10699 Il caso dei marò: un’analisi a mente fredda

20130629 18:03:00 guglielmoz

A distanza di 3 mesi dall’incendio provocato da Terzi nel caso dei fucilieri di marina e spento l’eco della retorica patriottarda che si è scatenata, specialmente sulla stampa, poco prima delle dimissioni del Ministro degli Esteri, proviamo a rioccuparci del caso dopo averlo già fatto in passato, premettendo doverosamente che nell’assenza di un accesso pieno ai documenti e alle informazioni è solo possibile avanzare delle ipotesi ragionate in ordine a quanto è effettivamente accaduto nel corso di tutto questo tempo. Tali ipotesi vanno formulate facendo attenzione: a) ai comportamenti e alle dichiarazioni delle parti; b) alle regole in gioco

In Italia ci si concentra molto, soprattutto da parte della stampa, sulle dichiarazioni, tralasciandone molto spesso peraltro il significato più profondo così come molte volte non si tiene conto del significato dei comportamenti (talvolta neanche sotto il profilo simbolico), né si tengono mai presente le regole che comunque devono improntare la vita politica, interna o internazionale che sia, pensando che essa ne sia del tutto svincolata, quando invece non è affatto così.
Tentiamo allora di comprendere qualcosa in più riguardo al caso dei fucilieri di marina, cercando di seguire un metodo in stile domanda e risposta (ancorché ciò sia un poco autoreferenziale, occorre pur sempre ammetterlo, visto che chi scrive pone la domanda e vi risponde).

Domanda n. 1: che cosa è realmente accaduto sul piano fattuale?

Risposta: non è dato saperlo con precisione. Vi è stato, in qualche modo, una sorta di scontro in mare tra una nave italiana, la Enrica Lexie, e una nave indiana. Sebbene ciò sia stato in origine contestato (perché si è sostenuto in principio che i pescatori morti fossero deceduti in occasione di un altro scontro a fuoco), dall’incrocio fra le due imbarcazioni sono morti questi due pescatori; qui naturalmente le versioni divergono, i nostri fucilieri di marina avendo sostenuto all’inizio di aver sparato unicamente dei colpi di avvertimento in aria; più di recente, un’inchiesta del Sole 24 Ore ha riportato una versione diversa, probabilmente proveniente da fonti interne al Ministero della Difesa Marina, per cui i Marò non avrebbero soltanto sparato in aria, anche se la perizia balistica condotta dagli indiani è stata contestata dagli italiani in quanto sembrerebbe che le armi che hanno ucciso i pescatori indiani non sono quelle in dotazione ai marò imputati di omicidio; ciò che appare più probabile è che non esista una versione univoca dei fatti e che nessuno la possa dare da solo; questa dovrà risultare molto probabilmente dall’incrocio in un processo delle versioni di tutti i partecipanti, poiché ognuno è portatore, come è ovvio, di una verità solo parziale. Si tratta, beninteso, di ricordare un’ovvietà, ma quando la pulsione polemica raggiunge livelli parossistici la si dimentica facilmente.

Domanda n. 2: dove sono avvenuti i fatti?

Risposta: un anno fa le versioni delle parti erano divergenti, ora pare che invece si siano più avvicinate, nel senso che l’Italia sosteneva che il fatto fosse avvenuto in acque internazionali mentre l’India sosteneva che il fatto fosse avvenuto nelle sue acque territoriali; adesso le posizioni si sono maggiormente avvicinate in quanto la Corte Suprema indiana ha sostenuto che il fatto risulta essere avvenuto nelle acque internazionali (c.d. alto mare) e non nelle acque territoriali indiane, ecco perché è stato stabilito che i marò vengano giudicati da una corte speciale nazionale indiana e non federale (del Kerala); il che vuol dire, al contrario di quanto sostenuto dai giornalisti italiani, che l’India ha in ogni modo asserito la sua giurisdizione sul caso.

Domanda n. 3: l’Enrica Lexie è entrata nel porto del Kerala perché il Capitano della Nave si è "sbagliato"?

