10696 NOTIZIE dall’ITALIA e dal MONDO 28 giugno

20130628 15:20:00 guglielmoz

[b]EUROPA.[/b] Benvenuti in Europa Dal 1 luglio, con l’ingresso Croazia, l’Unione Europa a 28 stati
[b]ITALIA.[/b]
VATICANO. Bergoglio nomina una commissione per raccogliere informazioni sullo Ior
[b]AFRICA & MEDIO ORIENTE.[/b] Cape Town. Davanti al cancello dell’ospedale Mandela, la sua gente non lo «lascia andare»
[b]ASIA & PACIFICO.[/b] Australia Rudd caccia Gillard
[b]AMERICA CENTROMERIDIONALE.[/b] Brasile. L’11 luglio al via lo sciopero generale
[b]AMERICA SETTENTRIONALE.[/b]Washington – la corte apre ai matrimoni gay.

[b]EUROPA[/b]

[b]GERMANIA[/b]
BERLINO – Intercettazioni /IL CASO TEMPORA INVADE LA STAMPA / Tedeschi spiati dall’Inghilterra, la Germania alza la voce di Jacopo Rosatelli
Le prime rivelazioni sono state del Guardian, lo scorso venerdì. Il prestigioso quotidiano britannico riferiva in esclusiva che il Gchq (Government Communications Head Quarter), ossia il servizio di spionaggio del governo di Sua Maestà, aveva realizzato dall’autunno 2011 una gigantesca operazione di ascolto e raccolta di dati telefonici e internet. Di dimensioni persino maggiori del Prism svelato da Edward Snowden. Nome in codice: Tempora. Anche in questo caso, la fonte della notizia era l’ex consulente della Cia, a conoscenza del piano poiché in Tempora è coinvolta – come partner e «utilizzatore finale» – l’Agenzia per la sicurezza nazionale Usa (Nsa).
Dopo qualche giorno di relativa sordina, ieri la notizia è stata rilanciata con grande evidenza in prima pagina dalla Süddeutsche Zeitung, il giornale tedesco a maggiore diffusione (dopo la scandalistica Bild). Il motivo: sono soprattutto comunicazioni verso e dalla Germania a essere state intercettate dai funzionari del Regno Unito, con l’indispensabile complicità di grandi compagnie come Vodafone e British Telecom. Grazie a sofisticati metodi, il Gchq è riuscito a mettere sotto controllo la cabina da cui parte uno dei principali sistemi di cavi di comunicazione transatlantica (Tat-14), situata nella cittadina tedesca di Norden, affacciata sul Mare del Nord, quasi al confine con l’Olanda.
La Germania ha dunque scoperto di essere stata vittima di uno spionaggio senza precedenti, e per di più da parte di un Paese amico e membro dell’Unione europea. Reazioni preoccupate si erano già sentite all’indomani del servizio del Guardian, quando ancora non era del tutto chiaro in che misura la faccenda riguardasse proprio la Repubblica federale tedesca: la ministra della giustizia, la liberale Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, aveva chiesto chiarimenti al governo britannico in sede di Ue. Anche il suo compagno di partito e vicecancelliere Philipp Rösler aveva qualificato come «inaccettabile» l’operazione delle spie britanniche. Ma erano ancora dichiarazioni temperate, sempre precedute dal protocollare «se tali notizie venissero confermate».
Da ieri, invece, si avverte che i toni si stanno inasprendo. La ministra Leutheusser-Schnarrenberger, ha scritto una lettera di fuoco al suo omologo di Londra – riferisce lo Spiegel online – segnalando la grande preoccupazione dell’esecutivo di Berlino. I liberali, soci nel governo della Cdu di Angela Merkel, sanno che in gioco ci sono, oltre ai diritti dei singoli cittadini, anche gli interessi delle imprese tedesche minacciate dallo spionaggio industriale: l’intero core-businnes del partito, insomma. Un altro liberale come il ministro della giustizia del Land dell’Assia paventa la possibilità di un ricorso alla Corte di giustizia della Ue per violazione del diritto comunitario.
Anche i democristiani non lesinano critiche, ma con dei distinguo. Mentre Wolfgang Bosbach, presidente della commissione affari interni del Bundestag (la Camera bassa), ha riconosciuto che ci si trova di fronte ad uno spionaggio illegale, il responsabile per le questioni della sicurezza del gruppo parlamentare, Hans-Peter Uhl, ritiene che «non ci sia nulla di sbagliato» nell’azione del servizio segreto britannico. La Cancelliera Merkel, per ora, tace. Si fa sentire, invece, il garante della privacy Peter Schaar: in un articolo pubblicato ieri sullo Spiegel online chiede un’azione a livello internazionale contro «la sorveglianza sfrenata».
Toni molto duri a sinistra. I Verdi, che hanno presentato un’interrogazione parlamentare urgente, definiscono il comportamento dei servizi inglesi e americani «uno scandalo di dimensioni inaudite». E il co-segretario della Linke, Bernd Riexinger, chiede un vertice straordinario della Ue per affrontare la questione: «I britannici devono chiarire di fronte ai loro partner su quali basi spiano altri cittadini dell’Ue».

[b]FRANCIA[/b]
PARIGI – Alle suppletive ennesima sconfitta di Hollande di Anna Maria Merlo / Scandali di corruzione che hanno coinvolto sinistra e destra, disoccupazione crescente e diffusione del sentimento dell’impotenza della politica, banalizzazione delle idee di estrema destra. Da questo cocktail esplosivo è nato il risultato della legislativa suppletiva di domenica nella terza circoscrizione del Lotet-Garonne, regione tradizionalmente di sinistra, dove l’ex ministro del bilancio Jérôme Cahuzac, travolto dallo scandalo del conto nascosto in Svizzera e a Singapore, era stato eletto al primo turno nel 2008 con il 60% dei suffragi: al ballottaggio tra un candidato dell’Ump e uno – giovanissimo – del Fronte nazionale, ha certo vinto il neo-gollista Jean-Louis Costes, ma solo con il 53,7% dei voti, malgrado l’appello del Ps al «fronte repubblicano» per bloccare l’estrema destra, mentre il frontista Etienne Bousquet-Cassagne, 23 anni (46,2%), tra i due turni ha aumentato il risultato di 7mila voti (venti punti in più). Tra i due turni è anche diminuita l’astensione (ha votato il 52% contro il 45% il 16 giugno): la maggior partecipazione al voto dimostra sia che c’è stata una mobilitazione anti-Fronte nazionale, ma anche che l’estrema destra ha delle riserve di voti in caso di ballottaggio.
Il Fronte nazionale parla di «sconfitta elettorale ma vittoria ideologica». La sinistra è in grande imbarazzo. A poco più di un anno dall’elezione di Hollande all’Eliseo, quella del Lot-et-Garonne è l’ottava sconfitta consecutiva del Ps (e della sinistra) a un’elezione parziale. Il Ps al potere perde pezzi, ma non è il Front de Gauche (e neppure i Verdi) a guadagnarci. Anche la destra è in difficoltà, divisa sulla scelta della strategia per limitare la fuga deli elettori verso il Fronte nazionale. Tra l’altro, due settimane dopo l’uccisione del giovane antifascista Clément Méric a Parigi da parte di violenti di estrema destra, il Fronte nazionale «banalizzato» di Marine Le Pen mostra di non patire le conseguenze delle derive dei gruppuscoli.
La sera del primo turno, il 16 giugno, che aveva decretato l’eliminazione del candidato socialista in una terra tradizionalmente di sinistra (11 anni dopo il trauma del 21 aprile 2002, con l’eliminazione di Jospin al ballottaggio delle presidenziali), François Hollande aveva giustificato la sconfitta come «conseguenza dell’affaire Cahuzac», il ministro che aveva nascosto i soldi all’estero e che era stato costretto a dimettersi anche da deputato (di cui la suppletiva). Domenica, il ministro del Rilancio produttivo, Arnaud Montebourg, ha scatenato una polemica europea accusando il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, di essere «il carburante del Fn» (e «di Beppe Grillo»), attraverso la «pressione considerevole» esercitata «su dei governi democraticamente eletti che non possono fare delle politiche sensibilmente diverse da quelle dei loro predecessori». Per Montebourg, qualunque cosa votino i cittadini, l’Ue è «immobile, paralitica, non risponde a nessuna aspirazione popolare, sul terreno industriale, su quello economico o di bilancio». Anche la destra teme la progressiva omologazione dei partiti di governo. Ne vede l’effetto negativo attraverso la lente del fallimento del «fronte repubblicano» per sbarrare la strada al Fn. Per il segretario dell’Ump Jean-François Copé, difensore del «ni-ni» (né con l’Fn né con il Ps, in caso di ballottaggio tra questi due partiti), il fronte repubblicano ormai «non riposa più su nessuna realtà». Ha dei dubbi ormai anche il moderato Alain Juppé, ex primo ministro: «mi chiedo se questo non finisca per alimentare, sotto un certo punto di vista, la propaganda del Fronte nazionale che vuole mettere l’Ump e il Ps nello stesso sacco – quello del «tutti marci».

