigent, con conseguenti condanne, per arricchimento personale e versamenti illeciti pari a quasi 50 milioni.
Secondo la procura federale tedesca non vi erano prove, come invece si era sospettato da più parti, che quei versamenti fossero finiti in conti segreti nelle casse della Cdu o di alcuni suoi politici. Il pesante sospetto nasceva anche in considerazione del ruolo avuto da Mitterand e Kohl nella partita (con l’impegno di 1,4 miliardi di marchi da parte tedesca), a sottolinearne il valore strategico e simbolico. Anche dell’Ue si disse che fosse stata truffata per centinaia di milioni di marchi in sovvenzioni e l’allora commissario alla concorrenza Van Miert ebbe a occuparsene.
In effetti, il regno di Kohl ha una fine poco onorevole: nel 1999, l’anno successivo alla sua sconfitta contro Schröder, scoppia lo scandalo dei finanziamenti illeciti alla Cdu di cui l’ex cancelliere non ha mai voluto rivelare la provenienza. Fino al ’98 aveva governato incontrastato per sedici anni consecutivi; dal 1990 in poi sull’onda entusiastica della grande promessa di “blühende Landschaften”, “orizzonti floridi per l’est”, e quindi per l’Europa unita.
Ma guardando alla desertificazione sociale ed economica che, nell’immediato, la riunificazione tedesca ha lasciato dietro di sé non sembra costituire una promettente base di partenza per il futuro dell’Unione. Con il mancato coinvolgimento della popolazione dell’est, considerata spesso di serie B e improduttiva, dissesto sociale ed economico la delusione sarà per molti cocente. L’esodo da est a ovest in cerca di lavoro sarà massiccio.
Con il tramonto di Kohl la carriera della “ragazza”, così come Kohl chiama la sua pupilla Angela Merkel, già portavoce dell’unico governo della Ddr del dopo regime e ministra dei governi del patriarca nella Germania unita, diventa inarrestabile. La “ragazza” dell’est dimostra tenacia e non esiterà a commettere il parricidio politico per farsi avanti. In una lettera pubblica, da numero due del partito, marcherà le distanze dalla condotta di Kohl coinvolto nello scandalo dei fondi illeciti, in cui era implicato anche l’attuale ministro delle finanze Schäuble, allora presidente della Cdu.
Di lì a poco Merkel diventa presidente del partito, con un potere che non conosce rivali, ancor meno da cancelliera. Merkel gode di una popolarità in ascesa soprattutto negli ultimi tre anni, con punte del 65 percento nell’indice di gradimento: una cancelliera popolare indipendentemente dall’appartenenza politica.
Da una parte non disdegna di fare concessioni al populismo, dando man forte al pregiudizio secondo cui i paesi europei del sud sarebbero disordinati, indolenti, indisciplinati, e per questo pieni di debiti. La campagna mediatica sulla Grecia è stata tragicamente esemplare. D’altra parte la cancelliera ispira competenza e affidabilità, soprattutto nella gestione della crisi europea, assicura ai concittadini di aver ragione, conferma la convinzione che la Germania è la prima della classe. Lo fa in modo sobrio; la sua è una personalità agli antipodi rispetto al carattere di Kohl o Schröder. Anche Merkel ha una modalità autoritaria, ma non perde mai l’aplomb.
Ha dimostrato di cogliere lo spirito dei tempi, dopo il disastro di Fukushima, tornando sui suoi passi e decretando la fine dell’energia nucleare. Non disdegna l’aspetto sociale e nella Cdu si discute di salario e pensioni minime. Dimostra agio con qualsiasi tipo di platea, sa essere spiritosa e alla mano. Il suo passato di ricercatrice presso prestigiosi enti scientifici della Ddr, e nell’organizzazione ufficiale della gioventù, a dimostrazione di una pacifica convivenza con il regime, non intacca il quadro. Anzi l’avvicina alla maggioranza della popolazione dell’est.
Questa sua popolarità mantiene alto il consenso della Cdu, che nell’ultimo anno ha oscillato tra il 38 e il 41 percento. Merkel non appare turbata dal crollo dei suoi alleati di governo, i liberali della FDP (4-5 percento). Opzioni alternative non mancano. Ad alcuni Verdi non dispiacerebbe l’idea nonostante il loro congresso si sia pronunciato contro questa opzione. D’altra parte a Spd (23-27%) e Verdi (13-15) mancano i numeri. La sinistra della Linke (7-8 percento), rifiutata dai rosso-verdi, rimane esclusa dal novero delle coalizioni. Sembra profilarsi la Große Koalition, l’opzione gradita alla maggioranza dei tedeschi e assolutamente ipotizzabile in base alla condivisione degli orientamenti di fondo tra socialdemocrazia e conservatori .