Sostenere che la "responsabilità", nel senso di aver commesso un errore, dell’ingresso in porto dell’Enrica Lexie sia del Capitano della nave è falso sotto diversi profili. Proviamo a vederne alcuni.
Innanzitutto, le modalità operative delle operazioni di difesa dalla pirateria, previste dal Decreto Legge n. 107 del 2011 (Governo Berlusconi e La Russa Ministro della Difesa) sono completamente sbagliate. Di norma, nella lotta alla pirateria o le navi militari vengono inviate nella zona infestata dai pirati per scortare i convogli che vi transitano o gli armatori provvedono alla difesa della propria nave a mezzo di contractor privati. Non si è mai visto invece che militari vengano imbarcati su navi private. Evidentemente, si tratta di una tipica misura "a risparmiare" da parte di tutti e che voleva far contenti gli armatori in cerca di una qualche forma di protezione a titolo gratuito. Il risultato di questo gioco al risparmio si è visto.
Una simile misura crea una serie di problemi applicativi e giuridici non indifferenti, perché su una nave privata, con una sua catena di comando, è imbarcato personale militare che risponde, a sua volta, a una sua catena di comando. Tuttavia, essendo imbarcato su una nave privata, tale personale militare non può imporre la propria visione delle cose al Comandante della Nave. Peraltro, ai sensi del Codice della Navigazione, è il Comandante della Nave il responsabile ultimo della nave ed è lui ad assumere le decisioni necessarie, né in questo campo il Codice della Navigazione è stato modificato dal Decreto Legge n. 107 del 2011. In buona sostanza, il comandante della Enrica Lexie non ha sbagliato né in fatto né in diritto. Perché egli era il responsabile della nave e perché non poteva entrare in contrasto con gli indiani.
Va aggiunto che, molto probabilmente, il Comandante della Enrica Lexie non avrebbe comunque potuto opporsi agli indiani, perché, stando alle cronache dei fatti concernenti il fermo della nave (ci si riferisce ai commenti apparsi nei mesi scorsi sulla sezione Talk del sito internet dello European Journal of International Law, una delle principali riviste europee di diritto internazionale, effettuati da un giurista indiano), questo è stato compiuto dagli indiani attraverso l’uso della coercizione e non attraverso l’inganno. In pratica, sempre stando a queste cronache e commenti degli stessi indiani, le autorità navali del Kerala avrebbero esercitato il c.d. diritto di inseguimento (hot pursuit) nei confronti della nave italiana. Di conseguenza, il Comandante della Enrica Lexie mai avrebbe potuto evitare l’ingresso nel porto del Kerala, perché la sua nave era stata in pratica arrestata dalle Autorità indiane.
Va osservato, per inciso, se le cose stanno effettivamente così, e non si capisce allora perché l’Italia non abbia provato a sollevare questo problema davanti a una corte internazionale (salvo che gli italiani abbiano una versione diversa dei fatti), che l’esercizio del diritto di inseguimento nei confronti dell’Enrica Lexie da parte degli indiani non è stato legittimo dal punto di vista del diritto internazionale, giacché un simile diritto è legittimamente esercitabile nei confronti di una nave straniera, in base alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, allorquando l’inseguimento sia iniziato nelle acque interne, nelle acque arcipelagiche, nel mare territoriale e nella zona contigua dello Stato rivierasco. Peraltro, il fermo di una nave che si trovava nella zona contigua può avvenire soltanto se vi è stata una violazione dei diritti per i quali la zona contigua è stata istituita. Non risulta che la Enrica Lexie si trovasse in alcuna delle zone indicate dalla Convenzione delle Nazioni Unite e, casomai si fosse trovata in ogni caso nella zona contigua (il che è stato smentito dalla stessa Corte Suprema indiana), il fermo indiano non è avvenuto per tutelare i diritti indiani sulla zona contigua, dal momento che tali diritti sono precipuamente di sfruttamento economico e non afferiscono alla gestione della sicurezza marittima.

Domanda n. 4: l’India ha titolo a esercitare la giurisdizione?