[b]ALBANIA[/b]
TIRANA /ELEZIONI – Primi risultati, crolla Berisha, avanti Rama / Ma dopo gli exit poll entrambe i candidati si proclamano vincitori. Violenza ai seggi, ucciso un socialista a Lac
La maggioranza di centrodestra del premier uscente è crollata nelle elezioni politiche. I risultati parziali, al termine dello scrutinio del 40% delle schede (foto reuters), danno un sorprendente vantaggio al candidato socialista Edi Rama. Con il crollo dell’eterno Berisha. Per ora. Perchè l’unica certezza, come è solito per il voto balcanico e in particolare albanese, è che le elezioni parlamentari a Tirana sono state funestate dalla sparatoria in cui un sostenitore del Movimento socialista per l’integrazione ha perso la vita e un candidato del Pd del premier uscente Sali Berisha e un parente sono rimasti feriti. I risultati saranno resi noti in tarda serata o oggi, ma gli exit poll danno comunque al centrosinistra un margine di vantaggio di 13 punti e il socialista Edi Rama ha rivendicato la vittoria chiedendo alla polizia e alle autorità di far rispettare il voto. «Siamo qui – ha detto ai suoi sostenitori – come incrollabili e invincibili garanti di ogni scheda, per portare l’Albania all’indirizzo fissato per il suo destino: l’Ue». La stessa cosa che ha dichiarato Berisha: «Sono convinto della nostra grande vittoria», ha detto il premier uscente.
La consultazione era un test decisivo per il processo d’integrazione dell’Albania – già significativamente inserita nella Nato – in Europa, è stata segnata dalla morte del socialista Gjon Gjoni in uno scontro a fuoco nel quale sono rimasti feriti Mhill Fufi, candidato del Partito democratico, e un suo cugino, Kastriot Fufi. Il portavoce della polizia, Tefik Sulejmani, ha spiegato che la sparatoria, avvenuta nella città di Lac, a circa 60 chilometri a nord-ovest da Tirana, è cominciata dopo una discussione. Rama ha posticipato il suo voto per potersi recare sul posto. dove ha chiesto alla polizia di indagare, puntando il dito contro «certi segmenti delle forze di sicurezza» per la loro collaborazione con «ambienti criminali» e ha insistito sul fatto che la partecipazione al voto è il miglior modo per rispondere alle violenza. Ora un brutto clima aspetta i risultati ufficiali.

ALBANIA – La vittoria dei socialisti / Le elezioni politiche albanesi del 23 giugno si sono concluse con l’affermazione del Partito socialista di Edi Rama che ha sconfitto il premier uscente Sali Berisha, al governo dal 2005. Con oltre il 90 per cento delle schede scrutinate, l’Alleanza per un’Albania europea, capeggiata da Rama, ha ottenuto 84 dei 140 seggi disponibili. Gli altri sono andati al raggruppamento di centrodestra guidato dal Partito democratico (Pd) dì Berisha. Dopo le tensioni delle ultime tornate elettorali (nel 2009 Ì socialisti non hanno accettato la vittoria del Pd e hanno boicottato il parlamento per due anni, e nel 2011 il sindaco di Tirana è stato eletto dopo un lungo braccio di ferro tra Rama e Berisha), le elezioni sono state un test cruciale per le ambizioni dell’Albania di ottenere lo status di candidato all’ingresso nell’Unione europea. Sul voto hanno vigilato seicento osservatori dell’Osce, ma le violenze non sono mancate: un militante socialista è stato ucciso in una sparatoria nei pressi di un seggio a La?, nel nord del paese. "Il 23 giugno è cominciato il processo di de berishizzazìone dell’Albania, che segna la fine di un sistema familiare, clientelare e corrotto durato ventidue anni commenta il quotidiano Tema. "Gli elettori albanesi si sono finalmente svegliati. Ora spetta agli eletti dimostrare coraggio e rimettere in piedi un paese ridotto allo stremo".

[b]GRECIA[/b]
ATENE – RIMPASTO DI GOVERNO / La crisi di governo innescata dall’uscita del partito Sinistra democratica (Dimar) dalla coalizione di governo si è risolta in tempi brevissimi. I ministeri lasciati vacanti da Dimar -uscita dall’esecutivo per protestare contro la chiusura della tv pubblica greca, la Ert – sono stari assegnati ai due principali partiti della coalizione, il socialista Pasok e Nuova democrazia (Nd), e il 25 giugno il nuovo governo guidato dal primo ministro Antonis Samaras ha giurato in parlamento. Nel rimpasto il leader socialista Evanghelos Venizelos è stato nominato vicepremier e ministro degli esteri e il numero di ministri e sottosegretari è aumentato. "Questa decisione è un passo indietro", scrive il sito Tvxs, " e la mancanza di figure indipendenti fa pensare che i socialisti e Nd stiano tornando a quel sistema partitico che ha distrutto il paese".

[b]CROAZIA[/b]
ZAGABRIA – Benvenuti in Europa Dal 1 luglio, con l’ingresso Croazia, l’Unione Europa 28 stati. Anche se l’entusiasmo dei croati negli ultimi mesi si è un po’ raffreddato (secondo sondaggio realizzato ad aprile favorevoli all’integrazione, il 46 %, le aspettative sono comunque molto alte. "Cosa cambierà in concreta quali conseguenze avrà l’integrazione sulla vita quotidiana, gli stipendi, i prezzi, il lavoro scrive Novi list. "A pochi giorni dall’adesione nessuno ha uni sposta chiara". L’unica cosa certa è che Zagabria dovrà decidere da che parte stare in un’Europa divisa dalla crisi: "La Croazia deve scegliere se schierarsi coi paesi che chiedono investimeli per la crescita 0 con quelli che puntano sull’austerità e il rigore", commenta Nacional Intanto, il 25 giugno i paesi dell’Unione hanno dato il via libera all’apertura dei colloqui pe* l’ingresso della
Serbia.

[b]REP. CECA[/b]
II 25 giugno il presidente Milos Zeman ha incaricato l’economista ed ex ministro Jifi Rusnok di formare un governo tecnico. Il 17 giugno si era dimesso il premier conservatore Petr Necas, travolto da un’inchiesta in cui era stata coinvolta lana Nagvovà, capo di gabinetto e sua amante. Lituania II 1 luglio il paese assume la presidenza semestrale dell’Unione europea. Prende il posto dell’Irlanda.

[b]ITALIA[/b]

CALABRIA / COSENZA
UNIVERSITA’, TURANO (PD) A COSENZA CON DELEGAZIONE / UNIVERSITY OF WISCONSIN-PARKSIDE
E’ iniziata al campus dell’Università della Calabria la missione di una delegazione dell’Università americana del Wisconsin-Parkside, guidata dal Chancellor Deborah L. Ford, da Michael Falbo, presidente del Board of Regents dello University of Wisconsin System, e dalla professoressa Carmel Ruffolo. Primo incontro questa mattina con il rettore dell’Unical, Giovanni Latorre, in un meeting a cui hanno partecipato anche il prof. Galileo Violini, delegato del Rettore per l’Internazionalizzazione, e il prof. Davide Infante, membro della Commissione Relazioni internazionali dell’Unical. La delegazione americana è accompagnata da Renato Turano, senatore del PD eletto nella ripartizione America settentrionale e centrale, da anni impegnato nello studio di nuove forme di scambi internazionali a livello universitario e imprenditoriale. "E’ importante – ha sottolineato Turano – agevolare incontri come questo perché riescono ad arricchire il nostro Paese, a tessere una fitta rete di relazioni internazionali e a gettare le basi per progetti innovativi destinati a rendere migliore il futuro dei nostri giovani". La delegazione, che rimarrà in Italia fino al 27 giugno, ha in programma anche incontri istituzionali con il presidente della Provincia di Cosenza, Mario Oliverio, e con il direttivo della Camera di Commercio di Cosenza.