Questa intesa si conferma nelle scelte fondamentali e di gestione della crisi europea, a partire dalla Große Koalition del 2005-2010. E anzi, fatta eccezione per la Linke, unica opposizione reale in parlamento, le misure di “emergenza” sono state votate da tutti i partiti, quindi anche da Liberali e Verdi: si pensi al salvataggio delle banche (2008) ad opera del ministro socialdemocratico delle finanze Steinbrück, attuale candidato alla cancelleria per la Spd, al pareggio in bilancio (2009) e a tutte le misure per il cosiddetto “salvataggio” dell’euro.
Nonostante Spd e Verdi contestino a Merkel il fatto di generare recessione nei paesi in crisi con le sue politiche di austerità, i rosso-verdi hanno votato immancabilmente qualsiasi misura che comportava, con i memorandum of understanding, l’imposizione di condizioni capestro per i paesi in difficoltà. Piena condivisione anche sul piano delle “riforme strutturali”, del resto parte integrante dell’impianto austerità/disciplina finanziaria.
Quest’anno ricorre il decimo anniversario della cosiddetta Agenda 2010: la Spd celebra. Merkel pure, e fa i complimenti all’ex cancelliere socialdemocratico Schröder, l’artefice delle riforme che le presentò al Bundestag con il suo intervento sul “coraggio di cambiare”, il 14 marzo 2003. “Per fortuna che la Germania” – canta il coro bipartisan – “ha pensato in tempo a riformarsi salvandosi così dalla crisi, per raggiungere il primato che ora vanta in Europa”. Un modello da imitare, quindi, che trova emulazioni in Francia: anche qui è un manager, Louis Gallois, come lo è stato Peter Hartz in Germania (all’epoca direttore del personale presso Volkswagen, poi condannato per corruzione), l’ispiratore del progetto di riforma del mercato del lavoro, diventato “troppo poco competitivo” a causa del costo del lavoro.
Il progetto della commissione guidata da Hartz, inserito nell’impianto dell’ Agenda 2010, un pacchetto di riforme strutturali ispirate alla Strategia di Lisbona dell’Ue (2000) per massima competitività, crescita e occupazione, ha indotto una mutazione antropologica del welfare, stravolto il mercato del lavoro, l’assetto sociale del Paese e il suo rapporto con il lavoro e i diritti. Economisti neoliberali, da una parte e sociologi, sindacalisti e la sinistra politica della Linke sono concordi nell’affermare che si è trattato di un cambiamento epocale. Qualcuno non esita a fare paralleli tra questo impianto, visto come sistema ineluttabile di norme e di controllo sociale, e le istituzioni di segregazione richiamate da Foucault, dove si internavano nel XVII secolo i senza lavoro e i “fannulloni”. Nel mirino è in particolare l’istituto dell’Hartz IV, ultimo provvedimento di una serie di quattro misure varate nel 2003 su mercato del lavoro e sicurezza sociale, entrate definitivamente in vigore nel 2005.
L’Arbeitslosengeld I + II, o sistema di sussidi di disoccupazione in due fasi, ha sostituito il sostegno che un disoccupato poteva percepire fino a 36 mesi, con la possibilità di rifiutare lavori ritenuti non idonei e non corrispondenti alle qualifiche individuali. Chi resta senza lavoro percepisce ora per un anno al massimo (da 50 anni in poi fino a due anni) un sussidio calcolato in base alla busta paga. Alla scadenza percepisce poi un contributo pari a 382 euro (per i singles senza figli), comunemente chiamato Hartz IV (equiparato e accorpato al sussidio sociale del sistema precedente, Sozialhilfe). Questo prevede anche un sostegno per l’alloggio, da scegliersi in base alle norme deliberate dall’Agenzia del Lavoro. Chi possiede un alloggio non è escluso che sia costretto a venderlo per poter usufruire del sussidio. Il deposito bancario consentito è tra 3.100 euro fino a un massimo di 9.750 (150 euro per un ogni anno di vita), l’auto di proprietà non può valere più di 7.500 euro; nel mirino anche valori, eredità e donazioni.