Risposta: contrariamente a quanto normalmente si ascolta in giro in Italia, la risposta è purtroppo (per noi) sì; l’India potrebbe aver titolo a esercitare la giurisdizione nei confronti dei marò (altra è la questione dell’immunità su cui si tornerà a breve); ciò perché, secondo un principio di diritto internazionale consuetudinario, fissato dalla Corte Permanente di Giustizia Internazionale nel caso del Battello Lotus, lo Stato rivierasco ha titolo a esercitare la giurisdizione, quand’anche il fatto illecito sia avvenuto in alto mare, allorché questo fatto illecito abbia effetti di ripercussione, appunto, sullo Stato rivierasco medesimo; e questo è, sfortunatamente (per noi e per i marò) il caso, giacché l’uccisione dei due pescatori è un tipico effetto di ripercussione sullo Stato rivierasco; il fatto che l’India abbia titolo a esercitare la giurisdizione non significa, pur tuttavia, che l’Italia non goda di un titolo concorrente all’esercizio della giurisdizione; in virtù della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, infatti, gli illeciti compiuti in alto mare sono puniti dallo Stato della bandiera o, meglio detto, di cui sono cittadini gli autori dell’illecito; come si vede, esiste un doppio titolo di giurisdizione, il che non è infrequente, trattandosi di un diritto di "coordinamento", nel diritto internazionale (ciò che è anche fonte di conflitti tra Stati, quando essi non vogliono coordinarsi per ragioni politiche) e, con ogni evidenza, una corte internazionale avrebbe grossa difficoltà a stabilire a chi appartenga, tra Italia o India, la giurisdizione; si potrebbe sostenere che una norma convenzionale, a titolo di lex specialis, prevale sulla norma di diritto consuetudinario, ma andrebbe anche onestamente ammesso che questa sorta di gerarchia di norme nel diritto internazionale non esiste formalmente; per di più il problema è complicato dal fatto che le due fattispecie sono regolate in modo parzialmente difforme e il caso dei marò presenta elementi di entrambe (la norma convenzionale è molto meno precisa della norma consuetudinaria, sicché quest’ultima presenta quasi paradossalmente un carattere di maggior specialità che la prima, anche grazie al fatto di essere stata elaborata dalla giurisprudenza internazionale).

Domanda n. 5: i marò hanno diritto a vedersi riconosciuta l’immunità dalla giurisdizione?

Risposta: a prima vista, la risposta dovrebbe essere affermativa, ma come si vede da quanto precede la realtà è molto più complicata di quanto potrebbe sembrare; da questo punto di vista è interessante osservare il comportamento dell’Italia: dapprima (ormai un anno fa) l’Italia affermava che la missione svolta dai fucilieri di marina rientrasse nel quadro ONU all’interno delle azioni previste per la lotta alla pirateria, poi piano piano semanticamente l’Italia ha cambiato linguaggio finendo per parlare più genericamente di lotta alla pirateria; ciò vuol dire che, con ogni probabilità, la missione dei marò non può essere giuridicamente inquadrata nell’ambito delle risoluzioni ONU; cerchiamo di spiegare perché:
1) sul piano del diritto internazionale generale, la lotta alla pirateria altro non vuol dire che, essendo la pirateria un crimine internazionale (il primo crimine internazionale dal punto di vista storico giuridico), gli Stati hanno titolo a esercitare la propria giurisdizione contro i pirati, in termini di repressione penale, quand’anche non si tratti di propri cittadini e quand’anche i pirati siano stati catturati in alto mare (si tratta della c.d. giurisdizione universale);
2) il quadro ONU va oltre e prevede una lotta alla pirateria che si concreta principalmente in azioni di contrasto materiale agli abbordaggi compiuti dai pirati contro i convogli marittimi che attraversano l’Oceano Indiano, ciò al fine di garantire la sicurezza dei traffici commerciali (obiettivo peraltro più che legittimo), azioni che si svolgono evidentemente con l’uso della forza militare, impiegata però per difendere appunto i convogli;
3) ci sono due punti che tuttavia mette conto segnalare: a) le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in tema di lotta alla pirateria, come avevamo già segnalato in passato, stabiliscono che le misure armate siano impiegate "al largo delle coste della Somalia"; si può ragionevolmente sostenere che al largo delle coste del Kerala significhi al largo delle coste della Somalia? Vista la distanza tra i due punti, anche solo a occhio, una simile affermazione suona alquanto irrazionale, se non priva di ogni fondamento logico (e di buon senso); basterebbe questo a escludere che la missione dei marò sia avvenuta nel quadro ONU; b) va ulteriormente precisato che le risoluzioni in questione prevedono sì un dispiegamento di forze, ma le risoluzioni che abbiamo letto non stabiliscono che le forze militari siano impiegate internamente ai convogli marittimi civili; saremmo dunque in presenza di una modalità applicativa delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza tale, a prescindere ora dal luogo di commissione dell’illecito, completamente erronea e quindi suscettibile di farla fuoriuscire dall’ordinamento onusiano (in quanto misura armata non autorizzata dal Consiglio di Sicurezza) per ricadere esclusivamente nella responsabilità dello Stato italiano (verrebbe allora da domandarsi: ma perché si è fatto così? E quando si è fatto così si è pensato alle possibili conseguenze?).