SICILIA / CATANIA
EMIGRAZIONE, GIACOBBE (PD) A CATANIA / PER LA "GIORNATA DEL SICILIANO NEL MONDO" "E’ importante rafforzare i legami tra la Sicilia e i siciliani emigrati e promuovere la cultura siciliana nel mondo come motore di movimentazione economica, culturale e turistica. Ed è importante farlo soprattutto in un momento così delicato per il Paese e per i nostri corregionali emigrati che, ora più che mai, hanno bisogno di un contatto continuo con la terra natìa". Questo il nodo chiave dell’intervento che Francesco Giacobbe, senatore del PD eletto all’estero, ha tenuto a Catania in occasione della XVII edizione della "Giornata del siciliano nel mondo" organizzata dall’associazione Sicilia Mondo di Domenico Azzia. Un evento di straordinaria importanza per la collettività siciliana nel mondo che a Catania era rappresentata anche dagli altri eletti all’estero di origine siciliana: Francesca La Marca (PD), Fabio Porta (PD) e Mario Caruso (SCpI). A ridosso dell’evento di Sicilia Mondo, Francesco Giacobbe insieme ai colleghi deputati è stato ricevuto a Palazzo degli Elefanti dall’assessore Rosario D’Agata. "Ringrazio anche a nome del sindaco Enzo Bianco – ha detto l’assessore D’Agata – questi nostri conterranei che si sono affermati in terre così lontane senza dimenticare le loro origini. La loro visita è una valida prima presa di contatto per collaborazioni che possano stimolare il settore del lavoro, in un campo dove l’amministrazione lavorerà di concerto con la Regione sviluppando sinergie tra le varie realtà territoriali". All’incontro era presente anche Giuseppe Lupo, segretario regionale del PD. Roma, 24 giugno 2013

VATICANO – SARÀ PRESIEDUTA DAL SALESIANO RAFFAELE FARINA / Bergoglio nomina una commissione per raccogliere informazioni sullo Ior/ L’iniziativa del papa in vista della riforma (o più probabilmente di un rimpasto) dell’istituto. Il portavoce della Santa sede, padre Lombardi: «Non è un commissariamento»
Papa Francesco non si fida degli attuali vertici dello Ior. E così ha istituito una Commissione che raccolga «documenti», «dati» e «puntuali informazioni» sulle attività dell’Istituto per le opere di religione – in deroga anche al «segreto d’ufficio» e ad «altre restrizioni» – e lo aggiorni costantemente. L’annuncio è stato dato ieri dalla Sala stampa della Santa sede, ma la Commissione referente è in funzione già dal 24 giugno, quando Bergoglio l’ha creata con un "chirografo", un atto redatto di suo pugno. Si tratta del secondo intervento del papa sullo Ior in pochi giorni. Il 15 giugno aveva nominato come prelato dell’Istituto un uomo a lui vicinissimo, mons. Battista Ricca (direttore della Casa Santa Marta, dove Bergoglio ha scelto di abitare), con il compito di svolgere la funzione di "ufficiale di collegamento" con le stanze del potere della banca vaticana. Ora con l’istituzione della Commissione referente, nonostante padre Lombardi, portavoce della Santa sede, respinga il termine «commissariamento», risulta ancora più evidente che Bergoglio voglia avere notizie e documenti di prima mano da "suoi" uomini. Informazioni che gli torneranno utili in vista di una prossima annunciata riforma dello Ior – anche se probabilmente si tratterà di un più modesto rimpasto -, ma che intanto consentiranno a Bergoglio di avere occhi e orecchie nei corridoi e nelle stanze della banca vaticana. Tanto più che gli attuali dirigenti sono tutti espressione della vecchia gestione: il presidente Von Freyberg e il cardinal Bertone, presidente della Commissione cardinalizia di vigilanza, il primo nominato e il secondo riconfermato alla fine di febbraio, quando Ratzinger aveva già annunciato le dimissioni. Un modo per "legare le mani" al successore, chiunque fosse stato.
I cinque commissari scelti da Bergoglio non sembrano però andare nella direzione di quella riforma radicale dello Ior che tanti si aspettano. Il presidente è l’ottantenne cardinale salesiano (come Bertone) Raffaele Farina, ex responsabile della biblioteca e dell’archivio segreto vaticano; coordinatore è lo spagnolo Juan Ignacio Arrieta, segretario del Pontificio consiglio per i testi legislativi, dell’Opus Dei, per 15 anni preside della facoltà di Diritto canonico dell’università della Santa Croce; segretario è lo statunitense Bryan Wells, che lavora in segreteria di Stato ed è vicino alla potente lobby dei Cavalieri di Colombo, influenti nell’elezione di Bergoglio grazie al voto dei cardinali Usa e in corsa per accaparrarsi il prossimo presidente dello Ior al posto di Von Freyberg (che appartiene ai Cavalieri di Malta); poi ci sono il cardinal Jean Louis Tauran (schierato su posizioni anti-bertoniane) e Mary Ann Glendon, ex ambasciatrice Usa presso la Santa Sede, presidente della Pontificia accademia delle Scienze sociali, di sicura fede repubblicana, paladina dei movimenti pro-life.

[b]AFRICA & MEDIO ORIENTE[/b]

ISRAELE
GERUSALEMME – PROTESTE SENZA PRECEDENTI DEI DEPUTATI ARABI Quei 30 mila beduini del Neghev da deportare. La Knesset approva – di Michele Giorgio 7 Il 24 giugno è stata una giornata turbolenta per la Knesset. Da tempo i deputati arabi, guidati da Ahmed Tibi e Mohammed Barakeh, non protestavano con tanta veemenza contro una legge in discussione dal Parlamento. Riunita in sessione plenaria, la Knesset ha approvato in prima lettura il piano noto come «Begin-Prawer», ossia la «ricollocazione» – di fatto un trasferimento forzato – per circa 30 mila beduini del Neghev. Il provvedimento ora è in commissione per eventuali emendamenti, poi tornerà di nuovo al voto in aula. Prima e dopo l’approvazione si sono vissuti momenti di tensione. Tibi ha intenzionalmente rovesciato un bicchiere d’acqua sul testo della legge da approvare. Barakeh e altri deputati arabi hanno urlato con forza la loro condanna del piano e sono stati espulsi dall’aula. Ma proteste sono arrivate anche da alcuni deputati ebrei, convinti che il piano rappresenti una violazione aperta dei diritti di decine di migliaia di cittadini israeliani. La tensione è alta nel Neghev dove la popolazione beduina non intende abbandonare i suoi villaggi, non pochi dei quali non hanno mai ottenuto il riconoscimento da parte delle autorità anche se esistono da prima della creazione dello Stato di Israele. «Per anni i beduini hanno vissuto in villaggi privi dei servizi più elementari mentre intorno a loro crescevano e si sviluppavano i centri abitati da cittadini ebrei», spiega l’avvocato Rawia Aburabia dell’Associazione israeliana per i diritti civili, «il governo deve decidere se vuole una giusta soluzione che preveda il riconoscimento dei beduini del Neghev oppure attuare un piano che aumenterà l’alienazione, l’ostilità e la povertà tra queste comunità». Per le autorità di governo invece lo «spostamento» di 30mila beduini rientra in un piano di sviluppo e miglioramento di vita nel Neghev – dove, peraltro, saranno costruite o trasferite importanti basi militari – di cui beneficeranno anche le popolazioni arabe. Il «Begin-Prawer» è stato approvato il 27 gennaio dal governo Netanyahu. Ora attende solo il via libera della Knesset. Prevede la "ricollocazione" (anche con la forza, se necessario) di 30 mila dei 150mila beduini del Neghev in sette township costruite negli anni ’70 – come Rahat, Kseifa e Hura – e l’eliminazione dei «villaggi non riconosciuti». Saranno dichiarati «esistenti» solo i centri dove la popolazione raggiunge una soglia numerica minima, gli altri saranno accorpati e le popolazioni «trasferite». Il progetto in effetti prevede anche risarcimenti economici a chi perderà la terra e la casa ma è stato concepito senza avviare alcun dialogo vero con le popolazioni interessate.
I beduini sostengono che l’intenzione del governo è solo quella di mettere le mani su 80 mila ettari di terra araba. Già in passato il quotidiano liberal Haaretz aveva accusato il governo di ignorare la delicatezza della questione, per avere deciso di abbattere 20.000 capanne o baracche e il "trasferimento" di migliaia di persone verso edifici ancora da costruire e, in ogni caso, insufficienti ad accoglierle. Il «Begin-Prawer» in ogni caso parte da lontano. È stato Ariel Sharon, l’ex premier israeliano (dal 2006 in stato di coma profondo) ad aver varato i progetti per risolvere il «problema beduino». Fu lui che nel 1978 istituì la «polizia verde» incaricata di individuare e rimuovere i campi di tende e le case abusive nel Neghev. Piani rilanciati dopo il 2001 e ora portati a termine da un altro primo ministro.
I beduini, abitanti originari del Neghev, sono considerati degli «ospiti» da un buon numero di israeliani. E lo Stato non esita a usare la forza contro di loro, con le ruspe sempre pronte a demolire «insediamenti illegali», come ad Arakib dove le case sono state abbattute tutte le volte che gli abitanti e gli attivisti le hanno ricostruite. In questi giorni un tribunale dovrà valutare il ricorso presentato dagli abitati di of Umm el-Hieran, villaggio destinato alla distruzione per far posto, dicono i beduini, a una cittadina per israeliani ebrei. Nessun riconoscenza quindi per i beduini che pure ogni anno a centinaia si offrono volontari per il servizio militare nonostante la legge escluda gli arabi (fanno eccezione i drusi) dalle Forze Armate.