Il Sistema controlla le finanze individuali, la vita privata e lotta contro la supposta “indolenza” con metodi di costrizione e disciplina sociale. L’Hartz IV non è un sussidio sociale, ed è il contrario del reddito di cittadinanza, perché porta all’esclusione. È una condizione di mera sussistenza, un sistema coercitivo e punitivo fondato su un set di regole da rispettare rigorosamente. Tra queste – pena sanzione o cancellazione del sussidio – vi è quella di accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi costo. Le riforme Hartz I-III hanno flessibilizzato al massimo il mercato del lavoro, in particolare i contratti a termine e il lavoro interinale, creato nuove tipologie di lavoro offrendo il presupposto all’Hartz IV: così si può/deve integrare il sussidio, anche per un euro all’ora (in istituzioni pubbliche, non solo per lavori socialmente utili). I mini- o midijobs sono lavori part-time fino a 400 euro (mini) e a 800 (midi) che esentano le imprese dal versamento di contributi: una depenalizzazione del lavoro nero nell’ottica di molti osservatori.
Contrariamente alle annunciate intenzioni degli ispiratori dell’impianto di creare stimoli al lavoro per i disoccupati, si verifica, secondo Dörre, un fenomeno di “mobilità circolare”: l’uscita dalla morsa dell’Hartz IV è temporanea, perché le offerte rimangono, comunque, nella sfera della precarietà. Anche sui senza lavoro della prima fase del sussidio incombe la minaccia dell’Hartz IV, e anche tra questi si registra una maggiore disponibilità ad accettare un lavoro al di sotto delle proprie aspettative e peggio retribuito del precedente. Una pressione che subisce anche chi un lavoro ce l’ha. Il timore del declino, soprattutto nei ceti medi (era questo l’incentivo al lavoro che voleva Schröder?), condiziona il mercato del lavoro e genera dumping salariale.
Secondo l’ultima rilevazione (gennaio 2013) gli usufruitori di Hartz IV sono 4,375 Milioni di cui 1,33 milioni sono lavoratori che percepiscono un sostegno al reddito. Hartz IV è un’ottima soluzione per le imprese che assumono a bassi salari, visto che lo Stato si impegna a integrarli: un fenomeno di dumping salariale a sovvenzionamento pubblico. Solo per i dipendenti di call-centers lo Stato sborsa 36,1 milioni di euro all‘anno. Visto che Hartz IV è un marchio di infamia, per il sospetto che grava sull’individuo di essere responsabile della sua condizione, sono in molti a lavorare per salari infimi, rifiutando di far domanda di integrazione sul reddito. Si tratta di avere pieno accesso alla cittadinanza o di esserne esclusi secondo il principio propagandato da Schröder: “Fördern (promuovere) und Fordern (e esigere)”. Per dirla con Max Weber, “chi, nella propria condotta di vita, non si adegua alle condizioni del successo capitalistico affonda o non emerge”.
Lo stato promuove un regime di competizione tra “deboli” e “forti”, e mette alla prova i concorrenti che devono cimentarsi nel superamento di un’infinità di ostacoli normativi e burocratici, dimostrare di essere “virtuosi” e sopportare l’umiliazione di far rapporto al manager incaricato del loro “caso” (Fallmanager): una specie di tutore del jobcenter situato presso l’agenzia di lavoro, in cui chiunque può muoversi liberamente per procacciarsi manodopera a basso costo, comprese le agenzie interinali che qui possono disporre di uffici, in una commistione fisicamente palpabile tra Stato e impresa privata. La socialdemocrazia ha cambiato il volto dello stato sociale, ha rovesciato i diritti in doveri esigendo dall’individuo, sempre “in debito” di qualcosa, “responsabilità personale” (Eigenverantwortung), nelle parole dello stesso Schröder.
Merkel ha trasferito questo paradigma culturale, prima che economico-sociale, all’Europa, applicando la filosofia dell’uomo indebitato, che costituisce un peso per la comunità, sospetto di non compiere il suo dovere, agli Schuldenländer, i paesi indebitati (Schulden in tedesco significa sia colpe che debiti). Si devono fare “i compiti per casa”, non cessa di ripetere la cancelliera, solo così si diventa competitivi. I paesi indisciplinati, improduttivi, che vivono alle spalle degli altri (secondo la stampa populistica i greci vivono con le pensioni dei tedeschi), vanno riportati all’ordine. Austerità, disciplina, norme, controllo (e quindi competitività) sono i principi base dell’Europa tedesca, così come lo sono per il sistema Hartz che decide su integrazione e esclusione. Il controllo dei bilanci (fiscal compact, meccanismo two-pack), inclusivo del principio sanzionatorio, fa il paio con il controllo sulle finanze dei singoli: una versione de “La vita degli altri” adattata alle esigenze della “nuova” Europa.