Se le cose stanno in questo modo, è chiaro pertanto che alla missione dei marò non è applicabile l’immunità dalla giurisdizione che normalmente si ritiene sussistere per i militari impegnati nelle missioni autorizzate dalle Nazioni Unite; ciò non toglie che per essi sia invocabile l’immunità dalla giurisdizione in base al diritto internazionale generale (ma anche qui potrebbe porsi una domanda a cui preferiamo, almeno per ora, non dar risposta: ma se siamo in presenza di una misura armata non autorizzata dal Consiglio di Sicurezza, non è che per caso l’Italia, agendo in tal modo, ha finito per violare le regole internazionali in materia di uso della forza? Sarebbe possibile sostenere in tal caso che i nostri militari abbiano un titolo internazionale a godere dell’immunità dalla giurisdizione dell’India? Per il momento preferiamo pensare che i nostri militari fossero su quelle navi unicamente per difenderle svolgendo così un’attività comunque lecita e non andare oltre nel porre simili domande); andrebbe, tuttavia, onestamente ammesso che, se l’incidente fosse avvenuto in acque territoriali indiane, i nostri marò non avrebbero con ogni probabilità avuto titolo a vedersi riconosciuta l’immunità dalla giurisdizione, considerato che la missione non è avvenuta nel quadro ONU e l’ingresso nelle acque indiane senza il consenso del governo locale avrebbe senza dubbio violato la sovranità territoriale dell’India.

Domanda n. 6: perché l’Italia non ha avviato un’azione giudiziaria internazionale?