[b]EGITTO[/b]
MANIFESTAZIONI DOMENICA L’ESERCITO IN STRADA
L’esercito egiziano è dispiegato a protezione di ogni punto sensibile: dalle banche ai consolati, dalle chiese alle piazze principali. Elicotteri Apache hanno sorvolato il centro della città costiera di Alessandria e tank dell’esercito sono schierati davanti a banche e chiese. La città è stata negli ultimi mesi teatro di violenti scontri fra sostenitori e oppositori del presidente islamista Mohamed Morsi. Alessandria è uno dei centri più importanti di raccolta firme per la richiesta di dimissioni avanzata nei confronti del presidente islamista dalla cmpagna Tamarrod (ribelli). Secondo gli organizzatori sono state raccolte 15 milioni di firme: l’obiettivo è di superare i voti ottenuti dal presidente islamista alle presidenziali dello scorso 30 giugno. Per calmare gli animi è intervenuto il presidente Morsi nella serata di ieri. Anche il palazzo presidenziale è presidiato dalle forze di sicurezza. Molti attivisti denunciano una mancanza improvvisa di rifornimenti di benzina per fermare l’afflusso dei manifestanti verso il Cairo.
IL CAIRO – In Egitto è sempre più alta la tensione tra il governo e le forze d’opposizione, che hanno indetto una grande manifestazione per il 30 giugno per chiedere le dimissioni del presidente Mohamed Morsi e ìe elezioni anticipate. L’esercito ha avvertito che potrebbe intervenire se scoppieranno violenze. Il 21 marzo i Fratelli musulmani avevano manifestato al Cairo in appoggio a Morsi (nella foto). Il governo è sotto accusa anche per l’uccisione di quattro sciiti il 23 giugno a Giza, attaccati da una folla di migliaia di persone che gridavano "all’infedele", scrive The National.

[b]TURCHIA[/b]
DER SPIEGEL / UNPAESE SPACCATO IN DUE / Dopo lo sgombero di piazza Taksim, a Istanbul e in altre città turche continuano le proteste contro il governo di Recep Tayyip Erdogan, e decine di manifestanti sono stati arrestati e accusati di terrorismo. In Turchia, osserva Der Spiegel, che per la prima volta nella sua storia pubblica uno speciale scritto in tedesco e in turco, non è in gioco un semplice progetto edilizio in un parco, ma l’identità del paese, reduce da un decennio di straordinaria crescita economica. Uno sviluppo che ha evidenziato "una profonda spaccatura nella società" e allo stesso tempo ha contribuito a nasconderla: da una parte la componente progressista e urbana che guarda all’Europa, dall’altra quella rurale, conservatrice e profondamente influenzata dall’islam. Entrambe sostengono di "rappresentare la maggioranza dei turchi, un popolo che oggi è molto più complesso di quello plasmato novant’anni fa da Atatiirk". La repressione delle proteste voluta da Erdogan ha anche creato tensioni con l’Unione europea. Su proposta di Berlino, Bruxelles ha deciso di spostare a ottobre la riapertura dei negoziati per l’ingresso di Ankara, dal 2005 in lista di attesa per entrare nell’Unione europea. Secondo Hurriyet Daily News, i legami tra Bruxelles e Ankara oggi sono particolarmente fragili. E non solo per colpa delle proteste del parco Gezi. "Molti collegano l’atteggiamento tedesco a quello che è successo a Istanbul, ma il governo turco sa bene che la chiusura di Angela Merkel verso Ankara è legata alla sua strategia in vista delle elezioni federali di settembre".
TURCHIA Ue – VIA LIBERA AI NEGOZIATI, MA IN AUTUNNO / La protesta in Turchia non accenna a placarsi. Da Ankara a Istanbul, ancora ieri le strade si sono riempite di cortei per protestare contro la violenza della polizia e contro la decisione di scarcerare l’agente responsabile dell’uccisione di un manifestante all’inizio di giugno. L’Unione europea guarda l’evolversi della situazione, preoccupata di un’escalation autoritaria del premier Erdogan, preoccupazione che non ha impedito, dopo giorni di dibattito, di dare il via libera alla ripresa dei negoziati per l’adesione della Turchia, anche se soltanto a ottobre per dare un segnale dopo la dura repressione delle proteste di piazza Taksim. I ministri degli Affari europei dei ventisette, riuniti ieri a Lussemburgo, hanno dato infatti luce verde all’immediata apertura del capitolo 22, dedicato alla politica regionale, uno dei 35 un cui si articola la trattativa per l’ingresso di Ankara nell’Unione, rispettando così la scadenza del 26 giugno. Dopo uno stallo di tre anni, è stato però deciso di far ripartire i negoziati in autunno, quando la Commissione europea avrà presentato un rapporto sui progressi istituzionali di Ankara. Soddisfatta la ministra Bonino: «Bene, si è evitato il muro contro muro». Erdogan non nasconde la sua soddisfazione: «È quello che ci aspettavamo. Credo che in poche settimane dopo le informative sui progressi istituzionali partiranno i negoziati. Non c’è – ha concluso – alcun problema».
ISTANBUL – La Germania chiede il rinvio dell’apertura dei negoziati / l’Ue si allontana di A. Tetta / Libero l’agente che ha ucciso un manifestante. Nuovo video choc sui violenti pestaggi delle forze dell’ordine / Dal 25 giugno, Sahbaz, l’agente che lo scorso primo giugno ad Ankara ha ucciso con un colpo di pistola Ethem Sarisülük durante una manifestazione a sostegno del movimento Occupy Gezi, è libero. Il processo continuerà, ma il tribunale di Ankara non ha convalidato l’istanza di arresto per il poliziotto che avrebbe agito secondo i giudici «nei limiti della legittima difesa». Sahbaz era l’unico agente in carcere per atti di violenza commessi contro i manifestanti che stanno scendendo in piazza da quasi un mese in tutto il paese. Dopo il rilascio del poliziotto i familiari della vittima hanno annunciato che faranno ricorso contro l’istanza di scarcerazione e chiederanno alla Corte europea per i diritti umani di pronunciarsi sul caso visto che «non è stata condotta una indagine imparziale».
Quattro morti, tre manifestanti e un agente, 11 persone colpite da lacrimogeni sparati ad altezza uomo che hanno perso la vista, più di 7.500 feriti, sei a rischio di vita, questo il bilancio degli scontri secondo il report redatto dall’Unione dei medici turchi (Ttb), ma ieri il premier Erdogan è tornato a difendere le forze dell’ordine e durante la cerimonia di consegna dei diplomi all’accademia di polizia di Ankara ha dichiarato di aver dato di persona l’ordine di sgomberare il parco Gezi definendo «epico» l’operato degli agenti: «La nostra polizia ha superato con successo un test democratico molto importante, non permetteremo agli avversari della Turchia e ai media nazionali e internazionali di attaccarla. Io e il mio governo ci congratuliamo con le forze dell’ordine con entusiasmo e a nome della nazione ringrazio i miei fratelli poliziotti per essere intervenuti con patriottismo e senso del sacrificio» ha detto il premier. Il discorso di elogio alla polizia è stato pronunciato proprio mentre emergono nuove prove dell’uso eccessivo della forza da parte della polizia come il video che documenta il pestaggio a freddo di tre manifestanti il due giugno ad Ankara pubblicato sul sito del quotidiano turco Hürriyet. Le immagini raccolte dalla telecamera a circuito chiuso del parcheggio dove gli attivisti si erano rifugiati mostrano circa 13 agenti che si scagliano contro i ragazzi colpendoli con calci, pugni e manganellate per diversi minuti. Tuttavia, nonostante la repressione il movimento contro il governo Erdogan, continua a scendere in piazza. Sono decine i «forum aperti» organizzati tutti i giorni a Istanbul e nel resto della Turchia dove si discute di come influenzare le decisioni politiche sia a livello locale che nazionale. Sabato a Istanbul decine di migliaia di persone rispondendo all’appello di «Taksim solidarietà», il coordinamento dei gruppi che hanno partecipato all’occupazione del parco Gezi, hanno riempito di nuovo piazza Taksim con garofani in mano per ricordare le vittime degli scontri di questi giorni, ma poco dopo l’inizio del meeting la polizia ha caricato i manifestanti in piazza per poi disperderli con gli idranti. Gli scontri sono proseguiti fino a notte inoltrata per le vie del centro e le forze dell’ordine hanno fatto largo uso di lacrimogeni e proiettili di gomma.
Il pugno duro del governo Erdogan, tuttavia rischia di mettere in discussione il processo di adesione di Ankara all’Unione europea ripartito a febbraio dopo il cambio di linea della Francia. Il premier e diversi ministri del suo governo hanno criticato duramente le dichiarazioni della cancelliera tedesca Angela Merkel che si era detta «scioccata» dalla repressione delle manifestazioni e ieri, qunado manca un giorno dalla riapertura del negoziato di adesione che era fermo da tre anni, il ministro degli esteri Guido Westerwelle ha chiesto all’Irlanda, che presiede in questi mesi l’Unione europea, di posticipare di tre mesi l’apertura di un nuovo capitolo negoziale con Ankara prevista per questi giorni, una proposta che gode del sostegno di altri stati membri.