Il mondo del lavoro ne esce diviso, ripartito in categorie a dignità sociale differenziata: si va dall’aristocrazia dell’operaio specializzato “garantito” con contratti a tempo indeterminato e premi di produzione, fino ai lavoratori che passano da un contratto breve all’Hartz IV, svolgono due o tre minijobs, senza ferie pagate, né contributi sociali. Sono circa dieci milioni su 36, il totale degli occupati, i lavoratori dipendenti a basso reddito (inferiore a 10 euro lorde/ora). I settori più colpiti sono commercio, servizi, sanità e edilizia, in cui si assiste a inquietanti fenomeni di sfruttamento di lavoratori stranieri (a nero o addirittura non retribuiti, procacciati direttamente da Bulgaria e Romania), che gettano un’ombra pesante sulle condizioni di lavoro nei cantieri della prima economia europea.
13 milioni, di cui cinque svolgono minijobs, lavorano part-time. Il basso tasso di disoccupazione che vanta la Germania è illusorio. Il metodo statistico muta continuamente, e i disoccupati anziani di lunga durata vengono sistematicamente ignorati dal calcolo. Inoltre, afferma il sociologo del lavoro Lars Niggemeyer, non è aumentata l’occupazione ma la sotto-occupazione: infatti, il volume di ore lavorate nel 2011 è lo stesso del 2000 (58 miliardi di ore). Dal 2000 al 2011 si sono eliminati 1,6 milioni posti di lavoro a tempo pieno. Un maggior numero di persone lavora quindi per meno tempo e molti part-time vorrebbero lavorare più ore per incrementare il proprio reddito. Ai tre milioni scarsi di disoccupati delle statistiche ufficiali ne andrebbero aggiunti 2,5/ 3 milioni, secondo un calcolo per cui “mancano” 5,5/6 milioni di posti a tempo pieno. Si è passati, secondo Dörre, dalla società della piena occupazione fordista (fordistische Vollbeschäftigungsgesellschaft) alla società del pieno impiego precario (prekäre Vollerwerbsgesellschaft). Tra bassi salari, contratti esenti da contributi, periodi di disoccupazione, si sono creati i presupposti per l’indebolimento del sistema previdenziale (e l’incentivazione di polizze private con l’Agenda 2010) e un impoverimento generalizzato anche nella terza età. Le riforme introdotte da Schröder indurranno in futuro comunque una riduzione anche per chi ha contratti regolari a tempo indeterminato. La pensione media si aggira, attualmente, con 45 anni di contributi, intorno ai mille euro per gli uomini e ai 600 per le donne (di cui solo ca. il 38 % lavora full-time).
Nel 1998 la Spd aveva sconfitto Kohl sull’onda della rivolta popolare e sindacale contro le politiche restrittive e antisociali del governo liberalconservatore, alcune delle quali erano state arginate dal voto contrario del Bundesrat, camera delle regioni, a maggioranza rosso-verde, non in ultimo per iniziativa di Lafontaine, a capo del Saarland. Quest’ultimo, diventato ministro delle finanze puntava a politiche espansive. Lafontaine corresse la politica di Kohl, prima di dare le dimissioni nel marzo 1999, dopo soli sei mesi, in contrasto con il progetto di politiche neoliberali del cancelliere Schröder, con cui aveva formato la coppia vincente tra “tradizione” e “innovazione”.
Aveva sperato di porre freno alla liberalizzazione dei mercati finanziari, perseguita poi da Schröder come mai nessun governo conservatore aveva osato, a completamento del quadro tra politiche di austerità, riforme antisociali e sgravi per le imprese. Con le dimissioni di Lafontaine (un “nipotino” di Willy Brandt) da ministro e da presidente della Spd, sembra chiudersi definitivamente il ciclo della Spd come partito che interpreta le istanze del mondo del lavoro, e non è un caso che in seguito alle riforme strutturali dell’Agenda 2010 si aprano profonde divisioni nel partito e nel sindacato.
Questa cesura incide profondamente anche nell’assetto politico del Paese provocando la nascita di un partito alla sinistra della socialdemocrazia, la Linke, dalla fusione di Pds, di ex Spd, esponenti di sindacato e di movimento contro le riforme, che avrà come suo primo presidente, insieme a Lothar Bisky, proprio Oskar Lafontaine.