Risposta: siamo in presenza di una domanda a cui invero è molto difficile rispondere. A questa domanda, che nessuno però pone (perché?), potrebbero tutt’al più rispondere con maggior dovizia di particolari l’ex Ministro Terzi e le altre amministrazioni interessate (c’è qualche deputato desideroso di porla sotto forma di interrogazione?); una prima risposta potrebbe essere che non è nella tradizione della diplomazia italiana avviare azioni di questo tipo, dal momento che noi preferiamo risolvere i problemi col negoziato; la scelta del negoziato è più che legittima, ma nel caso dei marò era evidente fin dall’inizio come fosse impossibile negoziare con l’India in presenza di una simile asimmetria di forze; era necessario allora rivolgersi a un organo terzo; ciò non si è fatto, cioè non ci si è rivolti all’ONU, al Consiglio di Sicurezza (a norma del Capitolo VI dello Statuto delle Nazioni Unite) o alla Corte Internazionale di Giustizia, molto probabilmente perché si aveva il timore che, sollevando il caso, sarebbero venuti a galla tutti i problemi che si sono citati ora nella risposta alla domanda n. 5, il che avrebbe significato un’assunzione di responsabilità da parte dei ministri e delle amministrazioni interessate, ciò che, di certo, tali enti e persone non vogliono fare; è vero, rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia, alla luce della formula di accettazione della competenza della Corte da parte dell’India (l’India infatti non accetta la competenza della Corte a giudicare quando la controversia riguardi una convenzione multilaterale e non tutti gli stati contraenti siano parte anche della controversia; l’India, dunque, avrebbe potuto sostenere che, essendo in gioco la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, la Corte sarebbe stata competente soltanto se anche tutti gli Stati membri della convenzione fossero stati parte della controversia; il che è peraltro impossibile perché in questo caso gli Stati in questione sono più di 100), non sarebbe stato semplice, ma delimitando il contenzioso al solo punto dell’immunità, e perciò alla sola violazione indiana del diritto internazionale generale, avremmo potuto provarci; che però il punto dolente non sia la dichiarazione indiana di accettazione della competenza della Corte Internazionale di Giustizia è lasciato intendere dalla dichiarazione con cui l’Italia ha annunciato il mancato rientro dei marò in India; in essa, difatti, si fa specifico riferimento al fatto che l’Italia ha richiesto all’India, senza aver ottenuto risposta, l’istituzione in proposito di un tribunale arbitrale e non ha richiesto all’India di deferire congiuntamente la questione alla Corte Internazionale di Giustizia (Italia e India potrebbero d’altro canto sempre siglare un accordo ad hoc per deferire il caso alla Corte dell’Aja); la differenza non è soltanto semantica ma è procedurale, per così dire, e finisce per essere sostanziale perché nella procedura arbitrale gli Stati scelgono tutti i giudici e, soprattutto, possono stabilire di tenere la procedura a livello confidenziale, mentre nella procedura davanti alla Corte dell’Aja i giudici non possono essere scelti dagli Stati (salvo i giudici ad hoc, quando nella Corte non siedano giudici della nazionalità degli Stati in controversia) e gli atti presentati dalle parti sono, prima o poi, soggetti a disclosure, ovverosia devono obbligatoriamente essere resi pubblici; è evidente, allora, che l’Italia voleva evitare, col riferimento principale all’arbitrato, che gli atti di causa siano resi di pubblico dominio, così da evitare forme di controllo pubblico sugli atti delle amministrazioni interessate (l’Italia d’altronde non è nuova a simili comportamenti, poiché nel caso Germania contro Italia, volendo nascondere di tirare a perdere, ha cercato di ritardare il più possibile la pubblicazione dei propri atti difensivi sul sito della Corte).

Domanda n. 7: l’India ha violato il diritto internazionale "sequestrando" il nostro Ambasciatore?