[b]SIRIA-LIBANO[/b]
Centomila morti / Sale il numero delle vittime c-conflitto in Siria. Secondo l’Oc servatone siriano per i diritti umani, con sede nel Regno U: to, la guerra ha causato più di centomila morti, tra cui almeno 36.600 civili, 25mila soldati siriani e 15mila ribelli. Le altre M time sarebbero miliziani vicino al regime, persone non meglio identificate e combattenti di Hezbollah. Il conflitto sta contagiando sempre di più anche il Libano. Secondo Al Akhbar, da Tripoli a Sidone si moltiplica no le violenze settarie. Nell’episodio più grave dall’inizio della guerra, il 23 giugno a Sidone sono scoppiati scontri tra l’esercito libanese e la milizia del leader sunnita radicale Ahmad Assir, in cui sono rimasti uccisi almeno sedici soldati libanesi.

[b]IRAQ[/b]
BAGHDAD – II 25 giugno undici persone sono morte in un duplice attentato suicida a Tuz Khurmatu. Il giorno prima 28 persone erano morte in una serie di attacchi contro la comunità sciita a Baghdad. Il 23 giugno 15 persone sono morte in un attentato suicida a Taji.

[b]KENYA[/b] – Dieci persone sono morte il 23 giugno nell’esplosione di una granata nel nordest del paese. L’episodio sarebbe legato a un conflitto tra clan locali.

[b]CAPE TOWN / SUDAFRICA[/b] – Davanti al cancello dell’ospedale Mandela, la sua gente non lo «lascia andare» di Rita Plantera / Sono centinaia ogni giorno i sudafricani che sostano fuori del cancello del Mediclinic Heart Hospital di Pretoria dove Nelson Mandela si trova dall’8 giugno scorso per un’infezione polmonare. Le condizioni dell’anziano leader si sono aggravate negli ultimi giorni, portando il mondo intero a prendere coscienza della mortalità dell’ultimo degli eroi del XX secolo.
Gente comune, scolaresche, gruppi di preghiera, compagni di prigionia, lavoratori che tra un turno e l’altro passano a salutare Tata Madiba portando fiori, biglietti d’auguri o accendendo candele e cantando inni antiapartheid in onore del venerato leader. Per molti versi, si ha la sensazione di un Sudafrica un po’ perso – anche se in parte rassegnato e consapevole – di fronte all’eventualità che nel precipitare degli eventi potrebbe svegliarsi orfano di chi, sfidando la pena di morte, mise in ginocchio un sistema pianificato di diseguaglianza politico-economica e sociale sferrando con il coraggio e la mitezza combattiva di cui solo un saggio è capace un attacco di massa, mobilitando le coscienze e l’azione dei sudafricani e infiammando l’animo di milioni in tutto il mondo dal chiuso di una cella la cui profondità misurava la sua altezza. «Per Madiba non è mai il momento», ci ha detto una ragazza che lavora come cameriera in un pub del centro di Cape Town, quando che le abbiamo chiesto se è tempo di «lasciarlo andare», come vuole una tradizione di alcune etnie sudafricane. A sentire altri invece, l’ora sarebbe ormai giunta per l’anziano leader. Per altri ancora, magari ce la fa ad arrivare al 18 luglio prossimo, giorno del suo novantacinquesimo compleanno. C’è la speranza, l’obiettività, la rassegnazione e c’è, in fondo, la paura probabilmente dettata dagli attuali scenari politico-economici e sociali. Sentimenti contrastanti che si sgranano con intensità diversa se a parlare è un nero o un bianco. Se cioè a provarli sono quelle generazioni o figli di generazioni a cui il regime dell’apartheid – deriva estrema e incancrenimento di secoli di dominazione inglese e boera – ha negato dignità, libertà e tant’altro, o la minoranza bianca di quegli anni, e i suoi discendenti, che da spettatori hanno assistito e beneficiato di quei soprusi legalizzati e per cui Mandela ha solo rappresentato l’uomo della riconciliazione e la leggenda a cui tutto il mondo rende tributi. È quasi un tabù per loro parlarne, e per ragioni figlie non solo di quegli anni ma soprattutto di quelli del post-apartheid.
Due decenni dopo la fine dell’apartheid, il processo di sradicamento avviato da Mandela di quel sistema strutturato di ineguaglianza socio-economica si è dopo gli anni della sua presidenza arenato. E il Sudafrica oggi fa ancora i conti con il retaggio di quelle politiche. Forti ineguaglianze sociali, alti tassi di disoccupazione – arrivata a picchi del 25-26% – povertà, livelli di istruzione e scuole sotto gli standard fanno della Rainbow Nation una delle società più ineguali al mondo in cui la minoranza bianca occupa ancora i posti chiavi dell’economia. Evidenza concreta dell’incapacità dei successori di Mandela di raccogliere il suo testimone, uno svuotamento della leadership che non attuando quelle riforme di cui l’economia e la società necessitano ha alimentato timori di tensioni finora sopite grazie all’opera di collante di Madiba. Questo Sudafrica, con queste problematiche, si prepara ad accogliere domani Obama. Il quale non è ancora ben chiaro se farà visita a Mandela ma visiterà sicuramente la prigione di Robben Island dove Madiba ha trascorso 18 dei suoi 27 anni di prigionia. A voler essere cinici, quanto basterà più che a schermare il suo viaggio africano a sostenere invece il suo tentativo di convincere che anche la sua amministrazione, al pari di quelle passate, intende portare avanti politiche di sviluppo in Africa. Cosa che al momento gli viene contestato di aver accantonato.
SUD AFRICA – L’Africa può sognare / "Dall’8 giugno Nelson Mandela è in ospedale a Pretoria, sempre più fragile e in condizioni critiche, e il resto del mondo gli rende omaggio nell’attesa che succeda l’inevitabile", scrive il Daily Maverick. Il 25 giugno in onore all’ex presidente sono state liberate delle colombe bianche davanti all’ospedale in cui è ricoverato, mentre i suoi familiari si riunivano a Qunu, la località dov’è nato. "Il Sudafrica si prepara anche ad accogliere il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che compie la sua visita più importante in Africa", con tappe in Senegal, in Sudafrica e in Tanzania. "Quando Obama fu eletto, Mandela disse che era la prova che gli africani devono ‘sognare’", continua il Daily Maverick. La visita di Obama non si annuncia facile perché saranno affrontati molti temi spinosi, dal riscaldamento globale al terrorismo internazionale E anche se avrà successo, "si svolgerà sempre all’ombra di un Mandela sul letto di morte".

[b]QATAR[/b]
Successione al trono / Il 25 giugno l’emiro del Qatar Hamad bin Khalifa al Thani ha abdicato a favore del figlio Tamim, 33 anni, che ha avuto dalla seconda moglie, MozahbintNasser. Secondo la stampa della regione non ci saranno cambiamenti né nella politica interna né in quella estera. Re Hamad, che recentemente ha avuto problemi di salute, ha regnato per diciott’anni rivoluzionando il paese, che si è arricchito con i proventi del gas naturale. La prima decisione del nuovo leader Tamim è stata nominare come premier l’attuale ministro dell’interno Abdullah bin Nassei bin Khalifa a Thani, scrive AI Jazeera.