Lo scorso 23 maggio la Spd ha festeggiato 150 anni di vita, ma il bilancio del dopoguerra non è così entusiasmante. La socialdemocrazia deve i suoi maggiori successi in primo luogo al partito dell’emancipazione e dei diritti di Willy Brandt, il grande europeo che con coraggio e tenacia apre una breccia nella cortina di ferro con la sua Ostpolitik, rompendo il gelo della guerra fredda in cui era irretita la Germania ovest con la Cdu di Adenauer, e aggiudicandosi così il premio Nobel per la pace. La seconda vittoria si deve a Schröder che invece tradì le aspettative, provocando una crisi di consensi in cui la Spd è definitivamente sprofondata in seguito alla Groβe Koalition, che tra l’altro ha innalzato l’età pensionabile a 67 anni ad opera del ministro del lavoro Spd Münterfering.
È significativo che, nel suo intervento durante la celebrazione dell’anniversario, sia stato proprio François Hollande a citare tra i segni di progresso che hanno contraddistinto la Spd “le riforme coraggiose per mantenere l’occupazione e anticipare i mutamenti sociali e culturali come ha fatto Gerhard Schröder”, anche se non tutto è trasferibile da un paese all’altro, precisa il presidente francese.
A tre mesi dal voto il clima è di attesa, con alcune incertezze per la messa in discussione dell’unione monetaria da parte di un nuovo partito, l’AfD, Alternativa per la Germania, di ispirazione neoliberale a destra della CDU, da cui sono fuoriusciti i fondatori. Ispirati da un furore estremamente antisociale, con ipotesi di esclusione dal diritto di voto per gli “improduttivi”, cioè chi vive alle spalle dello stato (da un’idea dell’economista F.A. van Hayek), prefigurano il ritorno alle monete nazionali per i paesi dell’Europa del sud, con il mantenimento dell’euro in Germania. Non è per il momento possibile prevedere se l’AfD sarà in grado di condizionare l’assetto politico futuro, anche se lo scetticismo nei confronti dell’Ue e della moneta unica si sta diffondendo sempre più nell’opinione pubblica. Sull’altro versante il dibattito sull’euro si è aperto anche nella Linke, con un intervento di Lafontaine per il ritorno al Sistema monetario europeo, e tra gli economisti vicini alla Spd.
Ma al di là della sorte dell’euro il tema vero è se a implodere sarà, insieme alla moneta o anche con la moneta che invece rimane, questo impasto vischioso che è l’attuale Unione Europea. Una costruzione che, come abbiamo visto nel suo vissuto tedesco, non fa risplendere certo di luce particolare i personaggi storici che l’hanno realizzata; e che, purtroppo, ha reso vischiosi i rapporti sociali e le coscienze di sé delle genti. Niente di quel lavoro di costruzione di un demos sociale, che Étienne Balibar indica come l’unico possibile popolo europeo, è stato fatto. Anzi, si può dire che le classi dirigenti si siano proposte l’esatto contrario, quello di dividere e sporcare. Per questo la vera costituente di un’Europa democratica cui possiamo guardare con qualche speranza avrà bisogno di esondare dall’attuale Unione, disobbedire ai suoi dogmi, costituirsi in nuova Comunità. Ciò che si propongono oggi i nuovi movimenti, e solo loro.

Riferimenti bibliografici:
Dirk Laabs, Der deutsche Goldrausch – die wahre Geschichte der Treuhand, (Una corsa all’oro tedesca – La vera storia della Treuhand), Pantheon 2012
Otto Köhler, Die große Enteignung. Wie die Treuhand eine Volkswirtschaft liquidierte (Il grande esproprio. Come la Treuhand ha liquidato un’economia nazionale), Das Neue Berlin 2011
Hans-Jürgen Urban, Hartz IV: Lohndumping mit System (Dumping salariale pianificato), Blätter für deutsche und internationale Politik, gennaio 2011
Klaus Dörre, Das neue Elend. Zehn Jahre Hartz IV-Reformen, marzo 2013
Lars Niggemeyer, Agenda 2010. Die große Beschäftigungsillusion (Agenda 2010: La grande illusione dell’occupazione), maggio 2013
Maurizio Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato, DeriveApprodi 2012 (edizione originale, La fabrique de l’homme endetté, ed. Amsterdam)

 

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