Risposta: qui, ad avviso di chi scrive, siamo in presenza di una vera e propria sciocchezza, purtroppo sostenuta persino da giuristi ritenuti autorevoli (il che la dice lunga sullo stato di degrado in cui versa l’insegnamento universitario in Italia); in primo luogo, perché il nostro Ambasciatore non è stato sottoposto a nessuna limitazione fattuale della propria libertà di movimento; a quanto risulta, gli è stata semplicemente notificata la necessità di comunicare il proprio espatrio alle Autorità di emigrazione del paese di residenza; certo, non è una procedura definibile amichevole; ma non siamo in presenza di un illecito; qualunque diplomatico in funzione per uscire dal paese di accreditamento (talvolta anche per muoversi al suo interno) è sottoposto sempre a un certo quid di misure burocratiche; nel caso specifico, la questione non è certamente migratoria ma è altrettanto vero che per aversi illecito occorrono almeno due elementi: a) la c.d. mens rea, ovvero l’intenzione di commettere un illecito (e questo elemento può dirsi presente nel caso che ci interessa); b) un fatto, omissivo o commissivo, in contrasto con norme internazionali; ebbene, qui non è avvenuto alcun fatto, giacché al nostro Ambasciatore non è stato impedito di uscire dall’India: egli ha provato a uscire dall’India e gli è stato impedito? Ciò non risulta. Solo in quel caso avremmo potuto definire il comportamento indiano un atto illecito internazionale; d’altronde non esistono gli illeciti preventivi o potenziali; un illecito è tale solo se è stato effettivamente compiuto; vi è stato chi (gli illustri giuristi) ha sostenuto che si applicherebbe al caso specifico la giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia nel caso del personale diplomatico detenuto a Teheran; senz’altro tale giurisprudenza si applica sempre nel corso dello svolgimento delle attività diplomatiche, ma ciò che gli illustri giuristi (del principe?) hanno appunto dimenticato di sottolineare è che essa fu emanata in presenza di uno stato effettivo di detenzione dei diplomatici statunitensi in Iran, mentre altrettanto non poteva dirsi per i nostri diplomatici in India; in quest’ottica, peraltro, particolarmente triste è stato il comportamento del Ministero degli Esteri che, ben sapendo come stanno le cose, non ha emesso alcuna nota ufficiale al riguardo, preferendo che a parlare e a spararla grossa fosse il SNDMAE, noto "sindacato" giallo all’interno della Farnesina che persegue principalmente gli interessi della categoria dei diplomatici che rappresenta (domanda retorica: ma è normale che una categoria di dirigenti pubblici, oltretutto non "privatizzata", sia rappresentata in questo modo?); anche in ciò assistiamo a una confusione di ruoli tra Amministrazione pubblica e associazione privata rappresentativa dei dirigenti pubblici, per cui alla fine comunque quest’ultima parlerebbe, sia pure non ufficialmente, per la prima; anche qui una domanda retorica: ma gli indiani avranno capito chi e a che titolo parlava? Comunque, all’Ambasciatore Mancini è andata anche bene, dato che ha avuto persino la solidarietà dei colleghi! Del diplomatico Ludovico Serra, che fu materialmente arrestato per due giorni nel 2006 in Eritrea dal regime di Afeworki, nonostante godesse di immunità diplomatica, si sarà ricordato solo il Ministero degli Esteri…

Ultima domanda: il mancato rientro dei Marò in India sarebbe stato un atto costituzionalmente legittimo?

Risposta: nessuno si è degnato di notare, tantomeno la stampa (ci mancherebbe beninteso che la stampa in Italia faccia questo tipo di domande, essendo ben più importante sapere cosa pensa Beppe Grillo di Pier Luigi Bersani o di Berlusconi), che l’atto governativo concernente il mancato rientro dei marò in India, al termine del periodo di permesso goduto per motivi elettorali (ma alla Corte Suprema è stato per caso anche detto che i militari italiani in servizio all’estero possono votare per corrispondenza in qualità di temporanei? E poi ci lamentiamo che il nostro Ambasciatore sia stato accusato di oltraggio a una Corte…) presenta dei seri problemi di rilevanza costituzionale; innanzitutto perché inizialmente si trattava di una decisione adottata da un Governo dimissionario, legittimato a gestire solamente l’ordinaria amministrazione; certo, si potrebbe sostenere che la situazione stava diventando talmente grave e urgente che era giunto il momento di far rientrare i marò in Italia in qualunque modo; potrebbe anche darsi, ma dal comunicato della Farnesina ciò non si evince pienamente, in altre parole non si comprende quale fosse il motivo di gravità assoluta che imponesse una simile soluzione, in origine annunciata da Terzi; d’altronde, che tale motivo di gravità assoluta non ci fosse si deduce dalle conseguenze dell’atto compiuto, che ha finito per ingenerare una crisi internazionale di portata persino superiore a quella iniziale e tale da richiedere l’intervento "pacificatore" persino del Segretario Generale delle Nazioni Unite; forse se ci si fosse attenuti all’ordinaria amministrazione non si sarebbe ingenerata una crisi di così vaste dimensioni come quella del marzo scorso, considerata oltretutto la politica accomodante seguita dagli indiani in materia di permessi ai marò; in secondo luogo, non risulta dai comunicati emessi l’intervento del Presidente della Repubblica nella procedura che ha condotto a una simile decisione; qui sorge spontanea una domanda: ma il Presidente della Repubblica non ha un ruolo da giocare in simili occasioni nella sua qualità costituzionale di Capo delle Forze Armate? Quindi, tertium non datur e delle due l’una: o il Presidente della Repubblica è intervenuto nella procedura ma si è voluto coprirlo (ma la cosa resterebbe comunque grave alla luce degli effetti catastrofici della decisione assunta) oppure egli è stato ignorato, violando così i criteri previsti dalla Costituzione relativi alla gestione delle Forze Armate, senza poi che egli reagisse, determinandosi così l’insorgere di una specie di abnormità costituzionale, passata inosservata (non a caso) grazie alla crisi politica in corso, abnormità che tuttavia peserà in futuro, a titolo di precedente, sulla qualità della nostra democrazia in un avvitamento verso il basso e verso il peggio senza fine.
Tra l’altro, sconcertante è stato l’intervento del Comitato per la Sicurezza composto da vari Ministri. Che un simile Comitato effettui valutazioni intorno a problemi di sicurezza nazionale e prenda le decisioni del caso, ma quelle consentite dalla legge, non è affatto posto in contestazione da chi scrive, ma che, sulla base di simili valutazioni, si concordi coi fucilieri di Marina, imputati in un processo penale che potrebbe condurre alla loro detenzione, la linea da seguire è invece completamente assurdo. Basti rammentare che l’art. 24 della Costituzione considera inviolabile il diritto di difesa. Ciò significa che il Governo avrebbe dovuto astenersi completamente dall’interferire nelle scelte difensive dei due fucilieri di Marina, non possedendo alcun titolo giuridico per indicare ai marò se rientrare in India o meno o quale linea difensiva assumere. Peraltro, il corto circuito ingeneratosi e che ha portato alla crisi a cui abbiamo assistito è dovuto al fatto che l’Italia ha assunto su di sé, e in ciò sbagliando completamente, ogni onere relativo alla difesa di questi due soggetti e tutto ciò, in spregio alla logica e al diritto, unicamente per mostrare ai media e all’opinione pubblica che i fucilieri non venivano abbandonati. Il sostegno economico ai marò, il pagamento delle loro spese legali e così via non desta alcuna perplessità. Ma un governo non può intervenire su materie simili, quando è in gioco la libertà personale di due individui. In altri termini, il contenzioso penale riguardante i due marò avrebbe dovuto essere distinto da quello internazionale tra Italia e India.