[b]MOZAMBICO[/b]
Il ritorno della guerriglia / In Mozambico si teme per la ri¬presa delle attività di guerriglia del partito Renamo, protagonista insieme al Frelimo (al potere) di un conflitto che ha causato circa un milione di morti tra il 1977 e il 1992. Il 21 giugno, in un’imboscata nel centro del paese attribuita agli uomini del Renamo, sono rimaste uccise due persone. Il 24 giugno nuovi attacchi hanno causato sette morti, scrive @Verdade, ma 0 Renamo ha negato di essere coinvolto. A Maputo sono in corso tentativi per arrivare a una soluzione politica.

[b]ASIA & PACIFICO[/b]

[b]AUSTRALIA[/b]
CAMBERRA – Rudd caccia Gillard / Il 26 giugno la premier Julia Gillard è stata battuta dal suo predecessore Kevin Rudd in un voto interno del Partito laburista. Gillard era stata scelta come segretaria dei laburisti al posto di Rudd nel 2010, ma da allora il suo avversario ha più volte cercato di mettere in crisi la sua leadership. Prima del voto Gillard ha annunciato che, in caso di sconfitta, si sarebbe ritirata dalla politica. Eletto con 59 voti contro 45, Kevin Rudd diventa automaticamente anche primo ministro a meno di due mesi dalle elezioni, scrive The Age.

[b]GIAPPONE[/b]
TOKIO – Abe ha il vento in poppa / La netta vittoria del Partito liberaldemocratico alle elezioni del 23 giugno rafforza il potere del primo ministro Shinzò Abe. Grazie all’alleanza con il New Komeito, la coalizione ha conquistato 82 seggi su 127 e guarda fiduciosa alle elezioni della camera alta di luglio. Un nuovo successo permetterebbe al partito del premier di portare avanti senza ostacoli una serie di riforme. Il rischio di questa maggioranza, secondo il Mainichi Shimbun, è che Abe non porti a termine le difficili riforme economiche e che si concentri su temi più discussi. Tra questi la riforma della costituzione per creare un vero esercito.

[b]INDIA[/b]
TAMIL NADU – RENI IN VENDITA ONLINE / " Non più solo libri, vestiti e gadget elettronici, oggi online si può comprare anche un rene", scrive The Hindu in un’inchiesta sull’aumento delle vendite illegali di organi sul web. La do-manda di reni rispetto alla disponibilità è talmente grande che le bacheche dei forum e dei social network sono piene di an-nunci di offerte e richieste, con tutti i dettagli: nome, età, gruppo sanguigno, indirizzo email e numero di telefono. Per chi è in attesa di un trapianto – 2.811 persone solo nel Tamil Nadu è un modo per accorciare un iter che richiede anni. La compravendita e l’organizzazione del trapianto sono gestite da agenti. Rahul, 27 anni, per un rene chiede l’equivalente di 38mila euro, di cui 2.500 vanno all’agente e 10.200 per le spese ospedaliere. Lo scandalo, commenta The Hindu, mette in luce la corruzione e il mancato accesso ai trattamenti per le malattie gravi. Per ridurre la domanda basterebbe offrire emodialisi gratis a chi soffre di patologie renali.

[b]INDONESIA[/b]
FORESTA IN FUMO – Il fumo degli incendi che stanno bruciando da giorni ettari di terreno nella foresta di Riau, a Sumatra, ha raggiunto Singapore e la Malesia, provocando seri danni e un caso diplomatico. Il fumo, che ha reso l’aria irrespirabile e costretto centinaia di scuole malesi a rimanere chiuse, è causato dal disboscamento illegale compiuto dai contadini di Sumatra e dai produttori di olio di palma che tagliano gli alberi per sottrarre spazio alla foresta e bruciano il terreno per renderlo fertile. Il presidente indonesiano Susilo Eambang Yudhoyono si è scusato dopo che un esponente del suo go-verno ha indicato come corresponsabili le aziende malesi e singaporiane produttrici di olio di palma.

[b]AFGHANISTAN[/b]
KABUL – II 25 giugno in un attacco taliban contro la sede della presidenza e gli uffici della Cia a Kabul sono morte tre guardie e cinque assalitori. Hamid Karzai e Barack Obama hanno confermato l’impegno a negoziare la pace con i taliban. Cina II 26 giugno nello Xinjiang, a maggioranza musulmana, 27 persone sono morte in uno scontro tra manifestanti e polizia.

[b]PAKISTAN[/b]
KARACI – II 24 giugno il primo ministro Nawaz Sharif ha an-nunciato che l’ex presidente Pervez Musharraf sarà processato per alto tradimento.

[b]AMERICA CENTROMERIDIONALE[/b]

[b]BRASILE[/b]
L’11 LUGLIO AL VIA LO SCIOPERO GENERALEI / sindacati brasiliani, tradizionali alleati del presidente Dilma Rousseff, hanno indetto uno sciopero generale sui temi del lavoro per il prossimo 11 luglio. Nonostante la mobilitazione urbana, il referendum costituzionale per le riforme politiche, proposto dal presidente Rousseff, non si farà. Il parlamento ha optato per una consultazione popolare. Martedì sera il parlamento brasiliano ha poi rigettato la controversa Pec37 e ha approvato la proposta di destinare il 75% delle royalties petrolifere al sistema educativo, il restante 25% sarà destinato a quello sanitario

[b]ARGENTINA[/b]
CORDOBA – L’ARCHIVIO STORICO DELL’EMIGRAZIONE PIEMONTESE / Durante la Festa del Piemonte celebratasi, con notevole successo a Frossasco e San Pietro Val Lemina, sabato 25 maggio scorso, il Dott. Enrique H. Rossetto giunto appositamente dall’Argentina, dopo il ritiro di un premio a lui assegnato dall’Associazione Piemontesi nel Mondo, ha dato notizia e illustrata la funzionalità dell’Archivio Historico de la Inmigración Piamontesa y Centro de Investigaciones (AHIP – AFAPIECO) nella città di Cordoba.
Tale archivio è stato creato il 14 dicembre 2009 per l’Associazione Familia Piemontese di Cordoba (AFAPIECO), a partire dal progetto presentato dallo stesso Dott. Rossetto alla commissione direttiva della citata Istituzione. L’AHIP ha la sua sede presso l’Area Italianistica della Facoltà di Lingue per accordo scientifico con l’Università Nazionale di Cordoba (UNC). Quest’istituzione ha come obiettivo il recupero, la conservazione e il trattamento delle fonti storiche che costituiscono il registro documentario del processo dell’immigrazione piemontese in Argentina, iniziato a metà del XIX secolo. Inoltre, l’HAIP è un centro di ricerche e divulgazione scientifica multidisciplinare riferita alla tematica della storia dell’immigrazione piemontese in Argentina. A tal fine l’HAIP è integrato da ricercatori e docenti laureati e post laureati all’Università Nazionale di Cordoba e all’Università di Torino. Da gennaio 2013 l’HAIP ha una sub-sede nella città di Luque, Provincia di Cordoba. Fra gli obiettivi programmati s’intende:

– recuperare e conservare le fonti del registro storico del processo di immigrazione piemontese in Argentina;

– generare una base di dati alfanumerici per lo sviluppo di numerose tipologie di ricerche scientifiche e multidisciplinari, in particolare: Storia, Archeologia, Sociologia, Antropologia, Economia, Giurisprudenza, ecc;

– Produrre conoscenza multidisciplinare riferita al processo di immigrazione piemontese in Argentina, a partire dal centro di ricerche e da metodologia scientifica;

– elaborazione di pubblicazioni e dettato di conferenze; Adesioni e avalli sono giunti dai seguenti enti:

– Centro di Italianistica della Facoltà di Lingua dell’Università Nazionale di Cordoba;

– Laboratorio de Sistemas de Información Geográfica y Geoprocesamiento della Facoltà di
Cencias Exactas, Fisicas y Naturales dell’Università Nazionale di Cordoba;

– Altri Enti Culturali, pubblici e privati dell’Argentina. Accordi di collaborazione scientifica sono stati sottoscritti con:

– Università Nazionale di Cordoba;

– La Fundación Universidad Empresarial Siglo 21 come centro di formazione aggiunto;

– Con l’Università degli Studi di Torino e altri centri di ricerca storica e culturale della Regione
Piemonte. La sede presso l’Area Italianistica, Facoltà di Lingue, Università Nazionale di Cordoba – Av.
Vélez Sársfield 187 (X5000JJB), Cordoba – Argentina. Orari: martedì dalle 10:00 alle 12:00 e venerdì dalle 18:00 alle 20:00. Email: archivio.piemonte@gmail.com

[b]BRASILE[/b]
– Dilma ha frenato l’inclusione sociale di Boaventura de Sousa Santos / Con l’elezione della presidente Dilma Roussef, il Brasile ha voluto accelerare il passo per convertirsi in una potenza globale. Molte iniziative vengono da lontano, ma hanno trovato un nuovo impulso: la Conferenza dell’Onu sull’ambiente, Rio+20 nel 2012, il Mondiale di calcio nel 2014, i Giochi olimpici nel 2016, la lotta per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu, un ruolo attivo nel crescente protagonismo delle "economie emergenti", i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, e Sudafrica), la nomina di José Graziano da Silva a direttore generale dell’Organizzazione per l’agricoltura e l’alimentazione (Fao) nel 2012 e quella di Roberto Azevedo a direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) a partire dal 2013. E ancora, una politica aggressiva di sfruttamento delle risorse naturali, sia in Brasile che in Africa, principalmente in Mozambico, l’incremento della grande agricoltura industriale, soprattutto per la produzione di soia, gli agro combustibili e l’allevamento del bestiame.
Favorito da una buona immagine pubblica internazionale guadagnata dal presidente Lula e dalle sue politiche di inclusione sociale, questo Brasile sviluppista si impone al mondo come una potenza di tipo nuovo, benevola e inclusiva. Non avrebbe dunque potuto essere maggiore la sorpresa internazionale di fronte alle manifestazioni che nell’ultima settimana hanno portato in piazza centinaia di migliaia di persone nelle principali città del paese. Se di fronte alle recenti manifestazioni in Turchia la lettura delle "due Turchie" è stata immediata, nel caso del Brasile è stato più difficile riconoscere l’esistenza di "due Brasili". Una realtà che però è sotto gli occhi di tutti. La difficoltà nel riconoscerla risiede nella natura dell’altro Brasile, che sfugge a un’analisi semplicistica. Questo Brasile si compone di tre narrazioni e temporalità. La prima narrazione riguarda l’esclusione sociale (uno dei paesi più diseguali al mondo), le oligarchie latifondiste, il "cacicchismo" violento, le élite politiche chiuse e razziste, una narrazione che risale al tempo della colonizzazione e che si è riprodotta in forme sempre diverse fino a oggi. La seconda narrazione riguarda la rivendicazione della democrazia partecipativa, che rimonta agli ultimi 25 anni e che ha avuto i suoi punti più alti nel processo costituente per la Carta magna del 1988, nei bilanci partecipati sulle politiche urbane in centinaia di municipi, nell’impeachment al presidente Collor de Mello nel 1992, nella creazione di consigli dei cittadini nelle principali aree delle politiche pubbliche, specialmente nel campo della salute e dell’istruzione, a diversi livelli dell’attività statale (municipale, regionale e federale). La terza narrazione data di appena dieci anni e attiene alle vaste politiche di inclusione sociale adottate dal presidente Lula da Silva a partire dal 2003, che hanno portato a una significativa riduzione della povertà, alla creazione di una classe media con un’elevata propensione al consumismo, al riconoscimento della discriminazione razziale verso la popolazione afro discendente e indigena e alle politiche delle azioni affermative, a un maggior riconoscimento di territori e di quilombolas (discendenti di schiavi) e indigeni.
Da quando la presidente Dilma ha assunto l’incarico si è però verificato il rallentamento, se non addirittura l’insabbiamento delle due ultime narrazioni. E siccome in politica il vuoto non esiste, ad approfittare di questo terreno incolto è stata la prima e più antica narrazione, rafforzata nelle nuove vesti dello sviluppo capitalista e nelle nuove (e vecchie) forme di corruzione. Le forme di democrazia partecipativa sono state cooptate, neutralizzate nel dominio delle grandi infrastrutture e dei megaprogetti, e hanno smesso di entusiasmare le generazioni più giovani, orfane di una vita familiare e comunitaria capace di integrarle, abbagliate o ossessionate da un nuovo consumismo. Le politiche di inclusione sociale si sono esaurite e hanno smesso di rispondere alle aspettative di chi pensava di meritare di più e meglio. La qualità della vita urbana è peggiorata in favore di prestigiosi eventi internazionali, che hanno assorbito le risorse da destinare invece al miglioramento dei trasporti, dell’istruzione e dei servizi pubblici in generale. Il razzismo ha mostrato la sua tenace persistenza nel tessuto sociale e nelle forze di polizia. Sono aumentati gli assassinii di leader indigeni e contadini, demonizzati dal potere politico in quanto "ostacoli alla crescita" semplicemente perché lottano per le loro terre e per il mantenimento delle proprie forme di vita, contro l’agribusiness e i megaprogetti minerari e idroelettrici (come la diga di Belo Monte, destinata a fornire energia a basso costo all’industria estrattiva). La presidente Dilma è stata la cartina di tornasole di questo mutamento insidioso. Ha assunto un atteggiamento di evidente ostilità verso i movimenti sociali e i popoli indigeni, un cambiamento drastico rispetto al suo predecessore. Ha combattuto la corruzione, però ha lasciato per gli alleati politici più conservatori gli ambiti considerati meno importanti. Così, la Commissione dei diritti umani, storicamente impegnata per i diritti delle minoranze, è stata affidata a un pastore evangelico omofobo, che ha promosso una proposta di legge nota come "cura gay". Le manifestazioni rivelano che, più che il paese, è stata la presidente a svegliarsi. Con lo sguardo rivolto agli avvenimenti internazionali e anche alle elezioni presidenziali del 2014, la presidente Dilma ha ben chiaro che le risposte repressive servono solo ad acuire i conflitti e a isolare i governi. In questo senso, i sindaci di nove capitali hanno già deciso di abbassare il prezzo dei trasporti. E’ solo un inizio. Perché sia consistente, è necessario che le due narrazioni (democrazia partecipativa e inclusione sociale interculturale) ritrovino il dinamismo. Se così sarà, il Brasile mostrerà al mondo che vale la pena pagare il prezzo del progresso solo se si approfondisce la democrazia, si distribuisce la ricchezza prodotta e si riconosce la differenza culturale e politica di coloro che considerano arretratezza un progresso senza dignità. *Docente in Sociologia del diritto all’Università di Yale e ordinario di Sociologia all’Università di Coímbra; traduzione di Geraldina Colotti)
BRASILE – II 25 giugno un agente e otto civili sono morti durante un raid della polizia in una favela vicino all’aeroporto interazionale di Rio de Janeiro.

[b]ECUADOR[/b]
UNA RIFORMA SOSPETTA / Il 14 giugno l’Ecuador ha approvato una legge per regolare il sistema dei mezzi d’informazione. Il provvedimento istituisce un organo incaricato di vigilare sulle attività dei giornali e delle emittenti, ed eventualmente d’imporre sanzioni. Inoltre, di-spone la ridistribuzione delle frequenze radiotelevisive. L’obiettivo del governo è limitare il numero di emittenti private e affidare allo stato il sistema radiotelevisivo. Secondo l’opposizione, la legge è una limitazione all’esercizio del giornalismo nel paese. El Comercio ricorda che il presidente Rafael Correa ha già fatto chiudere venti mezzi d’informazione di opposizione e ha creato un sistema per censurare "t contenuti pubblicati sulla carta stampata.

[b]CILE[/b]
SANTIAGO – L’ASSALTO CANADESE / Pascua Lama è l’unico progetto minerario binazìonale del mondo. Riguarda un filone d’oro situato a più di quattromila metri di altezza sopra il livello del mare, al confine tra il Cile e l’Argentina e sotto un sistema di ghiacciai protetti dalla legge. Il progetto è gestito dall’azienda canadese Barrick Gold, accusata dalie autorità cilene di gravi violazioni ambientali. L’azienda è in difficoltà e rischia una multa da dieci milioni di dollari. Secondo América Economía, il Canada è ormai un attore chiave nell’industria mineraria latinoamericana. Tra i paesi dove si sta facendo più strada ci sono l’Ecuador e la Colombia. Secondo Alain Denault e William Sacher, autori del libro Noir Canada, il 60 per cento dei progetti minerari nel mondo si finanziano alla borsa di Toronto. E la maggior parte delle aziende canadesi è coinvolta in casi di corruzione, contaminazione, danni alla salute pubblica e collisione con i signori della guerra

[b]AMERICA SETTENTRIONALE[/b]

[b]STATI UNITI[/b]
– Un piano per il clima / Il 25 giugno il presidente statunitense Barack Obama ha pre-sentato un piano contro i cambiamenti climatici che prevede incentivi alle fonti rinnovabili e, soprattutto, la limitazione delle emissioni di gas serra prodotte dalle centrali elettri-che a carbone. "Obama", scrive il New York Times, "è con-vinto da tempo che il modo migliore di affrontare il problema sia rissare un prezzo per le emissioni di gas serra, prodotte in grandi quantità dalle centrali elettriche e dai costruttori di automobili senza costi per chi inquina ma con grandi costi per il pianeta. E dato che il congresso ha sempre rifiutato di approvare un piano per il cli-ma, il presidente ha deciso di scavalcarlo approvando le misure che non richiedono un vo-to parlamentare".