Conclusioni

Con la grazia concessa ai funzionari americani nel caso del sequestro dell’Imam Abu Omar, il Presidente della Repubblica, Napolitano, ha lasciato intravedere quale linea potrà essere perseguita dall’Italia per garantire il rientro in Italia dei Marò. Ovverosia, farli processare, auspicabilmente il più rapidamente possibile, in India per poi ottenere la concessione della grazia (o in alternativa il loro trasferimento in Italia per l’espiazione da noi della pena). Una simile conclusione, in verità, non andrebbe male neanche ai Marò, giacché una volta rientrati in Italia, grazie al ne bis in idem, la magistratura italiana non potrebbe più perseguirli per i reati eventualmente commessi nel corso del proprio servizio antipirateria.
Ciò non toglie, nondimeno, che i responsabili politici e le amministrazioni interessate abbiano finora dato pessima prova di sé nella gestione di una simile crisi. Indubitabilmente si tratta di un caso che presenta profili di estrema complessità. Ma proprio per questo esso avrebbe dovuto esser gestito con calma, approfondimento, studio e con un coordinamento complessivo migliore tra amministrazioni, cercando di evitare il condizionamento che i media in maniera controproducente fanno sentire in tali circostanze, vale a dire quindi in una maniera completamente differente dal nostro modo tipico di agire.
Il risultato di una simile débâcle è stato, in definitiva, la dimostrazione di un’impotenza complessiva. Rammentiamo che il senso di impotenza, affiancato al nazionalismo, rappresenta uno degli elementi prodromici, sul piano psico-sociale, del fascismo. Bisogna sperare di aver assistito esclusivamente a un caso unico di espressione di frustrazione e che la situazione ritorni alla normalità, senza altre espressioni di isteria. Altrimenti il futuro per il nostro Paese, se questa dovesse piuttosto essere la regola, si annuncia particolarmente disgraziato. di Karl G

 

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