WASHINGTON – LA CORTE APRE AI MATRIMONI GAY / li 26 giugno la corte suprema ha invalidato, per cinque voti a quattro, la legge che definisce il matrimonio un’unione tra un uomo e una donna. La decisione, applaudita dai militanti per i matrimoni gay riuniti davanti alla sede della corte, permetterà alle coppie dello stesso sesso legalmente sposate in dodici stati e nella capitale Washington di beneficiare degli aiuti federali garantiti alte coppie eterosessuali. Secondo i sondaggi, la maggioranza degli statunitensi è favorevole ai matrimoni gay.

STATI UNITI – QUESTIONE RAZZIALE Il 25 giugno la corte suprema ha invalidato, con cinque voti a favore e quattro contrari, una parte di una legge elettorale approvata nel 1965, all’epoca della lotta per i diritti civili, che serviva a impedire le discriminazioni razziali negli stati dal passato segregazionista. La corte, scrive il Washington Post, ha ritenuto incostituzionali i controlli per garantire il diritto di voto delle minoranze in nove stati, quasi tutti nel sud del paese, sostenendo che la legge non teneva conto dei mutamenti avvenuti nella società americana dagli anni sessanta a oggi. 11 presidente Barack Obama, il ministro della giustizia Eric Holder e le organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno criticato duramente la sentenza.
Il 21 giugno il presi-dente Barack Obama ha nominato Jim Comey direttore dell Fbi. Comey prende il posto di Robert Mueller.

USA
NEW YORK – INTERVISTA David Remes, giurista e legale dei detenuti. Sciopero della fame al quinto mese «GUANTANAMO REGIME CRUDELE, SIAMO AL 2002» di Patricia Lombroso
«Con il muro di gomma della nuova brutale carcerazione il rischio è che nemmeno si saprebbe della morte o del suicidio di un detenuto»
«A Guantanamo lo sciopero della fame dei detenuti è al suo quinto mese. I secondini dalla fine di aprile hanno nuove direttive crudeli, impartite dalla nuova gestione del regime a Guantanamo del colonnello Bogdan, che puntano ad utilizzare ogni mezzo e misura coercitiva per spezzare lo sciopero della fame dei disperati di Guantanamo. Sono 142 su 166 detenuti che non intendono sospendere lo sciopero della fame sino alla loro liberazione. Le condizioni sono degradate al punto che possiamo sicuramente parlare di un ritorno alla Guantanamo del 2002. E inoltre nessun giornalista né alcun legale dei detenuti ha piu la possibilità di avere accesso al carcere».
È con questa agghiacciante denuncia del degrado delle condizioni dei prigionieri di Guantanamo che David Remes, giurista statunitense e avvocato di oltre dodici detenuti di Guantanamo descrive nell’incontro con il manifesto quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi e nel silenzio di gran parte dei media. Il Pentagono, questa settimana, ha ammesso ufficialmente che è salito a 44 il numero dei detenuti a nutrizione forzata («per motivi umanitari», viene aggiunto. «Rifiutando il cibo sappiamo bene il rischio di morte giorno dopo giorno. E la scelta che abbiamo fatto – ha raccontato Samir al Hasan Moqbel in una telefonata all’organizzazione di Londra Reprieve e pubblicata come editoriale del New York Times – Ma la situazione ora è disperata. Non esiste né speranza né fine alla nostra detenzione a Guantanamo. È la nostra scelta di fronte alla crudeltà ed alla sofferenza. Spero soltanto che le sofferenze che subiamo possano servire a destar ancora l’attenzione su quello che accade a Guantanamo prima che sia troppo tardi». Purtroppo fino ad ora le pressioni al massimo livello internazionale e istituzionale di Navi Pillar, Commissario dell’Onu per i diritti umani, di Amnesty International e della Croce Rossa internazionale sull’amministrazione statunitense del premio Nobel della pace Barack Obama hanno portato a scarsissimi risultati. Anzi il vero risultato sono nuove, estreme misure coercitive. «Dopo l’irruzione violenta nelle celle il 15 aprile scorso dei militari in uniforme d’assalto armato (joint extraction operation), la carica con pallottole di gomma e l’isolamento in celle singole nel settore di "massima custodia e sicurezza" – ci spiega il giurista Remes – è stata introdotta una doppia tortura: la nutrizione forzata aggiungendo anche la perquisizione fisica "strip searching", una volta denudati e i detenuti che protestano vengono palpati per tutto il corpo con controlli invasivi dei genitali per chiunque avesse intenzione di comunicare con il proprio legale o con i propri familiari. La conseguenza è stata che nessuno dei miei clienti ha più dato notizie pur di evitare questa ulteriore tortura». «Guantanamo – prosegue David Remes – così è tornata indietro alle condizioni barbare del limbo legale del 2002.Il compito di instaurare le direttive di questo brutale regime con il muro del silenzio da e verso il mondo esterno è stato affidato recentemente al colonnello Bogdan, un capitan Bligh (quello del Bounty) dei giorni nostri. Che in cella ha tolto le lettere dei familiari, il dentifricio, la tv , l’illuminazione 24 al giorno, imponendo la nutrizione forzata e svegliando i detenuti ripetutamente mentre dormono di notte. Non mi meraviglierei se tutto ciò anziché spezzare lo sciopero della fame dei detenuti disperati li incoraggi alla "scelta con rischio di morte" di cui parla Samir Moqbel».
Chiediamo a Remes delle reazioni dei suoi clienti alle promesse di rescindere la moratoria per gli 86 yemeniti, prosciolti gia nel 2006 da Bush e nel 2009 da Obama. Ancora una risposta lapidaria: «Il preventivo di 550 milioni di dollari. per ristrutturare Guantanamo – risponde Remes – è stato fatto prima dell’elusivo discorso di Obama al paese sulla "National security". La promessa della periodica revisione governativa comprende caso per caso, da sottoporre a mesi di procedure burocratiche ancor prima di essere avviata. E poi , dopo 11 anni a Guantanamo quale testimonianza possono ancora fornire questi detenuti innocenti per l’82%? È un assurdo kafkiano». E intanto, in questo muro di gomma instaurato con il nuovo regime di detenzione ferrea, come si viene a sapere se qualcuno muore o si suicida? «È proprio quello che temiamo», risponde concludendo Remes.

USA /NYC – VOTO ALLE MINORANZE, COLPO DELLA CORTE . Duro colpo della Corte Suprema americana alla legge sul diritto di voto delle minoranze, una delle battaglie simbolo per per i diritti civili su cui Obama ha puntato molto. I cinque «saggi» hanno deciso di abolire una norma chiave dello storico «Voting Rights Act» del 1965: quella secondo cui nove Stati del Sud con un passato di discriminazioni razziali (dall’Alabama al Mississippi, dalla Georgia alla Louisiana) possono modificare la propria legge elettorale solo se autorizzati dal Congresso. Una norma «superata», secondo i cinque giudici di nomina repubblicana che l’hanno bocciata, accogliendo il ricorso della Contea di Shelby,

NYC – LA NUOVA STRUTTURA DIRIGENZIALE DELL’ASSOCIAZIONE PIEMONTESI NEL MONDO DI NEW YORK / Si sono riuniti in assemblea scorso maggio presso il ristorante “Barbetta”, 321 West 46th Street, New York, NY 10036 i soci dell’Associazione Piemontesi nel Mondo e Amici del Piemonte, che hanno proceduto tra l’altro, al rinnovo delle cariche sociali in vigore fino al 18 maggio 2015. Sono stati eletti in qualità di Presidente il Prof. Vittorio Canuto e di Vice Presidente la Dott.sa Simona Rodano, personaggi di grande rilievo nella realtà piemontese locale che garantiranno continuità al lavoro svolto con grande abnegazione dalla Presidentessa uscente Dott.sa Laura Maioglio, nonché dal Vice Presidente uscente Avv. Massimo Manzoni, che è stato anche il coraggioso artefice della rinascita dell’Associazione nella grande New York. 2008.

 

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